Alluvione del 1951: la lunga notte degli africoti
- Rocco Palamara
Siamo al 66esimo anniversario dell’alluvione del 1951. Per le note e complesse vicende, le lotte e l’irrompere problematico dei montanari tra i popoli della marina, quel cataclisma è indissolubilmente legato al nome di “Africo”, emblema di quel disastro e della successiva mala gestione da parte delle autorità. Ma è bene ricordare come quella fu una tragedia più propriamente calabrese dato che coinvolse molti altri paesi delle province di Reggio e di Catanzaro.
A Santa Cristina d’Aspromonte, in soli tre giorni caddero 1.494 mm di pioggia, (quanto quella di un anno intero); a Platì crollò mezzo paese e 18 persone perirono sotto le macerie; altri 10 morirono a Careri e ancora 10 a Caulonia mentre altri gravissimi danni e lutti colpirono Natile, Ciminà, Canolo, Nardodipace, Cittanova e tanti altri posti non ultimo il mio paese, Casalinovo, destinato a condividere con Africo la lunga avventura dell’esodo fino alla sistemazione comune in Africo Nuovo.
Toccò dunque al versante ionico e ai paesi di montagna, senza però risparmiare del tutto le marine invase, nei casi più lievi, dal fango e dai detriti calati dai siti più elevati. Ma di quello che di ben più terribile era accaduto nell’entroterra ai marinoti furono messaggeri le fiumare con la loro portanza eccezionale e l’infinità di ramaglie e alberi con le radici volteggianti sul pelo dell’acqua insieme alle carcasse di centinaia di animali.
Ogni cosa fu trascinata a mare in tale quantità che quando la risacca la ributtò a riva, sulle spiagge della Locride si formò una immane catasta di legna alta fino a 12 metri e lunga parecchie decine di chilometri. Per un anno intero i carbonai non ebbero bisogno di salire in montagna per fare il carbone, servendosi di quella legna e armando le stesse “fosse” sulla riva del mare.
In un primo bilancio (sottostimato per difetto) si contarono 75 morti, 4.500 senzatetto e 1.700 case crollate o inagibili; tutti e 28 i ponti del litorale Jonico vennero spazzati via e immensi furono i danni all’agricoltura. Tra le conseguenze: a migliaia poi furono le famiglie che partirono per l’Australia in cerca di altri mezzi di sostentamento e di fortuna.
A Casalinovo
Tra i paesi che ressero agli elementi ci fu anche Casalinovo dove non crollò neanche una casa; ma la devastazione del suo territorio con gli smottamenti e le frane, che ne stravolsero persino la fisionomia, fu tale da compromettere le potenzialità agricole da cui dipendeva quasi interamente il sostentamento della popolazione. Sempre in campagna ci furono anche 6 morti, alcuni sorpresi nei iazzi con i loro animali o in viaggio per raggiungere il paese.
Molti di più furono quelli che la scamparono per un soffio, camminando su terreni che si muovevano sotto i loro piedi o lambiti dalle piene improvvise dei torrenti, come infatti accadde anche a mia nonna e mia madre. L’evento segnò nelle menti i casalinoviti a tal punto che da lì in avanti le cose cominciarono a designarsi con la dicitura: “prima dell’alluvione” o “dopo l’alluvione”.
Nessuno ricorda quando precisamente iniziò l’alluvione perché per parecchi giorni – chi dice quindici chi addirittura un mese – cadde sommessamente una pioggerella leggera ma persistente; finché con i primi violenti acquazzoni di Lunedì 15 ottobre le cose iniziarono a precipitare.
Passata la notte di pioggia assai forte e soprattutto di gran vento, lo scroscio riprese col giorno (martedì 16) ma in modo discontinuo, tanto che non ravvisando il disastro alcuni andarono lo stesso in campagna per fare legna o raccogliere castagne (era suo tempo) mentre tanti dei pastori rimasero nei iazzi e non rientrarono in paese, come nel caso di tre dei morti. Altri invece diedero ascolto ad altri sentimenti e a ciò dovettero la vita. Di questi restò per nominata la vicenda di una famiglia molto numerosa la cui casa venne poi completamente sommersa nell’ansa di una fiumara, ma che si salvarono tutti grazie al pianto ininterrotto di un bambino e al cuore tenero di suo padre che si risorse perciò di partite nottetempo con moglie e figlioli per una marcia estenuante sotto la pioggia e tutta in salita, riparando però sani e salvi a Casalinovo.
Alla fine di quella giornata martedì 16 ottobre il flussometro dell’Ente Forestale, sistemato su una casa del paese, registrò 183,2 millimetri di pioggia, e la stessa non tendeva certo ad allentare. Lo stesso giorno calarono tutte le fiumare e chiusero da tre lati il paese, mentre dal quarto - che era quello a monte - calò una frana poderosa che lo sbarrò del tutto anche da quel lato spazzando via quasi un chilometro della “rotabile” appena ultimata. Da quel momento nessuno poteva più entrare o uscire dal paese. Ai rimasti in campagna i parenti dovettero per giorni e giorni recapitare i pasti tramite lanci, tipo olimpionici, da una parte all’altra delle fiumare.
Nessuno però era veramente al sicuro. La frana di quel giorno aveva come scorticato il fianco del monte di una località detta Chintuhqhi che era solo dall’altro lato del serro dove sorgeva il paese. La dove prima c’erano boschi di querce e di castagni si vedeva ora solo una landa desolata di nuda roccia a sole poche decine di metri del paese. Ma il punto cruciale non stava tanto il quella inquietante vicinanza, quanto sul fatto che se era “calata” Chintuhdhi sullo stesso serro poteva “calare”anche Casalinovo! Sin da quel giorno allora, che era solo l’inizio, l’incubo della frana assillò le menti dei paesani che in quelle condizioni passarono tutto il tempo della pioggia e fin quando il diluvio terminò.
Dopo i primi 183 millimetri di martedì 16 ottobre, il flussometro segnò altri 168,6 mm. mercoledì 17 e ben 248 mm. giovedì 18; fino alla giornata di venerdì 19 ottobre, quando si pensò alla fine del diluvio ma che registrò ancora altri 106,2 mm di precipitazioni.
Il pensiero della frana fatale assillò per tutto il tempo i casalinoviti assediati nelle loro misere case a temere che ogni frastuono fosse di frana (ne calarono a centinaia) o di tuono; e di notte queste giungendo da punti indistinti nell’oscurità!
Al terzo giorno, da un altro lato del costone che sovrastava il paese, un’altra frana dirupò sprofondando per centinaia di metri verso la fiumara di Cerasìa. Tra questa e l’altra di Chintuhdhi, altre frane minori da dove si staccarono dei macigni che veloci come proiettili rotolarono verso le prime case senza però raggiungerle grazie a un torrentello e una spianata (u Chyanu)che contennero i detriti. Ma poi ancora, un’altra e più grande frana dirupò dalla parte opposta del paese precipitando quasi a strapiombo 200 metri più sotto nel vallone di Marufranciscu. Il paese stesso si mosse e casalinoviti allora se la videro davvero brutta. Insidiata da ogni parte la friabile petra rrinusa su cui poggiava il paese parse doversi sgretolare di botto: le case dirupare sotto le fiumare e i casalinoviti perire miseramente nella montagna sperduta. Ma non fu così, per fortuna!
Ad Africo
Più brutta ancora se la vissero gli africoti nostri dirimpettaia dall’altra parte di profonde fiumare. Impossibilitato il contatto, si verrà a sapere solo alcuni giorni dopo della loro allucinante avventura.
Su quel paese incombevano due vecchi pericoli: una vecchia falesa a monte dell’abitato e un torrente in forte pendenza che scorreva (quando scorreva) da un lato e ogni tanto straripava sulle case. Vent’anni prima ci furono degli smottamenti così gravi da prospettarsi il trasferimento dell’intero l’abitato in un sito più sicuro. Poi, come al solito, non se ne fece nulla salvo costruire un ponte sul torrente che stoltamente restringeva la portanza. Ironia della sorte, il ponte era stato reclamato con ardore dal conte filantropo e benefattore Umberto Zanotti Bianco, spingendo sulle autorità allo scopo di alleviare i disagi agli africoti. Lo fecero di malavoglia e lo fecero male.
Già dall’inizio, nell’insistenza della pioggia, venne risvegliata la vecchia frana con i primi massi che rotolarono per le strade e sulle case del paese, così che seguirono soprattutto per quello giorni di apprensione e di paura per i paesani. Ma le cose precipitarono (in tutti i sensi) il giovedì 18 quando un albero di ciliegio trascinato dalla corrente si andò ad incastrare nel ponte otturandolo e deviando la fiumara sul centro abitato. Allora una gran massa d’acqua, fango, pietre e ogni sorte di detriti rimpolpati dalla frana cominciò a dilagare furiosa per le vie mentre una parte del torrente continuò a scorrere nel suo letto naturale bloccando l’unica uscita del paese. Tutt’intorno c’erano precipizi.
Gli africoti restarono così come in trappola e nelle loro stesse case che manco erano sicure. La massa fangosa ne travolse alcune e, trovando nelle loro stesse macerie ostacolo per defluire, prese ad accumularsi in invasi che finivano col sommergere altre abitazioni. La dove l’acqua più fluida trovò modi di incanalarsi, scorrendo più veloce nelle vie, capitò che travolgesse delle persone trascinandole per lunghi tratti e fin quando riuscirono ad agguantare una sporgenza o vennero afferrati prontamente da altre persone. L’aiuto reciproco risparmiò, in queste come in altre circostanze, molte vite. Per non finire travolti o affogati, intere famiglie dovettero saltare dalle finestre e fuggire nelle maniere più disparate - alcuni trasbordati con passerelle improvvisate - mentre in altri casi la salvezza arrivò dalla stessa massa d’acqua che, aumentando di pressione, travolse gli ostacoli e defluì via. In un crescendo, come per un tragico “gioco dell’oca”, le famiglie abbandonarono le proprie case per trasferirsi in quelle di amici ritenute più sicure, per poi dover ancora fuggire cercando altri ripari. Finirono col rifugiarsi tutti nella chiesa che essendo di nuova costruzione e in cemento armato era l’unico fabbricato solido del paese. Qualcuno, arrivando, si prostrò davanti all’altare per ringraziare Iddio di averlo sottratto da morte sicura e qualcun altro a informare di disgrazie già consumate. Tutti si misero a pregare raccomandandosi al Padreterno e a San Leo (il Santo Patrono di Africo là presente in ben due statue: quella pesante di marmo e l’altra leggera di legno e argento della vara). Il prete, che era uno di loro (il famoso don Stilo) ed era lì con tutti i suoi parenti, cercò di infondere coraggio nella fede e disse messa.
Poi giunse anche la notte e il buio a peggiorare ogni cosa. Tra chi pregava e chi piangeva, prese a scorrere interminabile la nottata quando, verso mezzanotte arrivò qualcuno per annunciare che proprio dietro la chiesa tutte le case erano crollate sotto una massa di fango; e che quello stesso fango - poiché trattenuto dalle macerie - stava per sommergere anche la chiesa. Le invocazioni si levarono ancora più alte al cielo per una salvezza che pareva allontanarsi. Dal cielo arrivò altra acqua che però aumentando la pressione sulla parte debole della diga travolse gli ostacoli e il liquame si dileguò. Il Signore fu lodato e si riprese a pregare e sperare con qualche motivo in più.
Nel frattempo era giunta anche la notizia di tre paesani deceduti e il fatto ricondusse al pensiero come la morte seguitava ad aleggiare, senza tregua e senza sconti, su loro. Nell’estremo del pericolo gli africoti vollero ritrovarsi uniti per salvarsi o morire insieme. Arrivarono in chiesa anche le famiglie evangeliste transfughe di nuovo dal cattolicesimo e che mai in altre occasioni sarebbero entrate in quel posto lì. Mancavano ancora i più irriducibili, ma arrivando il mattino, quando il cielo diventò di rosso ocra come per un cupo presagio di morte, giunsero nella chiesa anche gli ultimi atei comunisti con il loro capo, Don Santoro, che declamando le sue ragioni al varcare della soglia esclamò:
- Questa è davvero la mano di Dio Onnipotente, prepariamoci a partire!
Cadute le ultime riserve e finalmente riuniti gli africoti si sentirono ricomposti per casomai presentarsi nel giusto ai comuni antenati. Ma come in una tragedia teatrale, arrivati al culmine del dramma, improvvisamente la scena cambiò; il ponte a monte si ruppe e l’acqua del torrente tornò a scorrere nel suo letto naturale. Avvenne all’alba e allentata anche la pioggia si poté finalmente lasciare la chiesa e anche fuggire dal paese. E fu con quella specie di lieto fine che la lunga notte degli africoti terminò.