Reportage. Le Vallate di Reggio e il “tutto alla fiumara”
- Maurizio Malaspina
Ero bambino negli anni Settanta, la contestazione infiammava il mondo, l’estremismo diventava terrore, il femminismo urlava slogan di libertà e legittimo bisogno di parità, e a Reggio smaltivamo i materassi nelle fiumare. Ricordo mio padre che ad ogni rottamazione di ingombranti impartiva il suo piano preciso: tutto alla fiumara. E come c’era nonchalance nelle sue parole, non c’era stupore nel mio sguardo. Usare la fiumara come una discarica era un gesto “naturale”, logica conseguenza di un elettrodomestico che si rompe o di un materasso che si usura. Non era un atto eversivo né immorale. Forse un po’ anarchico, ma senza la consapevolezza di infrangere una legge. Era abitudine, uso, costume imperante, rito collettivo e quasi gesto di liberazione post-modern.
Gli anni Ottanta
Poi l’adolescenza, gli anni Ottanta, la “Milano da bere”, “la barca va”, la bramosia dei consumi che pervade le abitudini e gli stili di vita, tutti alla ricerca di simboli che dimostrassero l’appartenenza alla parte del mondo che ce l’ha fatta, e a Reggio i viaggi alla fiumara si moltiplicarono. Il rito del “tutto alla fiumara” non variò i suoi modi e i suoi tempi di una virgola, ma la frequenza dei viaggi si intensificò e contemporaneamente si arricchì la varietà merceologica che finiva in fiumara, con la prima generazione di tecnologia che aveva bisogno di essere sostituita. La lavatrice, durata vent’anni, con un glorioso curriculum di panni sporchi alle spalle, ormai era da pensionare in fiumara, vicino al materasso, alla prima televisione, al primo frigorifero, al vecchio soggiorno, alla poltrona bucata del nonno. Tutto in fiumara, per fare posto all’ultimo ritrovato della tecnologia, con dodici programmi, l’iper centrifuga e il cestello maggiorato.
Smaltimenti a basso costo
Infine arrivò l’età adulta, il crollo delle ideologie, la gioiosa macchina da guerra e un bisogno indotto di consumi, consumi e consumi, per far “girare l’economia”. Se non spendi, se non compri, se non cambi la macchina anche se questa è perfettamente funzionante, l’economia non gira, e se l’economia non gira sei tu il responsabile delle povertà, della diseguaglianza, dello sfruttamento dei padroni sugli ultimi. Così mentre la ricetta neoliberista diventava l’unica certezza, somministrata in pillole quotidiane da maxischermi e “unti dal signore”, a Reggio nella fiumara cominciarono ad arrivare anche l’eternit, l’amianto e qualche fusto di schifezze che la rotazione dell’economia esigeva di smaltire a basso costo.
L’industria dello “sbreccio”
Le fiumare di Reggio sono un libro aperto sulla storia dei consumi e delle abitudini (cattive) del nostro paese, ed è significativo che questo libro sia custodito soltanto nella libreria dei reggini, che oggi ne potrebbero far tesoro. Ma nelle fiumare si scaricano ancora rifiuti e schifezze, compreso liquidi fognari della stragrande maggioranza dei comuni delle aree interne privi di collettori e di depuratori. In fiumara si scarica ancora, ma lo si fa con maggiore intimità e prudenza, non più come atto collettivo, ma come esercizio dell’individualismo imperante. E poi oggi la fiumara è il regno dell’industria dello “sbreccio”, per dirla con Vinicio Capossela: «Eccoli. Questi sono i nostri castelli di ferro e fracasso […]. E si vedevano arrugginiti tra gli alberi grandi scivoli e gru, e mucchi di brecciolino e piramidi di sabbia». È quello che vediamo in ogni alveo di una fiumara, dove l’industria dello “sbreccio” ha brucato montagne, erose con un lento e progressivo consumo per produrre quel cemento impiegato nelle colate degli anni Ottanta, Novanta, Duemila, Duemiladieci. Un paesaggio lunare, con al centro dell’alveo l’impianto per la selezione e lavorazione del brecciolino, con i nastri, i setacci e, vicino, i silos per la produzione del cemento. In ogni vallata uno o più impianti di cavatura e produzione di cemento, intramontabili, onnipresenti, inamovibili. Eppure non è sempre stato così: c’è stato un tempo in cui la fiumara non era percepita e vissuta come una discarica.
L’uomo e le vallate
Nell’incipit di Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque”, una delle descrizioni più potenti dell’Aspromonte, emerge il timore per l’impeto devastatore che si attribuisce al corso d’acqua, ma contestualmente il rispetto per qualcosa dal quale dipende spesso la vita o la morte, l’abbondanza o la carestia, la gioia o la sofferenza. La fiumara è dispensatrice di acqua, sazia la sete e muove il viaggio per il suo approvvigionamento; il corso della fiumara spinge le pale dei mulini che macinano il frumento che darà il pane; il corso d’acqua alimenta le condotte che nelle regioni di foce consentono la crescita di colture pregiate come l’arancio o il bergamotto. Messo davanti al piatto della bilancia, l’uomo ha sempre capito che la fiumara ha generato un contesto adatto alla vita, piuttosto che alla morte, e ha imparato a sfruttare questa prerogativa. Ha regimentato i corsi, ha rallentato la velocità dell’acqua per renderla meno dirompente, ha costruito argini imponenti per sottrarre suolo fertile al loro alveo. E così per secoli e secoli la fiumara è stata dispensatrice di abbondanza, favorendo la nascita di sistemi economico-produttivi, socio-culturali e identitari lungo i solchi che il loro passaggio ha segnato nel territorio: le vallate.
Reggio, l’errata pianificazione
Prendiamo l’area dello Stretto, dove la raggera dei corsi d’acqua che partono dall’Aspromonte per gettarsi nel mare è fitta e caratterizzante. Come la guancia di un vecchio segnata in modo sapiente dalle rughe del tempo, le vallate custodiscono contesti unici, una sequenza ininterrotta di corsi d’acqua che inconfondibilmente orientano morfologicamente il territorio in direzione mare monti. Solo la miopia del pianificatore ha potuto ignorare questo sistema straordinario di opportunità, quando, chiamato negli anni Settanta a disegnare gli scenari della città, ha guardato soltanto alla conurbazione di lungo costa, a unire Reggio con Villa San Giovanni, a riempire i vuoti rurali con nuove aree edificabili, per creare una città di oltre seicentomila abitanti. E il fallimento è sotto gli occhi di tutti.
La fiumara Catona
Se oggi percorressimo l’ex statale 18 “delle calabrie” nel suo tratto reggino, superata Villa San Giovanni in direzione sud, troveremmo subito la zona di foce della fiumara Catona, che con il suo bacino idrografico abbraccia i centri di Campo Calabro, Fiumara e San Roberto, sul versante settentrionale; Lucia di Laganadi e Milanesi del comune di Calanna sul versante meridionale; il comune di Reggio Calabria nell’area di foce con Rosalì, Concessa, Salice e Catona. Noteremmo come quarant’anni di disattenzione e disinteresse hanno fatto della ricca agricoltura di foce soltanto un residuo di se stessa. Agrumeti (arance e limoni), gelsi, vigneti, annone, tutto in un limbo di abbandono, tra un depuratore caduto lì dallo spazio (tanto è il suo rapporto con il contesto) e le mire espansionistiche dell’area industriale di Campo Calabro. Salendo lungo la strada che conduce a Fiumara e a San Roberto, sono gli ulivi e le querce a prendere possesso del paesaggio, con la fiumara che ridimensiona il suo alveo man mano che si procede verso la fascia altimetrica più alta, sopra gli ottocento metri. Tra i centri abitati, su tutti Fiumara, che in passato è stato uno dei centri più importanti e strategici dell’area dello Stretto, con borgo Terra che testimonia ancora oggi di una storia tanto importante quanto purtroppo dimenticata.
La fiumara di Gallico
Immaginando di riprendere il percorso in direzione sud, superato Catona incontreremmo la fiumara di Gallico, con l’ampia regione di foce ingabbiata secoli fa in muri di argine, a consegnare alla città una delle zone produttive più importanti della provincia. Anche qui le cose non cambiano di molto: l’agricoltura è un residuo occasionale, rimasta lì solo per un caso fortuito, come se a qualcuno fosse venuto a mancare il cemento per completare l’opera di distruzione. Nessuna centralità si è mai data negli ultimi trent’anni a questa risorsa, mai inserita in piani, programmi e progetti di sviluppo per un sistema produttivo potenzialmente strategico per l’economia della città. Le arance di Villa San Giuseppe per esempio, continuano a restare sugli alberi, come l’erbaccia in una rotatoria al centro di un incrocio, in attesa che arrivi qualcuno a metterci sopra il breccio per non farci crescere più niente.
La fiumara dell’Annunziata
Spostandoci ancora lungo la costa arriveremmo praticamente a “Reggio Reggio”, come la chiamano quelli delle periferie che di “Reggio Reggio” non si sono mai sentiti, né si sentono ancora. Trovare la fiumara dell’Annunziata è una caccia al tesoro. La foce è nascosta sotto un ponte, sul quale corre uno stradone ondulato, anziché diritto per come scorre l’asta fluviale sottostante, forse per renderlo più affascinante. Nel tratto prima che la fiumara si inabissi sotto il ponte, troviamo i casermoni dell’università, bloccati perché costruiti in piena zona ad alto rischio esondazione; conclude il quadro cittadino della fiumara il guazzabuglio di Vito, che peggiora il tutto anche sotto il profilo idrogeologico. La vera fiumara dell’Annunziata è oltre, fuori dalla città, a Ortì, dove il paesaggio rurale è morbido, verde e produttivo, con pascoli, arenaria modellata dal vento, i resti dell’antica Motta Anomeri sul pianoro di monte Chiarello.
Il Calopinace
Come l’Annunziata, anzi peggio dell’Annunziata, il Calopinace, uno dei corsi d’acqua più compromessi dello Stretto. Volessimo dare solo uno sguardo veloce non potremmo non assumerne il modello come monito per le generazioni future. Partendo dalla foce, dove il corso d’acqua ha subito interventi di canalizzazione ed arginazione, divenendo una “bretella” viaria di collegamento con la tangenziale di Reggio Calabria, per proseguire con la zona caratterizzata dal quartiere San Sperato nella fascia intermedia e da Mosorrofa in quella più alta, il Calopinace presenta tutte le criticità riconducibili all’asimmetricità tra azione e vocazione dei luoghi. In sintesi, hanno fatto “carne di porco”, con uno sviluppo urbano che ha invaso in molti tratti anche l’alveo stesso del torrente, rendendo del tutto illeggibile e dequalificando qualsiasi funzione originaria dei luoghi.
Fiumara del Sant’Agata
Volessimo ancora continuare a sud, non avendone ancora abbastanza, superiamo “Reggio Reggio” e arriviamo sulla fiumara del Sant’Agata, dove per fortuna torna a farsi largo la speranza. Il bacino idrografico del Sant’Agata è ampio, aperto, con uno sfondo visivo che punta dritto sull’Etna. Un contesto bellissimo, con luoghi anche carichi di valore testimoniale. Come il sito dell’antica Motta Sant’Agata, la città distrutta dal terremoto del 1783 che da anni associazioni del posto provano con sforzi importanti quanto isolati a valorizzare. Degli abbondanti resti posti su un pianoro panoramicissimo, spiccano quelli della chiesa di San Nicola, dove si trovano ancora le cappelle gentilizie e le cripte, meraviglie che rendono il sito un viaggio affascinante e suggestivo nella storia di Reggio. Provassimo tuttavia a fare un sondaggio su quanti reggini conoscono il sito di Motta Sant’Agata, a 15 minuti dal corso Garibaldi, rimarremmo molto delusi; avremmo solo conferma di come sia l’indifferenza il peggior nemico di Reggio. Nella parte più alta la fiumara attraversa il territorio di Cardeto, che a fronte di un impianto urbanistico importante e qualificato nella sua tipologia di promontorio si presenta estremamente manomesso. Cardeto nord è invece l’esaltazione della follia: un centro di case popolari mai ultimato, casermoni di cemento senza strade, senza finestre, scheletri senza capo né coda. A chi sarà venuta in mente l’operazione di spostare Cardeto in una landa sperduta e in case dalla tipologia agghiacciante? Quanti l’hanno approvata? Quanti l’hanno finanziata?
La fiumara del Valanidi
Con le domande che ci frullano nella mente potremmo lasciare la fiumara Sant’Agata e avviarci verso l’ultima frontiera del nostro viaggio: la fiumara Valanidi, che segna il confine meridionale del comune di Reggio Calabria e dell’area dello Stretto. La vallata della fiumara Valanidi è ammantata del lutto delle sue alluvioni, che non più di settant’anni fa hanno mietuto vittime tra le popolazioni dei piccoli borghi rurali lungo il suo alveo. Tanti gli spunti di interesse quanto i motivi di riflessione: l’unica cosa certa è che sotto il profilo idrogeologico ancora oggi lungo la fiumara Valanidi c’è poco di sicuro. Argini saltati, la solita cavatura di inerti, mancanza di collegamenti con l’altra sponda che costringono molti cittadini a guadare il corso d’acqua per ritornare nelle proprie case. Guardando in alto si intravedono i bastioni di Motta Sant’Aniceto, nel comune di Motta San Giovanni, un’altra storia di sottoutilizzazione e di sprechi, un altro articolo per chi vorrà scriverlo.
Sulle nostre stesse orme…
«É questo è il fiume che sempre s’ingrossa e si evapora a dispetto, e assecca le terre e le sommerge, e le scava, e nasconde sotto i suoi sassi creature senza braccia né coda. Da qui si inalberano le coste e per arrivarle non si usano più frecce agli incroci, occorre invece seguire le tracce, le orme che le creature lasciano sul dorso della terra». Così Capossela, ormai il nostro mentore, descrive la fiumara nel suo Il paese dei coppoloni (Feltrinelli editori, 2015). É un passo bellissimo che apre le nostre conclusioni, perché ci cogliamo un invito ad abbandonare la strada fin qui percorsa per ritornare a lasciare le orme del nostro cammino sui territori che viviamo. Un’orma che sia arricchente, che aggiunga, senza cancellare quanto di bello e importante sta sotto i nostri piedi. Perché questo, con le fiumare, non lo facciamo ormai da tempo, e purtroppo i risultati sono sotto gli occhi di tutti.