La montagna bianca, immacolata, inviolata
- Freedom Pentimalli
Sta forse nel centro delle cose la loro ragion d’essere? Probabile. Se si pensa ad una città come Roma, vengono subito in mente i monumenti del centro storico che parlano della sua storia. Se invece si considera una pianta, al suo centro non si riscontra altro che linfa, ciò che le dà vita. Se infine, ma si potrebbe andare avanti per ore, si pensa a un orologio, ecco gli ingranaggi che dal centro muovono le lancette, come strade verso periferie lontane.
Il centro quasi geografico dell’Aspromonte è Montalto, cuore, ma allo stesso tempo capo, di un’intera provincia. È un cuore silente e non facile da individuare dalle valli che scendono verso il mare. Lo si può comunque ammirare assieme alle altre vette, ricoperto da un manto di neve che riflette la luce lunare nelle terse sere d’inverno: è la sua posa migliore.
Se la ragion d’essere è dunque la montagna, chi sono i figli di questa terra? Com’è fatto un aspromontano? Cos’è un aspromontano? Chi si definisce tale in cosa differisce dagli altri? Più cerco risposte, più trovo dubbi.
Probabilmente una persona cresciuta in uno dei tanti paesi che lo circondano avrà sempre l’istinto di cercare una cima ovunque vada, si aspetterà di trovarsela dietro, a fianco o davanti, ogni qualvolta un profumo, un foto o una parola lo induca a cercare nella memoria la propria terra. La pianura non gli si addice.
Ho sempre pensato che ogni terra dà un’impronta profonda ai propri figli, anche se poi le esperienze ed il contatto con l’Altro possono levigare fino ad annullare i tratti marcati di quella traccia.
Eppure mi sembra ancora più suggestivo un altro punto di vista, opposto al precedente, espresso in modo illuminante da un poeta greco, Odisseas Elitis, premio Nobel nel 1979: “Un paesaggio […] è la proiezione dell’anima di un popolo sulla materia. […] La presenza plurisecolare dell’ellenismo nelle terre dell’Egeo è arrivata a consacrare un’ORTOGRAFIA, dove ogni omega, ogni ipsilon, ogni accento acuto o ogni sottoscritta non è che un golfo, un declivio, una roccia a picco” [da Il metodo del dunque (e altri saggi sul lavoro del poeta), a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma, 2011, p. 113].
Nel tentativo di definire un aspromontano, sono caduto in un interrogativo più ampio: cos’è l’Aspromonte? Terra madre? O piuttosto terra figlia di chi la vive, di chi la definisce con le proprie parole?
Tìmpa, vijòlu, chjànu e gaddhùni. Ogni burrone, viottolo, pianura e vallone ha forse la forma che ha perché è quello il nome che da secoli usiamo per definirlo? Temo di no, per quanto l’idea affascini. Ma non ci sarà mai burrone così pericoloso e bello e maestoso come quello che chiamo tìmpa, che sento dentro di me più reale, un suono che è un tutt’uno con il luogo, dove la pronuncia della –m‒ sembra riflettere la distanza fisica, un lancio nel vuoto, dal punto più alto al fondo del burrone stesso.
Forse sta qui la nostra identità. Ogni aspromontano, come ogni persona al mondo, porta dentro di sé una montagna fatta di parole inscindibili da immagini, profumi e suoni, un legame millenario che il dialetto ed il grecocalabro ci permettono ancora di assaporare (ancora per poco, visto l’italenglish imperante che appiattisce e unifica la nostra espressività).
Ma la montagna che noi portiamo dentro, come l’Aspromonte, è frastagliata, incredibilmente varia e poco agibile. Siamo persone complicate, impervie, che vanno conquistate. Solo l’altro che ha la pazienza di scalare questa montagna potrà farsi un’idea di chi è un aspromontano. Noi in fondo lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo inconsciamente. Siamo piccoli specchi di quelle immagini, di quei profumi e di quei suoni senza i quali brancoliamo nel buio.