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Escursioni. In viaggio verso Roghudi

  •   Giancarlo Parisi
Escursioni. In viaggio verso Roghudi

Era il febbraio del 2009 quando, dalla sommità dell’abitato di Roccaforte del Greco, vidi Roghudi per la prima volta. Come un enorme animale sopito, mi apparve sul fondo della valle, arroccato sul suo sperone roccioso. Nei giorni seguenti insieme ad un mio amico tentammo di raggiungerlo, ma la strada sconnessa e la mancanza di conoscenza del territorio ci impedirono di arrivare a destinazione.

Da allora, nonostante l’inizio della mia attività euristica legata all’Aspromonte e le numerose peregrinazioni tra i suoi boschi, le sue fiumare e i suoi tesori, non ho più tentato di raggiungerlo, pur riproponendomi più volte di farlo, fino alla scorsa domenica. Per motivi organizzativi non ho pianificato una vera e propria escursione, preferendo realizzare un primo sopralluogo in auto, con la precisa intenzione di raggiungere il borgo nel tardo pomeriggio e realizzare delle riprese alla calda luce serale. Obiettivi della mia visita, oltre al suggestivo borgo abbandonato, erano la Rocca del drago e le Caldaie del latte, singolari conformazioni rocciose esistenti pochi chilometri più a monte di Ghorìo di Roghudi.

É una domenica piuttosto calda e il sole picchia forte. Il tempo di mettere in macchina l’attrezzatura fotografica e partiamo, alla volta di Gambarie d’Aspromonte. L’idea, infatti, è quella di raggiungere Roghudi percorrendo la strada che dai pressi dell’invaso del Menta scende verso Roccaforte del Greco, per poi guadagnare il letto dell’Amendolea e risalire verso Roghudi. Si tratta di una strada molto suggestiva, che attraversa l’Aspromonte per raggiungere il versante ionico. Si dipana attraverso la foresta di faggi e pini larici, raggiunge piani di Cufalo e lambisce la sommità della frana Colella, per poi scendere dolcemente verso l’abitato di Roccaforte: una via di gran lunga più invitante del giro costiero, nel traffico della statale 106. Raggiungiamo il punto in cui la strada passa esattamente sopra il vallone Colella e si affaccia sull’immensa distesa bianca lasciata dalla frana, una ferita ancora visibile come se la terra avesse tremato ieri. Le proporzioni sono imponenti, superiori a quelle, pur mastodontiche, della frana Costantino, che nel 1973 originò l’omonimo lago naturale da sbarramento. In fondo si intravede il maestoso letto dell’Amendolea e la sommità del monte Cavallo, ai cui piedi sorge Roghudi.

Proseguendo il cammino arriviamo in vista di Roccaforte del Greco: arroccata sulla sommità di un monte, appare quasi improvvisamente e assomiglia ad una cittadella medioevale fortificata. La vita scorre lenta in questi paesi, rimasti pressoché liberi dalle contaminazioni tecnologiche degli ultimi decenni e dove ancora l’allevamento del bestiame e l’agricoltura sono largamente praticate. Ai bordi delle strade si trovano greggi, galline che razzolano libere, terrazzamenti coltivati e anziani che, con la zappa in spalla, rientrano dai campi. Un mio amico mi chiede come sia possibile vivere in un posto come questo dove non esiste che la flebile ombra di tutto ciò che caratterizza la vita moderna, raggiungibile solo dopo decine di chilometri di strade tortuose e spesso dissestate. Per rispondere a questa domanda dovremmo prima chiederci cosa intendiamo per vita. Oggi siamo troppo legati al sistema consumistico, che offre a portata di mano più di quello che è effettivamente necessario o utile all’esistenza dell’essere umano. Questa condizione di lisergica opulenza annebbia la mente e impedisce di apprezzare il sapore del vivere. Non esiste tecnologia che possa sostituire la fruizione diretta del territorio, la frequentazione dei luoghi, il contatto con la gente. L’accrescimento interiore che consegue da questo tipo di approccio è insostituibile e senza di esso non vi è progresso alcuno.

Dal centro di Roccaforte la strada scende per altri quattro o cinque chilometri, srotolandosi tra tornanti rubati alla montagna, che ad ogni inverno tenta di riprenderseli scaricando rocce e massi, fino a guadagnare il letto dell’Amendolea. La maestosa fiumara, simbolo dell’Aspromonte e nota per le omonime cascate, in quel tratto termina di essere un tortuoso letto di ciottoli, le pareti della valle si restringono inesorabilmente ed un ponte in cemento ne consente l’attraversamento in auto. Siamo nella pancia della montagna, che incombe su di noi da ogni lato e che allunga sotto i nostri piedi l’imponente lingua bianca dell’Amendolea, il cui nome già solo suscita rispetto. Più a monte il letto del torrente diviene molto più tortuoso e stretto, proseguendo per almeno altri 15 chilometri fino alle cascate.

Superato il ponte in breve si raggiunge Roghudi. Situato tra le recondite pieghe della maggiore fiumara dell’Aspromonte, l’antico centro grecanico si mostra al visitatore in tutta la sua singolarità. Un nugolo di abitazioni, dislocate a varie altezze su uno sperone di roccia viva, abbracciato da un lato dall’Amendolea e dall’altro dall’affluente Furria. Le abitazioni più basse si affacciano direttamente sul fiume, mentre sulla sommità svetta la chiesa di San Nicola. Il paese, dichiarato inagibile il 16 febbraio del 1971 con ordinanza del sindaco Romeo ed ormai completamente disabitato, mantiene una fortissima carica emotiva. L’anima delle persone che lo hanno abitato, il respiro delle loro storie di fatica e sacrificio per una vita dedicata alla terra, sono ancora lì, sospese tra lo spazio e il tempo, tra i muri di quelle case, tra quelle pietre che giammai dimenticano il dolore dell’abbandono. Impossibile non pensare alle commoventi pagine scritte da Vito Teti che, nel raccontarci di Roghudi, lo definisce, con parole anche del compianto Pasquino Crupi, il paese più infelice del mondo. Sono stato in diversi centri abbandonati della punta di Calabria, ma soltanto a Roghudi ho potuto davvero comprendere il senso di quella domanda che, prima Bruce Chatwin e poi lo stesso Teti, si pongono: che ci faccio qui? Cosa posso fare qui? Roghudi riassume, forse più di ogni altro luogo della Calabria, la dicotomia tra bellezza e rovina che caratterizza la nostra terra. Mentre lo guardi, illuminato dalla calda luce del pomeriggio inoltrato, il paese evoca un fortissimo senso di nostalgia. Con il suo ultimo raggio il sole illumina il borgo come un faro, prima di scomparire dietro la montagna. Sembra il dito di Dio che ci invita a non dimenticare. Purtroppo non posso fermarmi a visitarlo con calma, c’è tanta strada da fare per tornare a casa e devo ancora raggiungere il piano della Rocca tu dracu e delle Caldaie del latte ma, come dice Salvino Nucera, “non mancheranno occasioni” per tornare.

Risaliamo dunque in auto e proseguiamo verso Ghorìo di Roghudi. Non entriamo nel villaggio ma pieghiamo a destra, verso il cimitero, per poi proseguire per altri quattro chilometri, fino a raggiungere un tratto aperto e relativamente pianeggiante, dominato dall’imponente monolite al quale è legata la leggenda del drago. Quando arriviamo al pianoro, posto molto più in alto rispetto a Roghudi, ormai in ombra, la luce è ancora calda e vibrante e inonda le Caldaie del latte e la Rocca del drago come una colata d’oro antico. Il cielo è ancora azzurro e le felci risplendono di un verde brillante. È la prima volta che vengo in questo luogo, benché abbia visto numerose immagini delle singolari rocce di Ghorìo, ed è sempre stupefacente verificare come nessuna fotografia, per quanto accurata, possa davvero mostrare la vera anima di un luogo. La mia è una continua ricerca dell’impossibile, un’utopia del coinvolgimento collettivo, giacché vorrei poter condividere con chiunque le sensazioni generate dal contatto diretto con la nostra terra. Non potendo riuscirci in concreto, mi accontento di perfezionare il mio sguardo attraverso l’obiettivo, nell’intento di realizzare, se non altro, la più accurata documentazione dei luoghi che mi è possibile, per poi condividerla con le generazioni presenti e future.

Raggiungiamo i Campi di Bova quando il sole è basso sull’orizzonte. I tramonti di luglio sono fuoco puro. L’aria calda e la leggera foschia estiva fungono da filtro naturale, rendendo alla luce una grande intensità cromatica, mentre il disco solare è un cerchio perfetto e rosso carminio. I colori, irradiati da quella luce, esplodono in sfumature degne dei più bei Renoir, riempiendo l’anima di chi osserva. È con quella tavolozza di colori che, mestamente, raggiungiamo il caos della 106 per ritornare a casa.


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