Paesi del Parco. Scido, lo sguardo al cielo d'Aspromonte
- Arturo Rocca
di ARTURO ROCCA - Stretto tra Santa Cristina e Delianuova, sostenuto dal basso da Cosoleto e trattenuto dall’alto da San Luca appare Scido con i suoi 17,53 chilometri quadrati. Al 69° posto tra i Comuni della Provincia per estensione, dota il Parco nazionale dell’Aspromonte con 1083 ettari, pari al 62,30% del suo territorio. Secondo alcune teorie la posizione la scelsero i fuggitivi dalla distruzione di Taureana da parte degli Arabi nel 951 d.C. perché si trattava di una conca infoltita, che chiamarono “luogo nascosto coperto di alberi” (Schiodos, Schidos, Scidos). Secondo altri si tratterebbe di popolazioni ioniche che per sfuggire ai pirati si rifugiarono prima, seguendo a ritroso la fiumara Amendolea, sugli speroni di Roghudi, Condofuri e Roccaforte e poi vagando sulle alte cime dell’interno sarebbero arrivati alla conca pianeggiante dove si fermarono perché facilmente difendibile e per la presenza di abbondanti acque sorgive e dei torrenti Cresarini e Pietragrande.
In qualunque caso gli scidesi sono un popolo che ha lo sguardo sempre verso l’alto con un forte senso di elevazione perché “girando lo sguardo non vedi che montagne e cielo” per dirla con don Santo Rullo, già parroco di Scido. Proprio perché si vedono solo montagne e cielo a Scido s’impara presto a conoscerli e questo caratterizza gli abitanti per l’indole “cordialmente accogliente ed ospitale; attiva ed intraprendente; semplice negli usi e nei costumi; amante del lavoro e dell’avere; guardinga da chi tenta di sfruttarne la fiducia”. Sempre per dirla con don Santo Rullo. Ma la storia ci racconta che in taluni casi gli scidesi furono oggetto di qualche truffa di regime. Ci riferiamo all’affaire Sanatorio Vittorio Emanuele III di Zervò. Per la verità non furono i soli coinvolti ma ne ereditarono la parte più consistente.
Tra il novembre 1924 ed i primi giorni del 1925 i Comuni di S. Cristina, Oppido, Scido, Tresilico, Varapodio e Platì diedero, con delibere consiliari, in concessione d’uso gratuito e perpetuo i terreni per la costruzione del Sanatorio posti alle pendici del monte Scorda. La concessione comprendeva circa 315 ettari di bosco di abete e faggio e l’uso dell’acqua dei ruscelli di contrada Acqua di faggio. L’Onig (Opera nazionale invalidi di guerra) firmò una convenzione con i Comuni che prevedeva la restituzione in caso di chiusura dell’attività sia dei terreni che dei fabbricati, questi ultimi ricadevano nel territorio di Scido. Il 28 ottobre del 1929 furono consegnati i 9 padiglioni (circa 56.000 metri cubi di superficie coperta) al Centro di cura e riabilitazione per gli ex militari della Grande Guerra affetti da tbc. La propaganda di regime con false notizie sulla salubrità del luogo portò diverse migliaia di malati a ricoverarsi ma ben presto le condizioni climatiche sfavorevoli e le difficoltà logistiche per raggiungere il posto consigliarono una precipitosa ritirata procedendo alla chiusura della struttura nel silenzio imposto dal regime per nascondere l’errore macroscopico. Nel dicembre del 1933 ormai era chiuso ma nel 1934 stranamente l’Infps (l’Inps fascista) se lo comprò per una cifra che servì da ampio ristoro all’investimento iniziale e da dorata vacanza per un ex capo servizio a cui l’Inps mise fine solo nel 1954 con la chiusura definitiva della struttura ponendo fine a trent’anni di sprechi.
Naturalmente i Comuni chiesero la restituzione dei terreni prevista nella convenzione e Scido, nel marzo del 1959, riottenne la proprietà dei fabbricati che nel frattempo si erano trasformati in ricovero per gli animali che vagavano nella zona. Il Comune di Scido non si rassegnò a lasciare questo patrimonio abbandonato al degrado e al vandalismo e mise in moto una serie di progetti che pian piano cominciarono a realizzarsi fino a giungere al restauro della quasi totalità degli edifici, si poneva però il problema della loro utilizzazione. Caserma dei Carabinieri, scuola per Allievi delle Guardie Forestali, Ostello della Gioventù ed eventuale costruzione di una pista da sci. Tutte ipotesi che si deterioravano col passare del tempo. Data la posizione si cercò di agganciare le sorti di Zervò all’istituendo Parco nazionale dell’Aspromonte ma anche le sorti del Parco si trascinarono stancamente fino al 1994, quando finalmente fu istituito, e si sperò fino alla fine che questa splendida struttura potesse accogliere almeno la sede di vigilanza del Parco nazionale dell’Aspromonte ma, la storia si ripete, essa fu aperta in città a Reggio ed in locali presi in affitto.
Passano ancora quasi due anni prima che una nuova luce si accenda per Zervò: la richiesta di don Pierino Gelmini di avere tutti i fabbricati in comodato d’uso gratuito per 99 anni. La cosa si concretizza e l’1 dicembre del 1996, esattamente 67 anni 2 mesi e 5 giorni dopo la prima apertura, finalmente l’ex sanatorio risorge a nuova vita. Rivive anche tutto il territorio circostante, le attività della Comunità fanno da traino ad una serie di iniziative di tipo sportivo, culturale, economico e politico. Come in ogni situazione si creano schieramenti pro e contro il protocollo adottato dalla Comunità Incontro per il recupero dei ragazzi con problemi di droga. Nel dibattito si inseriscono anche motivazioni di tipo politico legate alle preferenze di esponenti della destra nazionale e locale, tutto sommato riconducibili alle normali schermaglie sociali. Purtroppo anche questa esperienza ha dato segni di cedimento con l’avanzare dell’età del guru don Gelmini e dal 2007 dopo l’avviso di garanzia ed il rinvio a giudizio per presunti reati sessuali. Don Gelmini nel 2008 viene ridotto allo stato laicale, su sua richiesta; nell’agosto 2014 muore all’età di 89 anni e Zervò gli sopravvive per poco tempo. Per fortuna dopo i primi segni di degrado il Comune di Scido con delibera del 2 giugno 2015 concede, in comodato d’uso a titolo oneroso, la struttura alla cooperativa sociale “Il segno” di Oppido Mamertina, esattamente dopo 85 anni 7 mesi e 4 giorni dall’inaugurazione. É la terza vita per Zervò e speriamo che tutti gli attori sociali coinvolti nella responsabilità della nostra montagna facciano la propria parte non permettendo che la struttura subisca un altro abbandono lasciando sguarnito un così meraviglioso territorio di un presidio di vivibilità. Sono tanti gli elementi da evidenziare e valorizzare in questo piccolo Comune, per estensione e popolazione, ma con un rapporto straordinario di emergenze naturalistiche a cominciare da tre veri patriarchi in località Pedia tra gli 800 e gli 862 metri s.l.m.: un castagno monumentale con oltre 7 metri di circonferenza e 24 metri di altezza; un leccio con quasi 7 metri di circonferenza e oltre 30 metri di altezza; un corbezzolo con quasi 1,50 metri di circonferenza per oltre 8 metri di altezza. Sul corso della fiumara Pietragrande in prossimità del ponte Scrisa è possibile ammirare una estesa colonia di felce bulbifera (Woodwardia radicans) che è un indicatore eccezionale di biodiversità.
Da non trascurare il grazioso agglomerato urbano di Santa Giorgìa che allo stato conta solo 44 abitanti ma che ha avuto l’acume di costituire un’associazione con all’attivo un sacco di progetti di conservazione e sviluppo e obiettivi ambiziosi che fanno ben sperare. É posta sulla riva del vallone dello Schiavo che alimentò in passato numerosi opifici, oggi in abbandono, ma che ha dei tratti interessantissimi da percorrere seppur necessitanti di accurata pulizia. Ma anche qui lo sguardo è sempre rivolto verso l’alto ed è di ottimo augurio.