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Aspromonte, la via del cielo

  •   Gioacchino Criaco
Aspromonte, la via del cielo

La Lucertola, la Giraffa, la Balena poi il Delfino sino al Dragone. La maggior parte delle figure sono ormai irriconoscibili, ma in tanti monoliti calcarei è inconfondibile il segno dell’uomo che ha modellato i volti. Un arco di roccia lungo chilometri, una frazione di cerchio che ricalca i tratti della volta celeste. Se Umberto Zanotti Bianco l’avesse vista non si sarebbe sorpreso della conoscenza del pastorello, che incontrato in una sera d’insonnia, davanti alla sua tenda bianca piazzata nel centro di Africo nel 28, gli spiegò che la stella brillante che stava ammirando era Venere. Il filantropo piemontese dilaniava il suo animo per giustificare il dolore e la miseria di quel popolo, la cultura del ragazzino lo folgorò, comprese di colpo che qualcosa era avvenuto, che eventi terribili avevano causato una cesura orribile tra il passato e il presente di quella gente, fatti che ne avrebbero condizionato il futuro. E di accadimenti tragici quel posto ne aveva visti. Aveva assistito ai rastrellamenti e alle esecuzioni dei francesi, che erano arrivati per vendicarsi dello smacco subito dalla repubblica partenopea a opera di un esercito formato anche da numerosi africoti, messo su dal cardinale Ruffo e guidato dal generale Vito Nunziante. I piemontesi emularono l’esercito napoleonico. Poi arrivarono i terremoti del 905 e 908, seguì la guerra di Libia e il primo scorcio del ventennio fascista. Tutto contribuì a cancellare la cultura e il ricordo di un passato che tanto minuscolo non aveva dovuto essere. Non è questo uno stupido e orgoglioso racconto del tempo che fu, ma uno studio lungo, meticoloso basato su fatti e non favole. Fatti: si stanno catalogando i palmenti storici e protostorici che abbondano nel territorio aspromontano, segno che la cultura del vino era presente in Aspromonte da millenni. La terra ha restituito, intatto, un complesso artigianale formato da fornaci per la produzione di ceramiche e materiali da costruzione risalente a duemila anni fa. Gli studi, eseguiti dalla facoltà di architettura dell’università Mediterranea hanno messo in evidenza l’origine tutt’altro che povera dell’abitato dell’antico borgo di Africo, mura perfette e perfezioni dei dettagli, segno di ingegneri valenti e non di poveri pastori. La montagna è attraversata da strade pavimentate, chilometri di selciato quasi intatto. L’università di Milano ha mandato una ricercatrice, convinta che in Aspromonte sopravvivano antichi e rari vitigni. Migliaia di ulivi, il castagneto e il querceto più grandi d’Europa. Questo era Africo, questo potrebbe tornare a essere. Un sogno da realizzare, a questo lavorano da due anni decine di volontari partiti per togliere sessant’anni di fango, reale e metaforico, dal loro paese. La loro tenacia è diventata coinvolgente, istituzioni altra gente si sono fatti intorno. Il sogno continua e Africo è una terra di sogno se gli occhi che la guardano lo sanno fare, se sono animati da amore, curiosità, sfida. Se si cede al suo richiamo e non ci si ferma alla gita domenicale, alla mangiata in montagna. Se si penetra l’animo dei monti, Africo apre il suo scrigno e gioie preziose ne ha tante. L’ultimo suo regalo è la via del cielo, segnata da una serie di costellazioni che tagliano al centro il suo territorio, unendo lo Ionio al Tirreno. Una strada fra le stelle sta uscendo piano dai rovi. Gli occhi degli africoti di oggi non sono quelli accecati dalla miseria e dalla rabbia di qualche anno fa. Sono occhi di persone diverse, più simili a se stesse di ieri. Sono occhi di gente nuova e antica, che vuol riprendersi il proprio mondo, tenuto per troppo tempo prigioniero da tante cose che sarebbero lunghe da elencare. Occhi che si meravigliano per ogni scoperta, sia anche solo un profumo o un sapore nuovo. Occhi che sotto i rovi trovano case pressoché intatte, o facilmente recuperabili, che ritrovano antichi sentieri. Che di recente hanno visto, sbalorditi, la via del cielo, che hanno guardato e riguardato centinaia di volte le rocce, per convincersi che non era un miraggio. No, quello è un delfino, e quello un serpente .. e il volto che si può vedere dal belvedere che guarda il mare è quello di Zeus Olimpio, scolpito su un monte. Da qui la mano di Dio di Pentedattilo la puoi toccare. Sul fumo dell’Etna ci puoi soffiare e il calore ormai giunto lo si può smorzare nelle vasche di san Leo, su in alto fra i pini del Santo. La rabbia e la miseria, senza cercare alibi, hanno fatto scrivere pagine nere. Per quelli che nonostante rabbia e miseria hanno sempre avuto rispetto di se stessi e degli altri, ma anche per quelli che sentono di avere il dovere di rispettare se stessi e gli altri. Per tutti loro, ma anche per la Locride che torni madre e sede di una comunità, antica e nuova. Per noi, è essenziale ripercorrere la via del cielo, ritrovare i volti di chi ha scolpito le costellazioni, per riconoscerli e riconoscerci. Insieme, dal passato al futuro.. sulla via del cielo.


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