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Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto (quarta parte)

  •   Rocco Palamara
Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto (quarta parte)

Nei vari resoconti sulla “Repubblica Rossa di Caulonia” si parla di parecchie migliaia di partecipanti (fin oltre 10.000), ma senza discernere tra quelli che per primi bloccarono la cittadina e quanti accorsero successivamente, a loro volta armati e determinati, o che si recarono brevemente in segno di appoggio e solidarietà; e questa è solo una delle lacune che circondano ancora la vicenda costringendomi mio malgrado alle interpretazioni.

Il fatto che le autorità vennero colte di sorpresa accredita una versione che valuta intorno a un centinaio (e comunque non in migliaia) il nucleo primario dei rivoltosi, con gli altri che si aggiunsero man mano per un coinvolgimento progressivo che probabilmente sorprese anche i promotori della rivolta.

Il concentramento degli uomini e i preliminari dell’assalto avvennero nel pomeriggio del 5 marzo e poi nella notte, così che all’alba del 6 Caulonia fu occupata da squadre di miliziani armati piazzati nei punti strategici e nelle entrate del paese; occuparono il locale del telefono e sopraffecero i carabinieri prendendoli in ostaggio.  Infine sfilarono armati per le vie fino al Municipio dove issarono la bandiera rossa e proclamarono la repubblica comunista. Nel corso della stessa mattinata o in quella successiva instaurarono il “consiglio della rivoluzione” e il “tribunale del popolo” nel mentre  la sezione del partito comunista venne adibita a ufficio per i lasciapassare a chi  poteva entrare e uscire dal paese.  

Il Tribunale del popolo.

Una delle prime disposizioni della “consiglio della rivoluzione” fu quella di prelevare da casa sua il Pretore e ordinargli  di recarsi a Locri  dai giudici del  tribunale per chiedere l'immediata scarcerazione di Ercole.  Ma nell’evolversi rapidamente delle cose prese a funzionare anche il “Tribunale del Popolo” presenziato da Libero Cavallaro, altro figlio del sindaco.

I “nemici del popolo” vennero man mano prelevati da ovunque, portati a giudizio nella piazza davanti al Municipio fungente da tribunale dove gli venivano comminate condanne a giornate di zappa, camminate a piedi nudi, bastonature di vari tipi e altri castighi riferibili alle angherie patite per secoli dai contadini. I grandi proprietari terrieri tuttavia non figurano tra i processati, non fosse altro perché non ci fu tempo di occuparsi di loro. Ma tra i condannati ci fu anche quell’impunito che aveva sparato al nipote di Cavallaro… e che si prese la sua bella razione di nerbate.

Ma non furono certo queste parodie di istituzioni ispirate alla rivoluzione russa a conferire valore politico alla rivolta, ma il successo iniziale dell’operazione. Che dei normali contadini avessero osato e vinto rincuorò gli animi dando nuovo e più ampio impulso all’ iniziativa rivoluzionaria; perché a quel segnale “ il popolo … partecipò in massa e sempre più numeroso man mano che passava il tempo. Affluivano da tutte le parti, dai paesi, dalle contrade più lontane, con entusiasmo, con passione, con impeto, per essere testimoni e partecipi di quel grande evento che avrebbe dovuto mutare la loro storia“ .

Un primo problema logistico, che fu quello di dare da mangiare a tanti forestieri, venne risolto imponendo ai ricchi di contribuire con denaro e derrate alimentari, mentre per cucinare si incaricò una squadra di donne secondo gli usi paesani.  Ma si insistette sul piano militare: in un clima di resa dei conti, pattuglie di contadini armati andarono a rastrellare dalle case dei possidenti e dei fascisti incalliti armi da requisire e nemici da portare davanti al tribunale. Taluni vennero sequestrati e messi sotto sorveglianza in un edificio fuori paese detto “prigione del popolo” oppure “campo di concentramento”, a seconda delle interpretazioni.

Vi furono in realtà tante stranezze dettate più da automatismi ideologici che dalle condizioni in campo, ma Cavallaro pensava ormai oltre Caulonia, e propriamente (come dirà in una intervista a Sharo Gambino molti anni dopo) di fare di essa un “faro” e un esempio alle altre realtà critiche dell’Italia centro-meridionale per una nuova Marcia su Roma “… proletaria, non quella fascista e che lungo il cammino si sarebbero accodati tutti gli altri”. Dirà lui stesso. Ma quando si rivolse ai principali capi comunisti della provincia per il necessario sostegno questi non lo assecondarono affatto. Li accuserà perciò (nella famosa intervista) di poca lungimiranza politica, menefreghismo, vigliaccheria e invidia per il suo carisma personale.

 Il Partito Comunista, il Prefetto e gli altri.

Il P.C.I, che allora era al governo in coalizione con i democristiani, si mosse sin dall’inizio per fermare l’insurrezione agendo di concerto con le locali autorità. Quando nella mattinata del 7 marzo il prefetto di Reggio Antonio Priolo convocò le parti per esaminare con urgenza la questione, oltre al questore e un maggiore dei carabinieri, chiamò anche il segretario provinciale del partito on. Eugenio Musolino che da parte sua si prese l’incarico di andare a calmare i rivoltosi a patto di potere offrire loro in contraccambio la scarcerazione del ragazzo. Ottenuta la formale assicurazione dalla Corte d’Appello di Catanzaro quel giorno stesso andò a Caulonia dove i rivoltosi lo accolsero come un superiore di grado, e accordo fu.

Secondo il giornale “l’Unità”, il ragazzo fu rilasciato quella sera stessa, ma tutte le altre cronache riportano che fu l’8 marzo (al terzo giorno dell’insurrezione) che Ercole  fece effettivamente ritorno a Caulonia dove secondo una testimonianza: ”…i comunisti per festeggiare la vittoria e porre fine allo stato di agitazione, organizzarono un corteo ed issarono alle porte di Caulonia una bandiera rossa ed una bandiera bianca, quest’ultima in segno di resa e di pace”.

Interpretando, per i più l’obiettivo era stato raggiunto ed era l’ora di  tornarsene a casa. Ma si sa anche di molte titubanze a deporre le armi e non si può sapere come sarebbe proseguita la cosa se non fosse che nella stessa mattinata, lontano del paese, c’era stata una tragica fatalità.

Nella frazione di Crocchi una pattuglia di caulonisti composta da Ilario Bava e Domenico Manna andò ad imbattersi nel sessantaduenne parroco don Gennaro Amato che aveva una relazione semi ufficiale con la sorella di Bava. Tra quest’ultimo e il prete si accese una discussione e poi una colluttazione in cui dal moschetto del Bava partì un colpo che trapassò fegato e stomaco del prete che alcune ore dopo morì.

In considerazione della professione dell’ucciso l’incidente farà gridare in tutta Italia alla “strage dei preti” com’era accaduto nel 1936 nella guerra civile spagnola. Ma prima che la stessa democrazia cristiana avesse il tempo di montare la campagna di stampa contro i “delinquenti di Caulonia”, furono i dirigenti del partito comunista a strumentalizzare il fatto per pigliare completamente in mano la situazione col fine di stopparla.

Agitando lo spauracchio della repressine per i fatti accaduti  e spacciandosi come i soli in grado di scongiurarla agendo sul governo e il prefetto di Reggio, dettarono loro, da li in poi, il da farsi. Ed è nel loro stile il fatto che quella sera  stessa, Bava e Manna vennero fermati (“arrestati dai miliziani” secondo l’Unità, e “convinti” da Cavallaro secondo altre fonti) e portati la mattina dopo (9 marzo) ai carabinieri di Roccella per accusarsi del fatto; con una prima brutta conseguenza per loro di essere subito torturati e per seconda - al processo – beccarsi condanne nell’ordine di 26 e 24 anni di reclusione. Date le circostanze fu un costo altissimo per i due sventurati (un colpo partito per sbaglio a uno solo dei due), ma anche un prezzo morale insostenibile per la “repubblica”,  che sacrificava gente dei “suoi” per calcolo e come mercanzia. L’averli poi ceduti agli odiati “sbirri” era inaccettabile per  gli ‘ndranghetisti, nerbo militare dell’insurrezione. Venute meno le convenzioni morali, il Movimento non era più in grado di reggersi su se stesso ed esposto ai colpi da tutte le parte.

La colpa di Cavallaro sta nel fatto di aver subito i “consigli” e i ricatti del partito. Quella mattina stessa (9 febbraio) comunicò a Togliatti la fine dell’insurrezione; col un telegramma: «Insurrezione, come non mai in Calabria, con centro Caulonia, dopo superba soddisfazione ottenuta, est fermata. Solo un morto. Fascisti et reazionari, tutti intendano il basta».    

Il carattere confidenziale del messaggio la dice lunga sulle aspettative ottimistiche di Cavallaro. Ma nulla era bastante per acquetare la reazione  che speculando sulla morte del prete colpevolizzava lo stesso PCI che, per smaccarsi, si produsse in altri “sacrifici”:  tre giorni dopo (12 marzo) toccò a Cavallaro,  convinto dal solito Eugenio Musolino a dimettersi da sindaco per ordine del partito e col solito ricatto di una probabile repressione. Si dimise però solo dopo formale promessa del prefetto Priolo che la repressione non sarebbe avvenuta. Nel duplice ruoli di commissario del partito e di garante degli accordi col prefetto (che reclamava anche la consegna delle armi), a insediarsi al posto di sindaco fu ancora lui:  l’onnipresente Eugenio Musolino. Commissariati in tutto Cavallaro e si suoi passarono così repentinamente dalla gagliarda marcia su Caulonia ad aspiranti impuniti per colpe anche non loro.

E ciò era quanto, sotto la guida degli intellettuali “tipo” (ma borghesi sempre) calabresi, sostanzialmente dei traditori col loro atavico servilismo e la mancanza di empatia con la propria gente e la propria terra.

Pasquale Cavallaro, con tutte le sue mancanze, a confronto loro rimane un gigante tra tanti nani. La sua gigantesca - seppur fugace - sfida al potere patronale era passibiledi una punizione esemplare quale ammonimento al turbolento mondo contadino. Per scongiurarla serviva stare uniti e armati (come i partigiani al Nord) trattando, magari, una resa ufficializzata e politicamente gestibile; oppure se il P.C.I.  li avesse difeso come parte dello stesso. Il partito però aveva più a cuore l’alleanza di governo con liberali e democristiani che non la sorte di masse di contadini marginali alle sue strategie di potere. Lo stesso Palmiro Togliatti, che pure li difese all’inizio con articoli di appoggio sull’”Unità”, non esitò poi a tacciarli di “provocatori” e abbandonandoli al loro destino. Ciò avvenne nel discorso di chiusura al Consiglio Nazionale del Partito, tenutosi a Roma l’8 aprile del 1945; e non sarà un caso se la spedizione punitiva contro i caulonisti  scatterà subito dopo: il 13 aprile. 

Nulla servì allora aver ceduto su tutto e delegato ogni decisione a Eugenio Musolino con tutte le sue assicurazioni fasulle se non proprio insincere e, per ultimo l’ossessione del disarmo come priorità. Per indurre i più ostinati a consegnare le armi fu messa in circolo la strana diceria che sarebbe arrivato poi  il maresciallo Tito con i rinforzi e le armi di rimpiazzo (!).

Fagocitati da ogni parte, la solitudine di classe dei contadini si ripropose in tutta la sua drammaticità, là dove solo ricorrendo alla vecchia arma della furbizia i meno sprovveduti presero almeno a dormire fuori casa, non fidandosi più di nessuno. Lo stato di agitazione, spento a Caulonia, si accese invece nelle contrade intorno. Alcuni persino presero a battere in armi le campagne, ma ormai da sbandati.

La marcia della vergogna  

Tutti i nodi vennero al pettine il 13 aprile quando con le notizie allarmanti che già arrivano per una grande truppa in avvicinamento (mille e duecento tra carabinieri e poliziotti), Pasquale Cavallaro venne attirato fuori Caulonia e - in circostanze poco chiare, ma in cui si profila l’ennesimo tradimento del  P.C.I.  -  arrestato dai carabinieri. Senza più punti di riferimento gli ormai ex caulonisti andarono all’incontro al loro destino, braccati come pecore da una manta di lupi. Un reparto motorizzato di carabinieri si introdusse di infilata a Caulonia e gli altri si avventarono sui paesetti intorno già circondati da tutte le parti. Guidati casa per casa da quelli del partito degli agrari, rastrellarono circa 800 persone e sequestrando in parte l’arsenale clandestino. Condotti a forza di botte e concentrati nello squallore del mattatoio comunale, appositamente allagato nella notte, dopo una prima sommaria selezione, 387 prigionieri vennero avviati in ceppi verso il carcere di Locri secondo un percorso di avvicinamento della durata di due giorni che fu  un autentico calvario per i poveri contadini: bastonati e ribastonati a ogni  “stazione”.

In quella MARCIA DELLA VERGOGNA la brutalità dei carabinieri fu tale che due prigionieri morirono durante il percorso e altri due in carcere, poco dopo. Le condizioni degli altri erano tali che un’ottantina vennero ricoverati direttamente nel reparto infermeria dove ci restarono per settimane e per mesi e tanti divennero tubercolotici per le botte e torture subite.

Da Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti non mosse un dito per difendere gli arrestati  molti dei quali restarono in prigione fino al termine del processo, due anni e mezzo dopo. I magistrati preposti a giudicarli nel tristo Tribunale di Locri erano gli stessi parenti o solidali degli agrari, a ogni regime servi e servitori di sé stessi. Nel loro di Tribunale si comminavano castighi ben più seri di quello - cosiddetto del popolo - dei contadini, e fortuna fu che i reati loro assegnati ricaddero nell’amnistia sui delitti politici del dopoguerra; ma non per Cavallaro (condannato a 26 anni di reclusione, ridotti per i vari condoni a 8 anni), e gli altri due (Ilario Bava e Domenico Manna) per l’uccisione di Don Amato che i giudici seppero come passare e per “delitto comune” e ordinato da Cavallaro (!). La legge era cosa loro e la tiravano come gli pareva...Invece i quattro contadini torturati e assassinati dai carabinieri non andarono per nessuno.

(Continua…)


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