Aspromonte Greco. Il racconto: «Cárrici, Cárrici, Cárrici»
- Franco Borrello
Càrrici è un’intraducibile interiezione dialettale che ha più o meno il significato di “Ancora?”, “E torna!”, “Un’altra volta?”.
Oggi è sempre più difficile sentirla in bocca a qualcuno ma una volta era molto diffusa.
Anzi, un certo don Pompeo, facoltoso possidente dell’Amendolea, l’usava così spesso che gli era rimasta appiccicata per soprannome. E la cosa l’aveva infastidito parecchio: guai a dire càrrici in sua presenza. Era come una parola magica: lui, di solito un pezzo di pane, si trasformava; diventava rosso, sbuffava, sbraitava, ansimava, sacramentava, pestava i piedi, batteva i pugni e, qualche volta, era pure venuto alle mani. E ce ne voleva poi a calmarlo.
Un giorno a Bova a casa di don Ferdinando, suo cugino, durante un pranzo tra amici, si stava chiacchierando appunto di questa sua singolare permalosità, di come quelle tre sillabe càr-ri-ciavessero il potere di operare quelle trasformazioni tanto improvvise quanto sorprendenti.
Ad un tratto don Ferdinando ebbe un lampo beffardo negli occhi e mandò a chiamare Martino, il vecchio servo. Gli era passata per la testa l’idea di giocare un tiro birbone a suo cugino. Una di quelle burle impietose di paese dove, per vincere la noia, non si esita a divertirsi ridendo della rabbia degli altri.
«Martino, – disse al servo – devi andare all’Amendolea da mio cugino don Pompeo. Se, quando sarai là, sarai capace di dirgli tre volte càrrici, al tuo ritorno ti regalerò tria mundìa ‘zze sitàri (tre mondella di grano)».
Martino obbedì perplesso: da un lato la promessa della ricompensa lo allettava, ma dall’altro l’idea di affrontare l’ira di don Pompeo lo atterriva. Comunque sellò il suo asino spelacchiato e partì alla volta dell’Amendolea: ci avrebbe pensato strada facendo. Quando arrivò da don Pompeo, questi stava prendendo il fresco seduto sotto il porticato.
Martino smontò dall’asino, arrivò ai piedi della scalinata e, senza pronunciar parola, salutò con un mezzo inchino scoprendosi contemporaneamente il capo e rimase lì fermo con la berretta in mano.
«Ehilà, Martino, come mai da queste parti?». Martino si strinse nelle spalle.
«Che nuove ci porti da Bova?». Il servo si strinse di nuovo nelle spalle.
«Ma che è successo – domandò don Pompeo preoccupandosi – maisìa è capitata qualcosa a mio cugino?».
«No, no! – aprì finalmente bocca Martino rassicurandolo – Me Gnuri sta bene».
«E allora che fai lì ‘nciomato? Sali a bere un bicchiere di vino» «Un’altra volta, magari» rispose il servo rigirandosi la berretta tra le mani.
«Vi saluto» e girò le spalle per tornare all’asino.
Martino che rifiutava un bicchiere di vino? Cosa giusta non era!
Gli corse appresso e lo raggiunse in mezzo all’aia. Lo afferrò per un braccio «Insomma, non sarai venuto all’Amendolea soltanto per far bagnare al tuo asino gli zoccoli nella fiumara? Mi vuoi dire cosa è successo?».
«E va be’! – sbottò Martino – La volete proprio sapere tutta? Vostro cugino mi ha promesso tre mondella di grano se fossi venuto a dirvi “càrrici, càrrici, càrrici”.
Ma io non me la son sentita di dirvi “càrrici, càrrici, càrrici” perché io sono un uomo rispettoso e mi è sembrata gran scostumatezza dirvi tre volte “càrrici, càrrici, càrrici”».
Una volta tanto don Pompeo anziché imbestialirsi scoppiò a ridere colpito dall’arguzia dell’anziano servo: «Eh sì, mega ceratàro! (gran cornuto) – gli disse assestandogli una pedata – Ti è sembrata così gran scostumatezza dirmelo tre volte… che me lo hai detto nove!».