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L’editoriale. Il nero viene dal mare

  •   Gioacchino Criaco
L’editoriale. Il nero viene dal mare

Ma non pensiate al colore della pelle dei disperati che quando non annegano approdano sulle nostre coste. Quello è un problema umanitario, per loro che ci rimettono la vita o patiscono le pene dell’inferno e per quanti un briciolo d’umanità lo conservano e comprendono e partecipano il dramma.

Le presunte democrazie i pericoli li creano a tavolino, inventano emergenze alle quali i presunti cittadini abboccano cedendo pezzo a pezzo quella libertà che per ognuno dovrebbe essere il bene più prezioso. La sicurezza è l’inganno col quale ci facciamo rinchiudere felici. I pericoli fittizi servono al potere e la gente comune ha ormai un animo così vile che basta un buuu per andarsi a nascondere. I pericoli veri, quelli che mutano le esistenze il potere tende a nasconderli, così rincorriamo dita a migliaia e la luce della luna non la vediamo mai.

E nemmeno al nero delle invasioni arrivate dal mare nei secoli trascorsi dovete pensare; alle scorribande che nel passato hanno fatto scappare sui monti i calabresi trasformandoli in solitari montanari. Vero è che il pericolo viene dal mare, ma è sempre stata una metafora per affermare che i calabresi non sono mai partiti in massa per attaccare qualcuno, però da fuori sono spesso arrivati con l’intenzione di sporcarci il paradiso che senza meriti Dio, gli Dei o il Fato ci hanno regalato.

Vi abbiamo parlato spesso di carbone, rigassificatori, discariche, elettrodotti e tanto altro. Meno di tutti vi abbiamo parlato del nero che sta sotto allo Jonio: il petrolio. Il mio primo ricordo d’idrocarburo risale all’81. Una piattaforma enorme apparve come un lampo sull’orizzonte marino; non erano tempi di rete e forum sociali, ma ne scoprii il nome. Sembrava una beffa, il mostro d’acciaio che copriva il sorgere del sole si chiamava Aurora. Me lo dissero i pescatori siciliani che venivano a rubarci il pesce. Ci restò tre anni e poi svanì. «Ci dassaru un puzzu», dissero ancora i siciliani, «Fannu sempri accussì, po futuru».

Sembrava una profezia. A più di trent’anni di distanza tornano le piattaforme e le trivelle, sforacchiano lo Jonio per quelle che tecnicamente si chiamano prospezioni. Hanno iniziato dal cosentino e scendono velocemente giù. Sono talmente estese queste prospezioni che c’è da scommetterci: sotto al mare c’è un mare di petrolio. E il governo, nel 2014, ha emanato un decreto interministeriale che fa prevalere gli interessi nazionali all’approvvigionamento di risorse energetiche rispetto agli interessi locali, vale a dire proteste o no si continuerà a trivellare. E le proteste ci sono eccome, ma per ora sono limitate ai paesi costieri interessati al problema e la sindrome da pecora dei calabresi non le ha elevate a proteste collettive, perché il mare e la Calabria sono di tutti.

Così, appena svanito lo spettro del nero carbone di Saline, grazie a pochi calabresi veri, ecco il nuovo e definitivo fantasma scuro. Il petrolio porterà qualche piccolo vantaggio a pochi ma sarà nero per tutti. Basta guardare in Basilicata o in Sicilia, barili a migliaia e migliaia di partenze. Per schiarirsi il futuro calabrese ha bisogno di idee chiare che partano dalle vocazioni della Calabria: vino cibo, cultura, turismo.

Parole banali che tutti hanno in bocca. La verità è che il vero nero che minaccia la Calabria è il fumo che riempie le teste calabresi e per fugare quello non basta né lo Zefiro né il Libeccio, servirebbe un vento forte di tramontana ma danni da noi spira solo lo Scirocco. La verità è che l’unica prospezione utile sarebbe quella per la ricerca del cervello dei calabresi.


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