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Reportage. Il bosco fiorito di Antonimina

  •   Arturo Rocca
Reportage. Il bosco fiorito di Antonimina

Cu veni a Ntonimina scindi a Locri,

la capitali di l’antichi Greci,

pigghja la strata chi vaji a Jeraci

e do spitali cangia pe’ Mirici (…)

Quando negli anni ‘50 e ‘60 i pastori di Antonimina scendevano a Locri, con la corriera di don Nicola Luverà o spesso a piedi (per vendere le ricotte nelle fiscelle che arrivavano ancora calde perché tenute a bagno nel siero e ricoperte da foglie di felci), venivano scherniti come forisi. Ma gli antoniminesi non se la prendevano perché in effetti non si sentivano a proprio agio in un contesto pseudo signorile, era gente seria che puntava al sodo e badava di più a non essere ingannata da “quelli della marina”.

E non ha fatto come la contadina della favola che, a furia di fantasticare su quanto avrebbe guadagnato dalla vendita delle ricotte immaginando di diventare una “signora”, si fece l’inchino lasciando rovinare a terra la fonte delle sue presunte ricchezze. Ha tirato dritto per la sua strada e si è ambientata meglio sui sentieri di montagna e per quelli del mondo intero dove si è fatta onore per rettitudine, impegno e imprenditoria. É stata forgiata dall’ambiente circostante che l’ha resa essenziale e capace! Non avendo alle spalle una grande storia da vantare e su cui trastullarsi come altri vicini di casa, ha avuto l’orgoglio e la passione per costruirsi un futuro e resiste arroccata alla timpa delle Prache, che la difende dai venti rigidi di Tramontana e Maestrale.

Si affaccia sulla ionica da un balcone a 327 metri seguendo con lo sguardo il corso della fiumara Gerace, alle cui acque partecipano con numerosi displuvi e con quelle della fiumara Grottella il cui canyon è inserito da Stefano Ardito, nella sua guida Andar per sentieri (ediz. De Agostini) tra le 75 escursioni nei luoghi più belli d’Italia.

Ma Antonimina, che dota il Parco dell’Aspromonte col 51,50% del suo territorio (1170 ettari) è un contenitore di numerose emergenze naturali ed anche storiche su cui val la pena di fare il punto e di investire da parte di chi ne ha la responsabilità.

Cominciamo dal centro che conserva il nome di terrata riconducibile all’insediamento originario che, sicuramente, fu il ricovero delle greggi. La tradizione leggendaria aggiudica ad un pastore di nome Antonio Mina la sua fondazione, si ricordi che il cognome Mina è tra i più diffusi in loco.

L’abitato di Antonimina appare incorniciato da due parentesi graffe: i torrenti Cortaglia e Micò che, unendosi, formano la fiumara di Antonimina, e attraversato lo stretto di Molinello diventa di Portigliola.

Due corsi d’acqua sempre attivi che riservano emozionanti sorprese agli escursionisti: canyon, rocce modellate a forme di delfini, mammelle, teste di lupo.

Sul Micò bocche di miniera di lignite picea ed una cava di solfato di bario in località Saramico; in località Patera esiste uno dei frantoi più antichi della zona, contestualizzato da un ponte in pietra sicuramente altomedievale ma la cui tecnica costruttiva riporta ai Romani, che utilizzavano questa via per raggiungere le fortificazioni di Bracatorta, i cui resti vengono impropriamente detti mureda di vagni. Larga mulattiera ancora selciata di grande valenza ingegneristica, oltre che storica, dotata di aree di sosta per il riposo e risparmiata casualmente dall’opera insensata delle ruspe, avrebbe bisogno di molta attenzione.

Anche il sentiero, che da Tre Arie porta al centro, avrebbe bisogno di essere ripristinato perché interrotto da una frana ma abbandonarlo è come cancellare una parte della storia civica. Sul Cortaglia domina la rocca di Giliberto che si sfalda in continuazione creando quinte sempre differenti e, nella parte terminale, lo splendido Vasalu da Conca, scivolo granitico con bagno finale nel laghetto naturale: la spiaggia degli antoniminesi.

Vigilano sull’abitato due imponenti sentinelle: Rocca San Mauro a nord-ovest (836 metri), masso di arenaria a grana grossa che troneggia contorta e modellata sulla vallata del Micò, interessante meta naturalistica e paesaggistica e protagonista di una leggenda del luogo da apprendere sul posto; monte San Pietro a sud-est (710 metri), detto Tre Pizzi per la sua conformazione a tre punte e incantevole balcone sulle ionica su cui esiste in rudere una chiesetta di impianto bizantino mononavata attiva fino agli anni ‘60 per la novena dei santi Pietro e Paolo; Timpa della Donna e Rocca di Donacà che, al compianto professore Domenico Raso, evocavano il santuario di Persefone fuori le mura dell’antica Locri; le rocche di Spilinga, piccola Stonhenge di Antonimina luogo di grande valenza esoterica dove esiste un graffito datato 1334 (eterno monimento nell’anno 1334 Stefano Fisiani e Francesco Rassafif) che richiamerebbe ad un duello tra due contendenti che si colpirono a morte.

Non c’è cercatore di funghi (con tesserino) che non sappia difagu randi, fagu du’ lupu, puntuni da’ caserma, i fossi da’ nivi (c’è ancora il rudere della casetta che Peppi u niveri di Cittanova usava quando lavorava ad infossare la neve da rivendere in estate) come non c’è cultore del territorio che non s’interroghi su toponimi come Pietra della Morte o Dottorazzo, Rocca dell’Addrizzo e Rocca della Scala (con i ruderi di un antico cenobio probabilmente femminile), Deteruti e Cirì, Badia e Precaddeu, Dilica e Grazzina.

In contrada Sulfurio esiste un antico, imponente palmento, scavato nella roccia a due vasche che varrebbe la pena di rendere fruibile ai visitatori.

Un capitolo a parte meriterebbero le sorgenti che sgorgano nel suo territorio ed è proprio il caso di dire che Antonimina “fa acqua da tutte le parti”, ma in senso letterale, ci limitiamo a citare fra tutte quella che è risultata alle prove di laboratorio la migliore in assoluto tra le acque da bere: Bragatorto, che scorre incessante nella piazzetta accanto al cimitero alla cui fontana è stata apposta una piastra metallica con QR code, a cui basta avvicinare lo smartphone per avere il risultato delle analisi effettuate a cura dell’Osservatorio ambientale!

Ma quello che fa la differenza sono le acque termali che sgorgano nel suo territorio e che sono sfruttate a fini curativi fin dall’antichità; sono dette Acque sante e classificate “acque termo minerali isotoniche, leggermente sulfuree-salso-solfato-alcaline con tracce di iodio” che affiorano alla temperatura costante di 32 gradi.

Gli abitanti di Locri Epizephyri costruirono un acquedotto per portare le acque fino alla città e ne fa menzione Plinio nel I sec. d.C. e, verosimilmente, tali acque furono quelle usate nell’edificio termale romano di Quote di San Francesco in epoca tardo antica. Gli storici, in età più vicine a noi, le menzionano a cominciare dal Barrio (1510-1577), padre Girolamo Marafioti nel 1601 ricorda la salubrità de “i bagni di acqua sulfurea, salsa, e calda nelle quali si guariscono molti mali e si dispongono le donne alla generazione” e lo ribadiscono padre Giovanni da Fiore in Calabria Illustrata ed il vescovo Tommaso Aceti nel commento all’opera del Barrio.

Il possesso delle acque termali fu per lungo tempo dei padri francescani di Gerace per poi essere trasferite alla neo parrocchia di San Nicola di Bari nel 1605 ma, con l’elevazione di Antonimina a comune autonomo, sorse una lite con Gerace per la sua proprietà; dopo mezzo secolo la vertenza fu risolta dal principe Eugenio di Savoia che, con Decreto 3 maggio 1861, le concesse in enfiteusi ai comuni di Gerace ed Antonimina. In atto, lo stabilimento termale è gestito da un Consorzio dei due comuni ma, sottotraccia, serpeggia sempre una certa rivalità e l’obiettivo dello sviluppo non riesce ad essere prioritario. 

Le qualità delle acque sono attestate da molti esperti e consigliate in innumerevoli impieghi, come ricordava il compianto professore Salvatore Sansotta. A cominciare dal reumatismo muscolare ed articolare cronico, nell’artrosi e nelle artrosinoviti, nelle artriti post traumatiche, nelle dermatosi e dermatiti croniche da contatto e di origine entero ed esotossiche; nelle brocopatie catarrali croniche ed affezioni catarrali dell’orecchio, naso, gola, sinusiti, ozena (rinite cronica atrofica); affezioni degli organi genitali femminili, metriti, cerviciti, salpingo-ovariti croniche, postumi di pelvi peritoniti e nella sterilità femminile secondaria.

L’impiego avviene mediante bagni, docce, irrigazioni, inalazioni, aerosol, humages; le stanze sono munite di vasche con idromassaggio e si offre un servizio di massoterapia.

Nell’uso idroponico a dosi opportune le acque sono indicate nelle gastriti iposecretive, nell’insufficienza epatica e disepatismi in genere, nell’atonia delle vie biliari, nella stipsi cronica e nella colite cronica.

Il nuovo stabilimento ha enormi potenzialità che non sono sfruttate anche per un retaggio di problemi che stenta a risolversi, oltre che per la riduzione dello stanziamento nella sanità regionale per il rimborso per gli aventi diritto. Ma è giusto ricordare che oltre alle Acque sante dello stabilimento sgorgano nel giro di pochi chilometri una serie di sorgenti che allo stato non trovano impiego: sulfurea, della milza, della purga, delle emorroidi.

Nc’esti l’acqua suffarina,

di la Purga e di la Mirza,

a ogni passu nc’è na vina,

vi lu giuru, è na ricchizza (…)

I versi sono di Micu Pelle – poeta contadino


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