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I racconti di Mimmo Gangemi: i pensieri del pino

  •   Mimmo Gangemi
I racconti di Mimmo Gangemi: i pensieri del pino

I primi ricordi del pino erano immagini ingiallite dal tempo, antiche perché era lui antico, da poter ripercorrere a ritroso gli anni fino a oltre la metà dell’ottocento. Non avrebbe saputo centrare la data esatta di quand’aveva spanciato la terra – per riuscirci, occorreva contare i cerchi, e non era concesso finché non fosse morto, allora meglio non appurarlo. Sapeva solo ch’era giovane e già imponente nei giorni caldi di fine agosto quando la campagna si macchiò del rosso delle camicie di Garibaldi e dei suoi uomini, diretti a Roma, o incontro alla morte. Era il 1862. Tre o quattro volte che passavano da lì, fidando in una moltitudine di rivoltosi e invece impattando in ultimo sulle schioppettate dei piemontesi.
L’episodio che al pino era rimasto più impresso e nitido – ancora rabbrividiva al pensiero – risaliva alle profondità del novecento, lui adulto e il fascismo neonato. Allora chiudeva il fronte della pineta, là dove la foresta si concedeva ai faggi dai tronchi di pallida luminescenza. Non gli piaceva essere l’avanguardia, meglio se fosse stato in mezzo ai suoi senza doversi contendere l’aria con i faggi, estranei, ostili, e dispettosi, dato che, quell’aria, provavano a negargliela, allargandosi troppo, spintonando, standogli appiccicati, avvolgendolo con i tentacoli di rami contorti e impertinenti, tanto da costringerlo a tirarsi su in altezza, per poter respirare direttamente dal cielo. Anche gli altri pini si ergevano imponenti. Le cime perforavano le nuvole, le traversavano da parte a parte e si spingevano a pungere il cielo. Sovrastavano i faggi, li osservavano sprezzanti dall’alto. Il pino aveva temuto per sé, che lì si consumassero i suoi giorni, dopo aver scorto degli uomini intenti a segare gli alberi – ne lasciavano un mozzicone rasoterra, talvolta un buco, quando estirpavano pure le radici – e bovari che trascinavano con le pariglie di buoi i tronchi morti. Aveva seguito con trepidazione il lavoro, sconfortandosi man mano che gli operai progredivano nell’uccidere la natura, man mano che i colpi delle accette accorciavano la distanza dalla sua posizione. L’aveva scampata per un pelo: il taglio si era interrotto in faccia a lui. Da quel giorno chiuse il fronte dell’area disboscata, con il fastidioso ingombro dei faggi alle spalle e lo spiazzo desolato di fronte. E si sentiva solo: intorno, non uno che fosse di famiglia.
Nel sito spianato vide crescere il Sanatorio, grandi padiglioni a due piani, eleganti, ricchi di fregi, collegati tra loro da larghi corridoi con le vetrate colorate – era la seconda metà degli anni ’20, ed era il fascismo. S’era ritrovato in prima fila a gustarsi l’inaugurazione in pompa magna, con le bandiere, il principe, i discorsi, la musica, i saluti romani.
Pochi giorni e giunsero i malati di tubercolosi. Da subito squarciarono il silenzio tossi interminabili e risucchi catarrosi. Alle prime luci, uscivano le barelle con i corpi di chi non era riuscito a varcare la notte, coperti da un lenzuolo di bianca pietà. Ricoveri che durarono una manciata d’anni: si moriva facile lassù, per l’umidità che penetrava le ossa e imputridiva i polmoni invece di aggiustarli. E fu l’abbandono, decenni di abbandono.
Il pino poi vide la guerra transitare da lì. Fu quando aerei che volteggiavano minacciosi sorpresero due bovari nella radura e ne uccisero uno, per le aste del carretto, staccate dai buoi, rimaste rivolte in su e scambiate per mitraglie. E fu quando gli toccò essere muto spettatore dell’ultima battaglia tra soldati di eserciti ignari che proprio quel giorno cessavano d’essere nemici, per l’armistizio reso pubblico: gli italiani e l’avanguardia dei canadesi erano passati dal Sanatorio a poche ore gli uni dagli altri; un destino incattivito aveva consumato la beffa di farli accampare per la notte a poche decine di metri; svegliandosi accanto, s’erano dati battaglia, con decine di inutili uccisioni.
In tutto quel tempo, il pino era cresciuto, robusto ora e con il fusto diritto e alto sugli edifici. Negli anni aveva imparato a flettersi elastico per resistere agli sbuffi del levante, a schivare i fulmini sempre in cerca di pini su cui abbattersi – li preferivano a qualsiasi altro albero – a sopportare il peso della neve, e mai a convivere con i faggi: questi non cedevano di allargarsi invadenti, di togliergli luce, aria, vita, di mortificarne il tronco, imbruttito da aborti di rami, secchi e spennacchiati finché sotto la morsa di quei nemici e sotto la penombra del bosco.
Non riusciva a fare abitudine alla posizione esposta e indifesa. Su un lato, la radura spoglia di alberi, la strada con pietre infisse nel terreno e le costruzioni, schiaffi dell’uomo alla montagna prima intatta. Sull’altro, faggi su faggi. Con cui proprio non s’abituava a convivere. L’umiliazione peggiore, insopportabile, la subiva in autunno, tra ottobre e novembre, quando la faggeta si tingeva dei vividi colori della morte e offriva uno spettacolo irreale, di soave malinconia, con le foglie, dalle sfumature arancione, che fluttuavano leggere nell’aria o resistevano ingiallite sui rami o erano giù a decorare la campagna. Il pino sapeva di non esserne capace. Lui non moriva e risorgeva. Lui non si spogliava e si rivestiva. Lui sempre aveva addosso un abito di foglie. Arrivava però la rivalsa, appena si consumava quello splendore di colori. E l’inverno diventava interamente suo, per il bosco di faggi che offriva un quadro triste, desolante, legnoso, da cui distogliere gli occhi, con gli alberi che spingevano nodosi, contorti e nudi rami a pungere il cielo.
Invecchiavano assieme, il pino e il Sanatorio. Più in fretta il Sanatorio. Dopo la guerra l’avevano trasformato in centro di ricerca: la facoltà di agraria sperimentava nuove piante, innesti particolari, incroci di ortaggi. Un periodo breve. Quindi, un nuovo abbandono. E il monte che, quatto quatto, provava a riappropriarsi degli spazi sottratti dalla prepotenza dell’uomo. Scatenando il vento. Che s’accaniva contro i muri invincibili, rimbalzando sconfitto, e riusciva però a indebolire gli infissi, finché penetrò le porte e le finestre e colmò di sé le stanze vuote. E scatenando pioggia, neve, nebbia, che insidiavano lente e continue, malattie silenti capaci di marcire gli intonaci, le murature, i cornicioni.
In quei lunghi anni di degrado, il pino al limitare dello spiazzo edificato parteggiava per la natura, che prevalesse e spazzasse via il sopruso. Ormai non progrediva più in altezza, s’irrobustiva nel tronco, ogni stagione un nuovo cerchio, la cima gli s’era incurvata per l’età, pigne secche e vuote cadevano con un tonfo nella terra umida e ombrosa, cilindri polverosi di luce bucavano la penombra del sottobosco e si piantavano deformati al suolo.
Le intemperie avevano già vinto la battaglia quando fu messo a paga un vecchio guardiano, a tardiva difesa di caseggiati ormai inutili che d’inverno la nebbia sfumava in dissolvenza e imbiancava prima di inghiottirli. Il vecchio d’estate si adagiava sotto il pino, rimaneva lunghe ore poggiato di spalle sul tronco. Non lo sapeva, ma erano diventati amici, al pino piaceva che stesse lì, che avesse scelto lui e non un faggio. Era un uomo generoso, il guardiano. Prodigo di cerimonie, di un riparo, di un bicchiere di vino, di un pezzo di pane e salato. Con chiunque passasse da lì, si trattasse di latitanti a cui occorreva un giaciglio, di carabinieri, cacciatori, raccoglitori di funghi o di asparagi, boscaioli, bovari, villeggianti in cerca di un po’ di frescura.
Finché ci fu il guardiano, nei padiglioni non svernarono le vacche. Appena marcò pensione, esse si aggiunsero al vento, alla pioggia, alla neve, alla nebbia. E lì misero dimora, intasando di sterco i pavimenti e di fetore l’aria. Al pino toccò assistere impotente ad altra distruzione.
Passarono decenni d’immutabile immobilità. Poi la ristrutturazione e il regalo, assieme a quattrocento ettari di bosco, a una Comunità per tossicodipendenti, in agosto viva e palpitante dei giovani e delle loro famiglie, di bambini attorno allo zoo e di tutta una corte dei miracoli scodinzolante al pastore, nei restanti mesi spenta e desolata. Il pino, invece sempre lì, al bordo, ancora timoroso di poter soccombere alla decisione di ampliare lo spiazzo. Gli riuscì di tranquillizzarsi soltanto quando l’area fu inglobata nel Parco nazionale dell’Aspromonte, nella la zona uno, la più protetta, da non potersi approfittare di una foglia, figurarsi del taglio di una pianta secolare. Pensò allora che sarebbe morto di onesta vecchiaia. Al peggio, per un fulmine che lo avrebbe preferito ai faggi.
Giovani della Comunità lo segarono in una bella giornata di sole di metà settembre, con il cielo di un azzurro vivido, come appena ripassato con una mano di colore. Serviva per farne legna, a dispetto del Parco e dei divieti, a dispetto dell’età secolare, a dispetto della storia che gli era passata accanto. Mentre le motoseghe intaccavano a triangolo la base del tronco e lui agonizzava, gli riuscirono due pensieri: uno che, gli fosse toccato di scegliere, avrebbe preferito abbattersi dalla parte opposta, addosso agli edifici piuttosto che sui faggi, sì ostili e però compagni di una vita, e l’altro che stava per morire per sempre, perché dal mozzicone non sarebbe rispuntata vita, ai pini non essendo concesso.


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