Reportage. Le riflessioni di un escursionista in viaggio per l'Aspromonte
- Redazione
“Secondo me tendiamo a guardare queste cose con un po’ troppo romantiscismo: chi abitò qui conobbe fame, fatica e sudore”. Questa considerazione, fatta da un mio compagno di cammino durante un’escursione, proprio mentre decantavo con enfasi i valori di un passato che non ho mai conosciuto se non da libri e testimonianze, è stata per me illuminante nella sua apparente semplicità. Mi ha spinto ad elaborare nuove forme di approccio e di ragionamento riguardo al tema dell’abbandono delle aree interne della mia terra. Siano essere remote, poste al centro della montagna e inaccessibili o alle porte di città e agglomerati urbani più o meno popolati. Ho l’onore e il piacere di accompagnare turisti ed escursionisti su sentieri che un tempo furono fondamentali vie di comunicazione per gli abitanti dell’entroterra, quando lo spazio rurale era vissuto, protetto, strutturato, produttivo. Esiste una fitta rete di strade, talune abbandonate ed appena visibili, altre recuperate da gruppi escursionistici, che raccontano il dominio del territorio e che, in ogni caso, collegano siti, luoghi e punti importanti, strategici, utili, testimoni di fatti, vicende, episodi di vita quotidiana. Tutte le volte provo a raccontare la storia che sappiamo, quella che dalla Magna Grecia al periodo Bizantino ha lasciato l’impronta più caratterizzante soprattutto nell’area così detta “grecanica”. Una storia affascinante messa a confronto, in modo amaro e cinico, con un presente di ruderi, macerie e grandi potenzialità inespresse. I “paesi fantasma” d’Aspromonte, abbandonati dopo catastrofiche alluvioni o in seguito a terribili terremoti, svuotati “per decreto” dei loro abitanti e del loro patrimonio umano e culturale, sono l’emblema di un processo di smarrimento identitario che ha avuto conseguenze importanti. In primo luogo sulla gente, che repentinamente ha dovuto reinventarsi marinara, dopo secoli di vita montanara. Ma anche sull'economia locale, sulla storia recente del nostro popolo. Roghudi, Africo, Casalinuovo, Brancaleone, Rocca Armena, Ferruzzano sono i più conosciuti e rappresentativi esempi di abbandono, di interruzione improvvisa di un flusso umano e sociale. Ce ne si rende conto camminando, con dovuta discrezione, tra strade silenziose ma non per questo senz’anima. C’è una vita pulsante se pur solo immaginata, violando le case nella loro intimità ancora più struggente, surreale, immobilizzata nell’ultimo istante in cui tra quelle stanze ci fu una famiglia. Ma è molto più vasto il fenomeno di abbandono che coinvolge borghi, contrade, campagne, frazioni di paesi aggrappati a centri abitati che oggi sono ridotti a roccaforti di resistenza, con più animali che abitanti. Me ne rendo conto camminando, inoltrandomi tra esplosioni di natura rigogliosa, recente, che invade, copre e cela (o protegge) tutto ciò che fino a qualche decennio fa fu laboratorio di sopravvivenza: terrazzamenti, strutture produttive, frantoi, fornaci, vasche, muri a secco, ricoveri per animali, case. Mi incuriosisce saperne di più, ricostruire storie semplici, da sole prive di importanza ma se collegate assieme descrizione di un popolo che sapeva sfruttare ogni angolo delle poche pianure, delle colline, dei valloni, dei crinali. E con quel romanticismo che adesso, lo so bene, potrebbe apparire una forma di radicalismo snob, immagino - anche io come tanti - una vita a dimensione d’uomo, proprio lì, in quei luoghi: chiudo gli occhi e penso a come potesse essere. Li riapro ed ho la schiena dolorante, i palmi delle mani callosi, un bue ed un maiale come fonte di sostentamento e riscaldamento al piano di sotto di una casetta di pochi metri quadri che ospita una famiglia numerosa, comunque già decimata, in tempi più recenti, dall'emigrazione. Però non vedo alternative al romanticismo, se questo sentimento nobile ma anche figlio di un privilegio può aiutarmi a ricostruire un’identità nell’epoca in cui nuovamente emigriamo, nuovamente abbandoniamo la nostra terra. E non più, solo, la campagna. Ma qualcosa sta cambiando. È più che evidente un lento ma deciso cambio di tendenza, figlio di una rinnovata sensibilità ambientale ma anche di un più diffuso benessere. Qualcuno parla della necessità di un “ritorno alla terra”, alle origini. Probabilmente è proprio così: una pulsione che ci spinge a ritrovare valori antichi smarriti dopo il nostro esodo in massa verso le sovrappopolate città produttive e fumose. Ma non è un cerchio che si chiude, no, non potrebbe esserlo perché diversissimi sono i presupposti. Torneremo o torneremmo nei luoghi che abbiamo disprezzato e dai quali siamo fuggiti come persone diverse, in un tempo radicalmente mutato. La terra, la natura, le fiumare, le foreste ed in generale il paesaggio agrario che un tempo avevano un valore necessario e funzionale per i nostri antenati, oggi assumono un valore nuovo: è un valore di esistenza. L’entroterra, la campagna e la montagna non più serbatoio di risorse per la sopravvivenza bensì presidio di bellezza, sostenibilità, biodiversità e cultura da proteggere e salvaguardare. Mi trovo pienamente d’accordo con il caro amico escursionista, antropologo e persona sensibile, che mi ha invitato a riflettere sulla genuina euforia che ostento quando mi trovo in certi luoghi. Non so se avrei voluto ararli quei campi a strapiombo su una fiumara, appezzamenti minuscoli, ricavati su versanti scoscesi. Non so se avrei voluto tagliare legna, costruire muretti a secco che ancora oggi rimangono (non se ne avrei avuta la perizia). Non so se avrei voluto percorrere quelle strade tortuose, ricavate con accanimento, per necessità e non per diletto, in un territorio orograficamente ostile. Ma con rinnovato entusiasmo metterò la mia ridondanza sentimentale al servizio di chi scopre per la prima volta l’Aspromonte e le sue propaggini che si tuffano fino al fondo del mare. Il romanticismo quindi non è peccato, purché rappresenti lo strumento per una migliore comprensione delle cose piuttosto che l’esito unico, una sorta di egoistico appagamento, tipico di quando si provano esperienze uniche, come le escursioni sanno essere.
*Nicola Casile, guida ufficiale del Parco d’Aspromonte (Gea, VisitAspromonte)