Aspromonte. Un patrimonio in abbandono
- Alfonso Picone Chiodo
Nel 1863, con la fondazione del Club Alpino Italiano, aumenta sempre più la frequentazione della montagna, all’inizio per motivi scientifici e poi per interesse di scoperta e conoscenza. I primi alpinisti necessitano di strutture che offrano riparo ed è del 1866 la realizzazione del primo rifugio del CAI, l’Alpetto al Monviso. Negli anni successivi molte sezioni del CAI, con uomini di grande capacità ed entusiasmo, provvedono alla costruzione di nuovi rifugi in grado di facilitare ascensioni, traversate e superamento di colli elevati. Oggi sono 774 i rifugi ed i bivacchi del CAI presenti sulle montagne italiane per un totale di 23.044 posti letto. Ogni rifugio ha una sua storia. Molti sono entrati nella leggenda dell’alpinismo. Alcuni sono vere e proprie opere di alta ingegneria: realizzati in luoghi difficili con materiali sofisticati. Altri sono semplici costruzioni, essenziali, povere. Alcuni possono ospitare centinaia di persone, altri pochissime. Alcuni sono custoditi, altri non hanno alcun gestore. Tutti sono una casa, un posto sicuro, un luogo protetto. La rete di rifugi e punti d’appoggio che si è sviluppata in circa un secolo e mezzo è, nelle regioni alpine, più che soddisfacente per l’alpinista e l’escursionista mentre nel resto d’Italia ancora attende di essere sempre più organizzata e definita. La sezione di Reggio Calabria del CAI possedeva una struttura, fin dall’anno 1933, ubicata a Gambarie (comune di S. Stefano d’Aspromonte) intitolato al socio Riccardo Virdia che il 29 gennaio 1967 perse la vita per prestare soccorso a degli sciatori. Per circa mezzo secolo, quando l’accesso a Gambarie era un’avventura, il rifugio del CAI fu luogo di aggregazione di centinaia di soci e appassionati anche siciliani degli sport invernali ma, nel 2007, l’Amministrazione provinciale ha, con poca lungimiranza, disconosciuto il ruolo del CAI affidando la struttura ad un privato. Ora che l’escursionismo si è diffuso anche in Aspromonte diviene inderogabile l’individuazione di una serie di rifugi che consenta di offrire questa montagna ad una utenza più ampia ma rispettosa dell’ambiente. Paradossalmente la nostra montagna ha un numero notevole di strutture che potrebbero assolvere tale funzione ma nessuna adibita a rifugio. Unica eccezione è il rifugio “Il Biancospino” ai piani di Carmelia 1267 mslm (Delianova) realizzato nel 2004 dalla guida Antonio Barca. Esistono oltre 60 caselli forestali (ma è una stima in difetto), alcuni gestiti dall’ex Afor, ubicati in gran parte nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, in siti che vanno dai 408 ai 1579 m. di quota, realizzati in epoche diverse, con tipologie e materiali vari, in uno stato conservativo da pessimo a buono. Gran parte di essi sono nati proprio per ospitare gli operai forestali negli anni tra il 1950 e il 1980, anni in cui la “forestazione” rimboschiva migliaia e migliaia di ettari di superficie degradata. L’origine e l’architettura di queste strutture è quindi assimilabile proprio a ricoveri attrezzi o a ripari per gli operai. Ma nel recente passato il CAI fu precursore dell’utilizzo dei caselli forestali quali punto d’appoggio per gli escursionisti. Nel primi anni ‘90 infatti, grazie anche alla promozione della quale beneficiò l’Aspromonte con l’iniziativa del Sentiero Italia, iniziarono i primi trekking nella nostra montagna da parte di alcune “coraggiose” sezioni CAI del Nord Italia. Tra le prime quella di Pinerolo che nell’aprile del 1992 pernottò nel casello di San Giorgio di Pietra Cappa ed in quello di Cano. Nello stesso periodo giunse la sottosezione Edelweiss di Milano che sostò a Pesdavoli, Polsi e Cano. Di anni ne sono passati da allora senza che siano stati fatti progressi ma continuiamo a pensare a un diverso modo di utilizzare alcune di esse, anche poche, ma scelte tra quelle la cui collocazione possa essere strategica per un ottimale utilizzo escursionistico e associativo. Proporre un utilizzo associativo con contratti di comodato d’uso che prevedano, attraverso dei “progetti”, sia i finanziamenti per le ristrutturazioni edilizie sia il successivo utilizzo per attività didattiche, informative e/o di ospitalità, potrebbe essere la soluzione per ridare vita a questo tipo di edilizia montana ora in gran parte abbandonata. Sono varie e molto interessanti le attività che si potrebbero organizzare in alcuni di questi caselli, se sistemati in modo adeguato, consentendo anche in alcuni casi la creazione di piccole attività imprenditoriali e occupazionali, di cui il nostro territorio ha urgente bisogno. Però l’Afor è commissariata, l’Ente Parco tace e nel frattempo assistiamo all’inesorabile degrado delle strutture…
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