Ambienti e Città. I ferri della speranza
- Federico Curatola
Li ho definiti i “ferri della speranza”. Sono le armature dei pilastri che sbucano dai solai e si stagliano al cielo come se volessero aggrapparvisi. Sono l’emblema del “non-finito” che caratterizza un po’ tutto il Meridione e che trova la sua sublimazione in Provincia di Reggio. Un “costume” ampiamente diffuso che dagli anni ‘70 ha trovato cittadinanza ovunque, salvo rare, rarissime eccezioni. Centri abitati come Melito di Porto Salvo hanno in qualche decennio quintuplicato la superficie edificata, ma non la propria popolazione, che è aumentata dal dopoguerra ad oggi di poco più di un terzo. Nel 1951 contava 8704 abitanti (dati Istat), oggi ne conta 11.706, solo 3.000 abitanti in più a dispetto di una proliferazione edilizia che ci consegna un agglomerato capace di ospitare, si stima, circa 45.000 abitanti. Basta confrontare le due carte (in basso) per rendersi conto come sia “cresciuta” la città e come siano andati perduti i caratteri insediativi impressi circa cento anni fa, all’espansione urbana. Dal confronto si riescono a riconoscere gli assi viari principali, quello parallelo alla costa ed i due perpendicolari nati per collegare il nucleo originario alla stazione ferroviaria. Ma il resto è caos. La forma urbana, ben riconoscibile nella prima immagine, seppure figlia di un’edilizia spontanea lungo un asse, mostra l’intenzione di uno sviluppo razionale dell’edificato e la presenza, voluta, di quelli che possiamo definire i “progenitori” della zonizzazione urbana per “funzioni”. Zona “direzionale” (uffici scuole e servizi), ospedale, sorto a pochi metri dalla stazione ferroviaria, quartiere popolare abitato dai pescatori, primi insediamenti produttivi per la trasformazione del bergamotto. Assi viari rettilinei, distanze tra i fabbricati, tipologie edilizie più o meno uniformi.
Questo fino all’immediato dopoguerra, come si evince dall’aerofotogrammetria del 1954. Poi accade qualcosa. Una crescita sfrenata, l’avvento di nuovi materiali per l’edilizia, l’incontrollata proliferazione di nuove costruzioni che smettono di tenere conto di distanze, di allineamento con altri edifici, di altezze e anche di colore. Sono gli anni del boom economico. Ognuno ha un fazzoletto di terra e vi costruisce. Abbandona la propria abitazione nel Paese Vecchio, che una fuorviante parvenza di benessere ed una costante ricerca della “comodità” ormai classifica come inadeguata, e costruisce su quel fazzoletto di terra. Non importa come è orientato, non importa se è servito o meno da una strada pubblica, quello che conta è costruire. Ma non un piano o due (zona giorno e zona notte), almeno tre o quattro, a seconda del numero dei figli! Così sorgono questi enormi mostri, molti dei quali rimangono con le semplici strutture verticali ed orizzontali, senza tamponatura esterna e senza ovviamente nè tetto nè facciata.
Famiglie che hanno dilapidato patrimoni per “fabbricare” e lasciare poi all'azione corrosiva degli agenti atmosferici il “frutto” dei loro sacrifici. Centinaia di famiglie. Centinaia di milioni di lire e mutui ventennali che hanno contribuito a dissanguare la già flebile economia e a ridurre alla stagnazione l’iniziativa privata. Se i milioni investiti in cemento e mattoni, fossero stati investiti infatti nella creazione di imprese familiari e piccole attività produttive legate ai prodotti locali ed all’artigianato, oggi avremmo sicuramente un paesaggio meno agghiacciante ed un ben diverso indice di ricchezza ed occupazione. Tutto ciò, certo, è stato reso possibile anche dalle decisioni della politica. Da piani e programmi di dubbia validità, ai quali si è messo ripetutamente mano, anche se “la pezza”, molto spesso è risultata peggiore del “buco”. Parlo di Melito o dell'Area Grecanica perchè ci vivo ed opero, ma il fenomeno è diffuso e generalizzato e Reggio, Città Metropolitana, probabilmente ha, per dimensioni, il primato mondiale degli edifici non finiti e sorti in maniera disorganica ed incontrollata. Come possiamo “cancellare” gli sfregi che due generazioni precedenti alla nostra hanno inferto a questo territorio? È una sfida ardua ed è compito di chi ha i mezzi “culturali” per farlo combatterla, stimolando chi ha responsabilità istituzionali. Nell’attesa, magari, che le due figure combacino.