1783. Un Flagello colpisce la Calabria
- Pino Gangemi
Gli eventi del terremoto del 1783
Calabria Ultra, 5 febbraio 1783, alle 19 e 15, ora di Napoli, si verifica una fortissima scossa di terremoto. Dura due minuti (secondo Michele Torcia 3). Poiché nel Napoletano, le ore della giornata cominciano a contarsi dalla sera, dall’ora del vespro, per ore 19 e 15 va inteso un orario intorno a mezzogiorno. L’epicentro della scossa è nello Stato di Oppido, ma si tratta di una attribuzione imprecisa, anche se sufficiente ai fini del discorso che andiamo a fare e che riguarda la rivoluzione sanfedista. La scossa è stimata intorno al grado 11 della scala Mercalli.
Particolare dimenticato: più comuni intorno a una città costituiscono, al tempo, uno Stato e si amministrano, su molte questioni, con un Palamento in cui vengono eletti i più autorevoli capifamiglia di tutte le classi. Questi Parlamenti sono un antico retaggio della dominazione dei Normanni, i quali avevano ereditato e istituzionalizzato le strutture informali bizantine dette Fratrie.
Calabria Ultra, 6 febbraio, ore 0.20. Seconda fortissima scossa a sud di Scilla. Grado 9 della scala Mercalli. Terza scossa con epicentro nei pressi di Gerocarne, 7 febbraio, ore 13.10, grado 10. Quarta scossa a Nord di Pizzo Calabro, 1 marzo, ore 1.40, grado 9. Quinta scossa a sud di Squillace, 28 marzo, ore 18.55, grado 10. Queste le cinque principali scosse.
È il peggior terremoto mai verificatesi in Occidente. Si narra di un terremoto altrettanto grave, in Asia Minore (Asia senatoriale), il 19 d.C. al tempo di Tiberio, che aveva provocato la morte di 200.000 persone. Niente di paragonabile dopo.
A proposito di questo terremoto, Seneca aveva commentato: “I porti ci riparano dalle tempeste; i tetti ci proteggono dalla violenza dei temporali e delle piogge continue; l’incendio non insegue i fuggitivi; le cave e le grotte profondamente scavate sono un rifugio contro i tuoni e i lampi del cielo; contro la peste si cambia di residenza. Non esiste alcun pericolo l riparo dal quale non ci si possa trovare un rifugio. Ma il flagello del terremoto si estende a una distanza considerevole; esso è immenso, subitaneo e inevitabile. Non è solo un effetto, una casa, una famiglia, una città, che esso divora, sono delle nazioni intere che colpisce; è tutta la superficie di un paese che sconvolge” (citato da Lenormant 1961, vol. III, pp. 351-2).
Nel 1783, tutte le città furono rase al suolo da Reggio a Catanzaro e le coltivazioni furono stravolte per sommovimenti delle terre. Giovanni Vivenzio pubblica, in pochi mesi, quello che oggi si chiamerebbe instant book (Istoria e teoria de’ tremuoti in generale e in particolare di quelli della Calabria e di Messina del MDCCLXXXIII) dove si legge: “In molti luoghi si profondò il terreno, furono le colline intere trasportate con moto orizzontale, e saltarono dal basso in alto i letti de’ fiumi, e pezzi di terra con alberi, e case di campagna”.
Scrive di uomini aggrappati a una vite che viaggiano per miglia o di agrumeti che finiscono su un podere più in alto o vanno dall’atra parte del vallone. Le sue incredibili osservazioni sono, tuttavia, confermate dalla commissione ufficiale guidata da Michele Sarconi, segretario generale della Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Arti di Lettere. Nella Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783, si legge: “Vi fu lo sbassamento; vi fu l’elevazione: vi fu lo sbalzo, non solo dalle vie superiori alle inferiori, ma ben anche dalle parti più basse alle supreme;” (Sarconi 1784, p. 308). “v’erano ancora alcuni pezzi di terreno … i quali altro cangiamento non avean sofferto, se non che il danno di essere stati invasi dalle ruine de’ siti contermini, i quali schiantati dalla loro sede, erano piombati su i medesimi, o in massi spogliati di alberi, o in ammassi uniti agli alberi stessi, che vi si conteneano” (Sarconi 1784, p. 309).
Perché parlare del terremoto in Calabria del 1783? Perché fu un terremoto tremendo, al punto da essere definito “Grande Flagello” e da avere interamente distrutto metà della Calabria e parte della città di Messina. Un terremoto di queste dimensioni che, si dice, non ha avuto l’uguale nella storia (a parte un terremoto in Cina al tempo di Tacito o poco prima) provoca una tabula rasa sia dal punto di vista sociale che economico.
Perché parlare del terremoto in Calabria del 1783? Perché fu un terremoto tremendo, al punto da essere definito “Grande Flagello” e da avere interamente distrutto metà della Calabria e parte della città di Messina. Un terremoto di queste dimensioni che, si dice, non ha avuto l’uguale nella storia (a parte un terremoto in Asia Minore al tempo dell’antica Roma) provoca una tabula rasa sia dal punto di vista sociale che economico.
La conseguenza principale del Grande Flagello è stata quella di avere trasformato una società solida, cioè rigida, con confini interni, sia orizzontali sia verticali, invalicabili, in una società completamente liquida e aperta a una totale pianificazione. La distruzione operata rendeva possibile di ricominciare da zero e di pianificare come se davanti a sé ci fosse solo un foglio bianco. Questo dava una grande libertà di pianificazione e una altrettanto grande possibilità di errore.
Tempi, numero e magnitudo delle principali scosse:
05/2/1783, ore 12.00, 11 Scala Mercalli Mod.
06/2/1783, ore 00.20, 9 Scala Mercalli Modif.
07/2/1783, ore 13.10, 10 Scala Mercalli Mod.
01/3/1783, ore 01.40, 9 Scala Mercalli Modif.
28/3/1783, ore 18.55, 10 Scala Mercalli Mod.
Tre mesi circa di continue scosse e ancora per anni più o meno consistenti scosse di assestamento. Ne parla Goethe parlando di una scossa del 21 aprile 1787 che provoca una nuova ondata di panico. Lo conferma un parroco di S. Cristina, il facente funzione di Protopapa, Molluso che dice: “I detti tremuoti molto spesso si fecero sentire sino all’anno 1787” (1985, p. 38).
La prima scossa di terremoto si verifica alle ore 19 e 15 di giorno 5 febbraio, ma siccome nel napoletano il giorno comincia ad essere calcolato a partire dal Vespro della sera prima, si tratta, per quel periodo, delle ore 12.00 circa dello stesso giorno 5. Secondo tutti i commentatori la prima scossa durò due minuti (secondo Michele Torcia, tre minuti).
Il terremoto si presenta “Accompagnato da un cupo sotterraneo muggito a guisa di continuati tuoni, che per ogni dove scorressero”. Poi, il suolo comincia a “ondeggiare violentemente” da Ovest verso Est” (Vivenzio, Istoria e teoria de’ tremuoti, Napoli 1783, p. CCII).
Nelle zone intorno all’epicentro sentirono la scossa dal sotto verso sopra e i sopravvissuti raccontarono che sentirono come lo scoppio di una mina sotto di loro.
I paesi intorno all’epicentro in cui questa scossa dal basso si sentì più forte sono stati: “Oppido, Sitizzano, Cosoleto, S. Cristina, Castellace e Sinopoli vecchio” (Vivenzio 1783, CCIV).
Nel territorio di Oppido e S. Cristina “non esiste un palmo di suolo che conservi la sua antica superficie” (Vivenzio 1783, CCV).
Vivenzio è osservatore a volte superficiale (parla di soli 50 laghi e non di 215), anche per la fretta di essere il primo a scrivere.
“In molti luoghi si profondò il terreno, furono le colline intere trasportate con moto orizzontale, e saltarono dal basso in alto i letti de’ fiumi, e pezzi di terra con alberi, e case di campagna: onde non sembra strano, come è stato già avvertito, il congetturare, che in quelle contrade fosse avvenuta la profonda, e massima accensione, e scoppio della causa efficiente del terremoto” (Vivenzio 1783, p. CCIX).
“Sembra che il centro dello scoppio della materia produttrice del Tremuoto nel giorno funesto de’ 5 Febbrajo fosse stato appunto lungo le infelici contrade della Città di S. Cristina, e de’ suoi Casali, che sono collocati presso Aspromonte: imperocché fu tale colà l’orribile scuotimento, che Abitazioni, rocche, colline, e gli stessi monti si videro alla rinfusa posti sossopra: onde oggi non può in modo alcuno ravvisarsi la figura dell’antica superficie terrestre. In tutto lo Stato non rimase pietra sopra pietra, quantunque gli edifici fussero solidamente costruiti: né Trappeti, né Case di campagna, né in fine ombra di muraglia veruna restò in piedi” (Vivenzio 1783, p. CCXXXI).
In effetti, S. Cristina e Oppido distano, in linea d’aria, poche miglia. “Se si pende per [epicentro] la piccola città di Oppido, ai piedi del versante nordovest di Aspromonte, non lontano del corso superiore del fiume Marro, e se si descrive, attorno a questo centro, un cerchio di 32 chilometri di raggio, lo spazio così delimitato comprenderà la superficie dei paesi in cui tutte le città e tutti i villaggi furono distrutti” (Lendermant 1961, vol. III, p. 344). A parte questa comodità di rappresentazione, “La convinzione che l’epicentro fosse nella zona di S. Cristina era largamente accettata, solo qualche autore propendeva per Oppido o per Casalnuovo” (Placanica 1982, p. 106, nota 40).
D’altra parte, se si pensa che una lunga fenditura passa vicino Santa Cristina, dall’altra parte rispetto a Oppido, l’epicentro dovrebbe essere spostato di qualche miglio.
Il vallone di S. Cristina, percorso da rapidi fiumi, era largo un miglio ed era fertilissimo per miglia e miglia, fino alla Piana. Viene interrotto da una frana prodotta da un’intera collina che occupa tutto il vallone per un’altezza di 50 metri circa. Si forma un lago di due miglia per un miglio che sarà vuotato solo dopo 40 anni e lascerà, al posto del vallone, una terra piena di detriti e di rocce trasportati dalle fiumare.
Non fu l’unico lago formatesi nel vallone. Tre nel territorio di S. Cristina, vari laghi intorno ad Oppido, etc.
“Nel 1783 si contavano nelle due porzioni del distretto così denominato [e interamente distrutto dal terremoto] 109 città e villaggi, con 166.000 abitanti. Due minuti furono sufficienti, durante la scossa del 5 febbraio 1783, a mezzogiorno e mezzo, per non far restare in piedi una sola casa e per far perire un quinto degli abitanti” (Lenormant 1961, vol. III, 354). Dopo la scossa cominciarono gli incendi dai focolari rotti, per le travi cadute sul fuoco. Molti morirono per causa degli incendi.
“Molti fondi colle Case, e con parte degli alberi in piedi, passarono da una parte all’altra della predetta valle, trasportando illesi per lo spazio di un miglio alcuni Agricoltori, che colà si trovavano. In fatti un tale Antonino Brancato, che stava potando una vite, vedendo partire il terreno, si attenne alla medesima, e senza muoversi fece un ben lungo tragitto” (Vivenzio 1783, p. CCXXXIV).
“Un altro nominato Domenico Lentini operajo del Gentiluomo D. Francescantonio Zerbi, trovandosi con lui in campagna, fu trasportato col terreno all’istante nell’altra parte di detta gran valle frapposta, lungo la quale scorre il detto fiume della Campanara, e dal piano, in cui era, si trovò in un luogo elevato. Intanto lo Zerbi, con altri Operai essendosi salvati nel piano, e credendo già morto il Lentini, dopo poche ore lo videro comparire sano, e salvo, siccome lo è al presente” (Vivenzio 1783, p. CCXXXIV-CCXXXV).
“Un Giardino di agrumi del sacerdote D. Pasquale Spadari nella contrada detta Carigliano partì col rimanente fondo, e colla Casa di campagna; e passando sopra una gran valle andò a collocarsi nel fondo del Gentiluomo D. Giovanni Mazzapica, detto del Campo, ch’era distante circa un miglio. La Casa, e gli Abitanti rimasero sepolti, ma gli Agrumi, e gli altri alberi restarono in piedi, ed è insorta lite, che ancor pende, fra questi due Padroni intorno al diritto sul fondo” (Vivenzio 1783, p. CCXXXV-CCXXXVI).
Malgrado la superficialità già detta, presente in alcune considerazioni di Vivenzio, molte delle cose raccontate da questi sono confermate da Deodat (o Dieudonné) de Dolomieu, che è lo studioso che ha dato il nome alle Dolomiti (avendo scoperto le qualità delle pietre calcaree che costituiscono questi monti).
Il nome fu dato alle montagne dopo il 1864, quando comparve in una pubblicazione e si diffuse in Italia soltanto dopo la prima guerra mondiale.
“Gli alberi e le vigne che stavano sui terreni, l’intera massa delle quali si è spostata, non hanno sofferto. Gli stessi uomini che si sono trovati, gli uni sotto gli alberi, gli altri ai loro piedi lavorando il suolo, sono stati così trasportati, per diverse miglia, senza ricevere alcun male. Mi sono stati citati parecchi esempi che sono messi nelle relazioni” (Dolomieu 1784, pp. 39-40). Quando si sono verificati casi di questo genere con proprietà che sono salite sopra altre proprietà, “incidenti di questo genere hanno dato luogo a delle questioni singolari: non è stato possibile decidere a chi appartenessero i terreni che ne avevano seppellito altri” (Dolomieu 1784, p. 36).
“L’effetto più comune, quello di cui si vedono un gran numero di esempi, nei territori di Oppido e S. Cristina, sui bordi delle vallate o gole profonde nelle quali scorrono i fiumi Maidi, Birbo e Tricucio, è quello che si osserva, quando la base inferiore è mancata, i terreni superiori sono caduti perpendicolarmente e successivamente, per grandi fette o fasce parallele, per andare a prendere una posizione rispettiva, somigliante ai gradini di un anfiteatro; il gradino più basso è qualche volta a tre o quattrocento piedi al di sotto della prima posizione. Tale una vigna, tra le altre, situata sul bordo del fiume Tricucio, dopo il nuovo lago, si è divisa in quattro parti, che si sono posizionate in terrazze le une al di sotto delle altre, e di cui la più bassa è caduta di quattrocento piedi di altezza” (Dolomieu 1784, p. 39).
La notte di giorno 6, alle ore 0.20 circa, ci fu la seconda scossa, con epicentro vicino a Scilla. Questa seconda scossa, per quanto più debole, provoca in Scilla un disastro: il Principe Ruffo, che ha ospiti nel castello di Scilla, dopo la prima scossa, li convince a passare la notte su una nave nel porto, malgrado il castello non abbia subito danni rilevanti. La seconda grossa scossa stacca a sud di Scilla un pezzo di montagna che cade in mare, provoca un’onda anomala che si rifrange sulla Sicilia e ritorna indietro facendo naufragare la barca. Muoiono tutti, Principe compreso.
Michele Torcia che scrive un libro con l’intento di raccontare soprattutto quello che è successo ai poveri nobili nel corso di quel terremoto, così racconta non solo la morte del Principe Ruffo, ma anche le conseguenze della sua decisione di passare la notte in barca e non nel castello che considera più sicuro.
“Il Principe dell’antica famiglia Ruffo avea provato nel corso della sua vita varie altre scosse della terra in quella Rocca; egli era da tutte campato col rifugiarsi in una stanza, che poggiava sulla parte la più soda dello Scoglio, e che è rimasta intiera in quello incontro. La violenza delle scosse attuali, e la debolezza forse della sua decrepitudine, lo fecero risolvere ad abbandonare il solito suo rifugio, e di cercarne un altro più sicuro sulla spiaggia, o sia praja delle filuche a sinistra, … si ricoverò egli sulla sua bella lancia, da lui fatta ammarare a disegno tra il lido, e le onde, per evitare gli urti terrestri, e non come le altre barche più dentro terra del solito, e infalangate nel luogo inaccessibile alle lame dell’onde. Infelicemente il suo esempio trasse una gran parte de’ Cittadini della Montagna a ricoverarsi nelle filuche pe’ loro parenti, ed Amici; gli altri si attendarono nelle vicine Campagne, e così pensarono di passar salvi la notte ambi i partiti. Non eran periti sotto le ruine degli edifizj alla prima scossa, se non 100 in circa individui; la seconda di notte ne fabbricò 2300” (Torcia 1783, p. XXII). Secondo Arena, furono 1400 (1906-08, cap. XVII, p. 179).
La relazione di Arena, pubblicata più di un secolo dopo, di fatto è scritta al tempo del terremoto. Nel 1783 non tutto viene detto. Per esempio, non è che il Principe Ruffo sia tanto decrepito. Lo è di età, ma non sembra di comportamenti. Egli è, per così dire, un anticipatore di quel tipo di divertimenti che abbiamo iniziato a chiamare “bunga bunga”.
Pare che sia state proprio queste giovani “easy girls”, che si sentivano soffocare nel castello, soprattutto nell’ipotesi di nuova scossa di terremoto, che convincono il Principe a trasferire, per continuare i festeggiamenti con più allegria e spensieratezza, sulla barca del Principe, la stessa barca con la quale erano arrivate e sulla quale avevano cominciato i festeggiamenti già nel corso del viaggio. Il Principe decide di accontentarle. I paesani del Principe fraintendono i motivi dello spostamento del Principe, lo attribuiscono a ricerca di maggiore sicurezza e lo imitano. Da ciò la tragedia del nuovo disastro e del numero elevato di morti.
Lo dice esplicitamente Carlo Botta: “Il vecchio principe di Scilla stato assai tempo lontano da quella sua terra, tirato da inevitabil fato, vi si era da poco innanzi ricondotto, ed in difettoso ozio vi andava i suoi giorni passando, e forse ancora meno castamente, che a uomo già molt’oltre nell’età è consumato di convenisse, vivea: di sirene condotte insin da Roma con sé aveva copia” (Botta 1853, pp. 221-2). Furono queste sirene che lo convinsero a ritornare sulla barca con la quale erano venute da Roma. Egli era propenso a restare nel castello che sapeva solido, ma finì con il cedere.
Altre indicazioni relative alla gravità dello sciame sismico:
“Nel territorio di S. Georgia si aprì il monte, che è posto tra la città di S. Cristina, e la contrada detta Giocanna, precipitandosene una parte colla perdita di molti fondi pieni di alberi” (Vivenzio 1783, p. CCXXXVII).
“Vi dicono che una Città è stata scagliata un miglio lontana da dove era prima, senza far parola di voragine; che i boschi e i campi di grano sono stati nella stessa guisa portati via, … per la gran profondità della lavina, e del moto violento della terra, due smisurate porzioni di terra, sopra la quale posava una gran parte della Città, composta di alcune centinaja di case staccatesi caddero nella lavina quasi a traverso, alla distanza di circa mezzo miglio, da dove prima stavano” (Hamilton 1783, p. 45).
Il terremoto “cagionò uno sfondamento sotto il suolo di Casalnuovo, che inghiottì tutto l’abitato con 3300 e più de’ suoi abitatori” (Torcia 1783, p. XXVIII).
“La città di Terranova, che stava situata sopra un promontorio, in buona parte si precipitò con tutto il terreno sotto il vicino fiume, e parte si dirupò dentro una gran valle vicina, e della stessa poco vi restò nel primiero sito; e dov’era la piazza essendosi formata una voragine, vedesi oggi un lago, e molte acque salse si sono anche osservate nelle sue vicinanze. Il Castello camminò per più di un miglio, dove aprendosi, alcuni carcerati che non rimasero morti, ricuperarono colla vita la libertà” (Arena 1906-08, cap. XXXI, p. 371).