Barillah/Βαρελάς/Barillà: qual'è la sua origine
- Pino Gangemi
Mio padre, quando ero ragazzo, mi portava spesso al fondo che aveva ereditato da suo padre, Barillà. Non era tutto suo, perché una parte di quel fondo era toccata anche a suo fratello, zio Mico. Mi mostrava i limiti del fondo che, diceva, sarebbe toccato a me in eredità perché ero il primogenito, portavo il nome del nonno paterno, e mi toccava quello che era stato di quel mio nonno. A mio fratello, secondogenito, che portava il nome del nonno materno, sarebbe toccato un fondo che era stato dato in dote a mia madre dal nonno Domenico. Mia sorella avrebbe avuto il fondo, detto Pasqualino, che i miei avevano comprato appena avevano avuto sufficienti risparmi.
Queste storie di eredità da ricevere ci venivano raccontate continuamente, credo affinché non litigassimo dopo la loro morte. Non stupisce, quindi, che io sia rimasto sempre attento a tutto ciò che veniva raccontato a proposito di Barillà, piuttosto che a proposito di qualsiasi altra cosa. Barillà sarebbe stato mio.
A Barillà, camminavo con mio padre, lungo i confini del campo; mi insegnava a guardare le cime degli ulivi per stimare il peso delle ulive dalla curvatura dei rami più esterni, ma soprattutto mi mostrava i segni del confine: a destra, scendendo, la strada, in basso una fila di alberi e un salto del terreno più grande, in alto una stradina e tante piante di more. Era sulla destra, il confine del terreno con suo fratello Micu, che si soffermava a mostrarmi i segni del confine: “Questo cippo, questa pietra, questo solco…”.
Una volta mi azzardai a dire, un po’ annoiato: “Ma, Papà, lo zio Micu lo saprà anche meglio di me quale sia il confine…”. Non disse niente, perché mai avrebbe criticato suo fratello davanti a un altro, fosse anche suo figlio. Solo, mi prese per mano e mi riportò indietro rincominciando la lezione. “Questo cippo, questa pietra, questo solco…”.
Una volta, dopo il solito giro per mostrarmi i limiti del fondo, mio padre si fermò a guardare attraverso gli alti alberi e disse, come se pensasse a qualcosa che veniva da lontano: “Barillà è espressione araba. Qui ci sono stati, a dare questo nome che è rimasto così a lungo, i Saraceni e il nome ricorda ancora una presenza che abbiamo dimenticato”. E mi cominciò a parlare dei tanti anni che aveva passato in Africa, dove aveva trovato tanti nomi di luoghi che terminavano in –illah o in –allah. Le cose che mi disse quel giorno sono ancora incise nella mia mente.
Ho sempre avuto una grande stima intellettuale di mio padre della sua intelligenza speculativa molto viva che non aveva alimentato con degli studi, ma con delle continue riflessioni. Parlava poco, si diceva di lui. Evidentemente, rifletteva molto. Avevo imparato a rispettarlo sul piano intellettuale e della logica da quando, trovandomi con un libro in mano di fisica, ero già al liceo, mi aveva fatto delle domande cui avevo dato delle risposte inadeguate e con un rigore di logica che raramente ho riscontrato in altre persone, mi aveva dimostrato che avevo torto e che interpretavo male quello che leggevo nel mio libro. Ed io che ero appena entrato nella fase della ribellione adolescenziale, avevo pensato, un po’ seccato: “Ma come caspita fa a capirne anche di fisica!?”.
Devo confessare che non mi sono mai sentito all’altezza intellettuale di mio padre e ho sempre pensato, e penso ancora, che avrebbe fatto una carriera migliore della mia se avesse studiato o, meglio, se le persone appartenenti alla nostra classe sociale avessero potuto avere l’accesso all’Università che ho potuto avere io. Ho talmente stimato nella mia vita mio padre, che nel mio primo libro, La logica della comparazione, gli ho dedicato una lunga citazione: “Sia la prima che la seconda versione [di questo volume] sono dedicate alla memoria di mio padre Saverio Gangemi vissuto sin dalla nascita (6.3.1910) alla morte (26.10.1973) quasi esclusivamente in un paesino dell’Aspromonte. Il mio non vuole essere un riconoscimento soltanto affettivo: questo libro deve molto ai suoi insegnamenti. Da lui ho imparato che la logica è un linguaggio tra uguali; che è la prima forma di difesa del più debole; e che i tentativi di ricorrere ad argomentazioni non logiche riescono proficui soltanto a chi ha il vantaggio di favorevoli rapporti di forza. Egli mi ha inoltre insegnato che è una forma di rispetto per gli altri non far scendere mai dall’alto le proprie conclusioni. In ossequio a questa esigenza di rispetto gli capitava di dover ricorrere a qualche cosa di simile a quello che in questo volume viene detto frazionamento delle difficoltà; nella zona agricola dove mio padre è nato e vissuto è prassi frequente affittare le ulive quando sono ancora sull’albero. Per stabilire il prezzo bisogna prima stimare la quantità di ulive mature che si raccoglieranno in quell’anno; in quelle poche occasioni nelle quali, le parti in causa non essendo riuscite a pervenire alla stessa stima, è stato chiamato mio padre a fungere da arbitro, egli ha risolto l’imbarazzo che gli procurava questa responsabilità portando le due parti a passeggio per l’uliveto; e passeggiando esplicitava, albero per albero, ramo per ramo, la sua stima e i suoi criteri di valutazione. Ho sempre pensato che una simile abitudine a frantumare fino alle particelle più elementari i criteri di valutazione delle informazioni è l’unica strada che può portare le scienze sociali a non diventare competenza esclusiva di una classe di specialisti”.
“Citazione lunga”, mi direte. Ed io vi risponderò: “Lunga, ma necessaria”. Necessaria per capire che ho sempre preso maledettamente sul serio quanto mi ha raccontato mio padre. Perché se non avessi prese sul serio le sue osservazioni, non mi sarei incaponito così tanto a inseguire un significato arabo di un termine che autorevolissimi studiosi dichiaravano essere di derivazione greca (dividendosi, poi, tra quanti sostenevano che proveniva dal greco antico e quanti, invece, sostenevano che proveniva dal greco bizantino).
Inutile dire che non conosco l’arabo, che non ho mai ritenuto di doverlo imparare solo per trovare il significato di un termine e che l’inizio della mia ricerca è consistito nel chiedere a tutti gli arabi che incontravo. Il primo a cui mi rivolsi fu un giovane laureato arabo, di origini persiane, il quale, sentendo il mio cognome, Gangemi, mi disse, senza che gli chiedessi niente, che il cognome era di origine persiana, si pronunciava con una a aspirata (cosa che, ricordo, facevano ancora i vecchi del paese), e che voleva dire “cassiere” o “tesoriere”. Insomma, se quel mio antenato che ha portato il cognome in Sicilia (a Giarre, dove di Gangemi ce ne sono tanti) fosse stato un povero contabile, significava cassiere, se fosse stato un notabile di qualche rilevanza, significava tesoriere.
Lo ringraziai di questa spiegazione, che non so ancora quanto sia vera, anche se ogni tanto la racconto, e gli chiesi se per caso sapesse da quale espressione araba o persiana provenisse il termine Barillà. La sua risposta fu abbastanza sorprendente in quanto mi disse che significava “terra ferma di Allah”, specialmente se contrapposta ad acqua, in particolare a mare che si muove, non è fermo come la terra. Poi, su mia richiesta, dal momento che il riferimento al mare non mi convinceva, si impegnò ad approfondire la questione. Anzi, avrebbe chiesto a uno studioso suo amico. Lo rividi qualche volta e ogni volta mi assicurò che il suo amico studioso ci stava riflettendo. Mi ripeté tutto questo fin quando non ci siamo persi di vista.
Qualche tempo dopo, ho conosciuto e frequentato, un arabo, sposato con un’Italiana e ormai integrato in Italia. Laureato in medicina, aveva una grossa passione per le lettere antiche. Quando siamo entrati in confidenza, ho fatto anche a lui la stessa richiesta sul significato del toponimo Barillà, nel caso fosse stato di origine araba. Mi disse che era difficile da dire perché le parole arabe sono scritte nello stesso modo, ma spesso vengono pronunciate in modo diverso secondo i vari dialetti. Avrei dovuto dire quale popolazione araba (se egiziana o tunisina o che altro) avesse abitato quel luogo lasciando quel nome e la sua risposta sarebbe stata più precisa. Mi disse che avrebbe approfondito e, in effetti, qualche tempo dopo mi suggerì un significato: “le spezie di Allah!”. Questo significato mi affascinò moltissimo perché, rispetto al precedente che non aveva alcun senso per me, questo poteva avere una spiegazione. Immaginai che Barillà potesse essere stato una specie di mercato nel quale mercanti arabi provenienti da chissà quale città occupata nella piana o nella costa arrivavano offrendo le proprie spezie e urlando “Barillà”, ovverossia “le spezie di Allah”. Queste spezie erano il peperoncino a altre mercanzie che provenivano dall’India via mare. Durante il periodo di dominazione araba della Sicilia, queste spezie venivano vendute direttamente, nei loro mercati, dagli Arabi.
Ad un certo punto, ricordo che mi sono fatto coraggio e sono andato all’istituto di studi orientali dell’Università di Catania per cercare un docente di arabo, possibilmente di madrelingua araba. Trovai un giovane abbastanza disponibile. Tuttavia, non seppe aiutarmi e nemmeno confermarmi quale delle due traduzioni suggeritemi fosse la più credibile. Mi indirizzò, semplicemente, a un docente dell’Università di Napoli. Mi diede nome e numero di telefono. Poi, aggiunse anche il nome di un istituto di studi orientali dell’Università di Venezia che era, a suon dire, il migliore in Italia.
Cominciai con Napoli: prima una telefonata e poi una lettera.
“Chiarissimo prof.,
approfitto della Sua cortese disponibilità manifestata al telefono per sottoporre alla Sua attenzione un toponimo, Barillà, relativo alla punta estrema di un pianoro circoscritto da due valli molto profonde. Queste valli, ai lati, sono troppo ripide e praticamente impraticabili, mentre dalla parte della cima, andando avanti, due strade, una più piana, larga abbastanza per il passaggio di un carro, e l’altra più ripida e stretta, portano entrambe all’incrocio tra le due fiumare che percorrono il fondo delle valli. Si sospetta che il termine abbia origine araba o saracena, data la desinenza in –illà che, mi è stato detto, dovrebbe derivare da Allah.
Il toponimo dovrebbe risalire al X o XI secolo, al periodo in cui i Saraceni, dalla vicina Sicilia, si spingevano per razzie fino all’interno. Il luogo in essere è, infatti, in una delle prime balze settentrionali dell’Aspromonte.
Rimango in attesa di una Sua cortese risposta.
Con i miei più cordiali saluti.
Giuseppe Gangemi”.
Qualche settimana dopo, ricevetti una gentile risposta che non mi aiutava in niente:
“Gentile collega,
la desinenza in –illà o –allà non è prova certa della provenienza dall’arabo e la sua richiesta è troppo specifica e legata a un singolo luogo per poter essere spiegata da chi non conosce il posto. Ipotizzando che il toponimo sia di origine così lontana nel tempo (praticamente un millennio) ogni deformazione è possibile e non è da escludere il passaggio da Darillà a Barillà o anche una qualche deformazione che renda irriconoscibile il debito originario della lingua araba. Ipotizzando che il termine originario possa essere stato Darillà, il significato originario arabo sarebbe ‘la casa di Allah’.
Non considero però questa interpretazione conclusiva, in quanto sarebbero necessari approfondimenti sul luogo che, ovviamente, non sono in condizione di fare.
Sperando di esserle stato di un qualche aiuto, la saluto cordialmente…”.
Questa lettera mise in gioco la necessità di allargare la riflessione anche al termine Darillà. Ed è con questa doppia ipotesi che cominciai, dopo di allora, a presentarmi ad altri studiosi per chiedere aiuto e definitive conferme. Sempre ricevendo, però, suggerimenti diversi dai precedenti. Un’altra possibilità che mi venne offerta fu quella di interpretare il termine Darillà come “luogo per il quale calano le giovenche” oppure quello di “strada percorsa a piedi” o scorciatoia (in questo caso sarebbe stata la strada ripida e stretta, non carrabile, ad aver dato il nome al luogo). Ma più aumentavano i significati possibili, meno concludente poteva considerarsi la ricerca.
E intanto gli anni passavano senza che io arrivassi a niente di definitivo. Fin quando non arrivò il 1979, anno in cui fu pubblicato un importante volume di Gerhard Rohlfs, Dizionario dei cognomi e dei soprannomi calabresi. Il volume ebbe un successo strepitoso e non c’era studioso di cose antiche che non lo prendesse in considerazione per tutte le questioni che riguardavano la Calabria. E così le mie domande cominciarono a ricevere un nuovo tipo di reazione:
“Dice che è un toponimo calabrese? Siccome la Calabria è stata terra greca per più di un millennio, la prima cosa da fare è di escludere che non sia un nome di origine greca. Magari questo toponimo è diventato un cognome o un soprannome e allora, il modo più rapido di controllare è quello di ricorrere a Rohlfs, un’autorità in materia”. Quindi, prendevano il Dizionario e scoprivano subito che Barillà era anche un cognome. Tornavano con il dizionario in mano e dichiaravano:
“Problema risolto! È stato anche facile”. Tradotto in volgare, queste parole volevano dire: “Bastava che tu fossi andato a cercare nel testo giusto”. Dopo di che era inutile insistere per l’ipotesi che fosse un toponimo di origine araba. “Se Rohlfs dice che è un nome di origine greca, occorre molto di più che una semplice sensazione per ipotizzare il contrario. Le consiglio di non perdere più tempo e di abbandonare questo tipo di ricerca”.
Il primo che mi ha risposto così mi ha letteralmente lasciato senza parole, anche perché io non sapevo ancora del Dizionario di Rohlfs. Qualche giorno dopo quella conversazione, andai all’istituto di storia antica a consultare il Dizionario di Rohlfs. Nel dizionario lessi che il cognome Barillà proviene da βαρελάς, termine greco che significa bottaio, costruttore o venditore di botti. Non soddisfatto, ho subito cercato in un dizionario di greco antico la parola βαρελάς, senza trovarla. Ho, poi, cercato in tutti i dizionari greci presenti all’Università di Catania e non ho mai trovato la parola cercata.
Non sapevo più che fare e la mia ricerca era bloccata.
Mi arrovellavo sempre intorno al solito irrisolto problema: dove e come si poteva trovare una conferma all’ipotesi che Barillà fosse un termine che derivava dall’arabo e non dal greco? Quali informazioni raccogliere che fossero in grado di smentire il significato del termine Barillà come fissato sulla roccia da Rohlfs?
Pensai di dovermi rivolgere, per consiglio, a uno dei più importanti grecisti catanesi. Questi mi fece aspettare varie settimane prima di concedermi il suo tempo. Poi, alla presenza di due suoi assistenti, mi diede udienza: gli raccontai di Rohlfs e del significato che aveva attribuito al termine Barillà, ma anche del fatto che il termine βαρελάς non si trovava nei dizionari antichi. Gli dissi che volevo, perlomeno, risalire nel tempo e datare, in qualche modo, il momento in cui questa parola era entrata nell’uso corrente del greco moderno, una lingua che, per quanto ne sapevo, era stata costruita artificialmente, da vari dialetti, nel XIX secolo. Poi, se avessi trovato che il termine greco era nato da meno di un secolo, avrei cercato di riandare indietro nel tempo per trovare da quanto tempo quel luogo si chiamava Barillà. E se fosse risultato che il termine Barillà era più vecchio di βαρελάς …
Mi ascoltò con attenzione e mi consigliò di cercare nel Megalexicon un importante dizionario che era stato pubblicato nel 1901. Purtroppo, aggiunse, non disponiamo di questo dizionario in nessuna biblioteca di Catania. Occorreva cercarlo altrove.
Questo dizionario, come ebbi ad apprendere qualche tempo dopo, era il risultato della fusione dei tre più importanti dizionari di greco moderno utilizzati, in Grecia, nel XIX secolo. Se la parola non si trovava lì, voleva dire che non era ancora entrata nell’uso colto all’inizio del XX secolo. Questo non avrebbe escluso, però, che il termine Barillà non potesse derivare da βαρελάς perché l’uso non colto, al limite dialettale, del greco poteva avere avuto qualche influenza. Dopo di che, lo studioso catanese aggiunse e concluse: “l’ipotesi dell’origine greca del termine, se il termine non è presente nel Megalexicon, sarà certamente più debole, dato che il termine Barillà è, da quanto lei mi ha detto, precedente al 1901”.
Il consiglio era ottimo, ma di difficile realizzazione, proprio per la difficoltà di trovare il dizionario in questione. Ricordo che feci dei tentativi per scoprire se il dizionario fosse in qualche biblioteca italiana, senza riuscire, però, a trovarlo. E dovetti desistere dal seguire questa strada.
Nel 1991, mi sono trasferito all’Università di Padova. Qui, passati pochi mesi per orientarmi, ho cominciato a rendermi conto che vi erano biblioteche molto ben fornite. Nei ritagli di tempo, finivo per cercare libri di storia bizantina in queste biblioteche. Scoprii ben presto che questi libri erano più o meno tutti in una stanza di una delle biblioteche di piazza Capitaniato, abbastanza vicino al mio ufficio all’Università. La stanza era attrezzata con una decina di tavolini e altrettante sedie, ma raramente trovavo qualcuno a leggere e finivo per passare da solo in quella stanza tutti i momenti liberi che riuscivo a ritagliarmi. Sfogliavo libri di storia bizantina alla ricerca di notizie sulle razzie saracene e sulle città calabresi conquistate dai Saraceni. Mi limitavo a prendere appunti con l’intento di tracciare una tabella dei luoghi e delle date, in modo da costruire delle mappe per i diversi periodi storici.
Tuttavia, non riuscivo a trovare molto perché le città di Santa Cristina e di Oppido non venivano mai nominate in questi libi di storia, non essendo evidentemente considerate molto importanti. Anche questo tipo di ricerca ha finito per non sortire a niente, a parte il fatto che ho cominciato ad entusiasmarmi allo studio della storia dei Bizantini in Calabria.
Con la seconda metà degli anni Novanta, sono cominciati a comparire i primi motori di ricerca: Alta Vista nel 1996, Ask Jeeves nel 1997 e Google che è partito nel 1995 ma ha cominciato ad essere noto dal 1998. Questo mi ha aperto nuove prospettive di indagine. Ad un certo punto, sono cominciati a comparire dei dizionari on line e, non ricordo più quando, ho finito per trovare anche dizionari di greco antico e di greco moderno. Infine, comparve anche un dizionario arabo-inglese che, però, si presentava particolarmente complesso da consultare: prima si doveva tradurre la parola italiana in caratteri arabi e poi si doveva cercare questi caratteri sul dizionario. Facendo le operazioni sia per Barillà, sia per Darillà, ho trovato quasi tutte le traduzioni che mi erano state suggerite nel passato.
Intanto, il gioco dei dizionari mi ha catturato talmente che, ogni volta che ho avuto un paio di ore libere, ho cominciato a cercare anche altri toponimi. Ho provato a cercare un nome di luogo che, in dialetto, si pronuncia “scuffitta” e che, in Italiano, nel censimento onciario del 1742 viene indicato con il termine italianizzato “scoffetta”. Cercando “scoffetta” su Google, ho trovato due dizionari del 1700, uno di tedesco-latino e l’altro di latino, che riportavano questa espressione e la traducevano come “piccola scossa”. In altri termini, la doppia f era, originariamente, secondo questi due dizionari una doppia s.
La cosa mi lasciò inizialmente perplesso perché il termine “scuffitta” veniva interpretato da alcuni storici locali come derivante da “sconfitta”. Per un certo periodo di tempo, ho registrato il dato senza riuscire a comprenderne il senso, con riferimento al luogo. È stato studiando il terremoto del 1783, quando mi sono trovato di fronte al dato di fatto che gli abitanti di Santa Cristina, contravvenendo ad ogni invito a trasferirsi ad Oppido che faceva loro il Principe Spinelli, feudatario di Santa Cristina e di Oppido, e ad ogni considerazione di convenienza e di buonsenso, hanno deciso di non abbandonare la località detta di “scuffitta” nella quale si erano rifugiati dopo la distruzione del paese. Se “scoffetta” vuol dire “piccola scossa”, diventava chiara a quel punto la testardaggine dei cristinoti: essi sapevano che le scosse di terremoto si sentivano di meno a “scuffitta” rispetto al resto della montagna e, quindi, si erano trasferiti in quel luogo più sicuro rispetto al rischio dei terremoti. Che la scelta fosse stata saggia lo ha mostrato il terremoto del 1908, anch’esso molto rovinoso, che ha distrutto gran parte dei paesi intorno lasciando quasi intatto il paese di Santa Cristina. Quindi, “scuffitta” vuol dire “piccola scossa” cioè che la terra si muove di meno durante i terremoti.
Ma se questo era vero, anche il termine Barillà tradotto come “terra ferma” contrapposta a “superficie mossa” poteva essere riferita alla solidità del terreno e della roccia sottostante nel corso dei terremoti. Quindi, in qualche modo, “scuffitta” e “Barillà” potevano essere due espressioni che venivano usate dagli indigeni prima, e poi dai Saraceni, per indicare tutto il pianoro nel quale si trova l’attuale Santa Cristina. Poi, nel tempo, il termine Barillà era rimasto a indicare solo la punta estrema del pianoro, quella più lontana dalla montagna, mentre il termine “scuffitta” era rimasto a indicare la parte più vicina alla montagna.
Se questa ipotesi si fosse rivelata quella giusta, le due interpretazioni dei significati dei due termini si sarebbero rafforzate l’una con l’altra. Occorreva, però, che qualcuno accreditasse questa ipotesi di Barillà come indicante la caratteristica del territorio di far sentire di meno le scosse di terremoto, dal momento che la contrapposizione tra “terra ferma” e “acqua” o “mare” non era esattamente la stessa cosa della contrapposizione tra terra in cui i terremoti si sentono di meno e terra in cui si sentono normalmente. Sempre più urgente si rivelava il bisogno di trovare un vero esperto di lingua araba.
Più o meno a questo punto, è diventato rintracciabile via Google il Megalexicon nel quale potei effettivamente riscontrare che la parola βαρελάς non era presente. Ed a questo punto decisi di farmi suggerire, dal mio amico Mario Quaranta, un bravo e reputato docente di lingua greca. Questi mi consigliò di rivolgermi a un giovane collega dell’Università di Venezia, sostenitore di una spiegazione diversa, anche se al tempo minoritaria, rispetto a quella di Rohlfs, sui debiti reciproci tra Italiano e Greco.
Il docente, rintracciato al telefono dopo molti tentativi, fu molto disponibile. Gli spiegai, quindi, per lettera, che non riuscivo a trovare la parola βαρελάς in nessun dizionario greco, compreso il Megalexicon e gli chiesi come poteva essere ancora sostenibile la teoria di Rolfhs che il termine Barillà derivasse dal greco. Questa fu la mia lettera:
“Chiar.mo Professore,
per motivi di ricostruzione storica di alcuni eventi relativi alla Calabria del X-XI secolo, sono interessato a trovare il significato che, in origine, aveva il toponimo Barillà. So che il cognome Barillà, di cui ci dà notizia Gehrard Rohlfs nel Dizionario dei cognomi e dei soprannomi in Calabria, viene interpretato da Rohlfs come derivante dal greco antico βαρελάς che significa bottaio o costruttore di botti. Tuttavia, quando sono andato a cercare il termine greco nei dizionari di greco antico, non ne ho trovato alcuna traccia. Ho potuto finalmente cercare il termine nel Megalexicon, avendolo trovato in internet, e ho potuto verificare che il termine non è presente in quel dizionario.
Vorrei, quindi, prendere in esame la possibilità che Rohlfs si sbagli e che il termine derivi dall’arabo e non dal greco bizantino. Prima di muovermi in questa direzione, gradirei avere un Suo parere.
Grato della Sua cortese attenzione, rimango in attesa di un Suo suggerimento o spiegazione che mi aiuti a valutare il documento.
Cordiali saluti”.
Quindici giorni dopo, ricevetti una risposta.
“Caro collega,
sarebbe una coincidenza troppo fortuita che il cognome Barillà abbia un’origine diversa dallo stesso nome riferito a una località. Presumo, quindi, che l’origine debba essere la stessa: in quel luogo doveva abitare, un tempo, un bottaio indicato con il nome Barillà e questo deve aver lasciato il nome al luogo.
Per quanto riguarda l’origine greca del cognome Barillà, molto diffuso in Calabria, viene sicuramente dal greco demotico (o neogreco) βαρελάς. Si tratta di un termine di origine italiana passato in greco nel corso dell’età medievale e poi tornato in Italia meridionale come ‘cavallo di ritorno’. La trafila è questa:
L’italiano barile si pronuncia in italiano meridionale varili da cui deriva il termine medievale βαρέλι che si pronuncia varéli e significa barile o botte. Da βαρέλι il greco medievale ha formato la forma βαρελάς: il suffisso –άς serve anche per i nomi di mestiere, dunque ‘bottaio’. In seguito βαρελάς è passato (tornato) in Italia meridionale diventando un cognome e anche un toponimo Barillà: letteralmente ‘luogo dove si fanno i barili, dove lavora un bottaio’. Le modifiche intervenute nel passaggio it.>gr.>it. non fanno alcuna difficoltà. <β> si pronuncia /v/ e in italiano si può rendere sia con <v> che con <b>; la doppia italiana <ll> al posto di <λ> è normale, così come è normale sull’ultima sillaba conferma la provenienza di Barillà dal greco medievale βαρελάς. È questa la strada seguita da alcuni prestiti.
Per quanto riguarda la datazione di questi passaggi, italiano > greco medievale > italiano, le cose sono fatalmente vaghe. Con ‘greco medievale’ s’intende tutta l’età bizantina e dare indicazioni più precise è impossibile, anche perché il problema del greco in Calabria si lega con il complicato dibattito tra la tesi ‘arcaista’ (Gehrard Rohlfs, ecc.) e la tesi bizantina (Giuseppe Morosi, Oronzo Parlangèli, ecc.).
La tesi di Rohlfs è la seguente: il greco ha potuto resistere in Italia meridionale grazie al suo prestigio. Ma se avesse resistito per questo motivo, in particolare, termini come βαρελάς si sarebbero dovuti rintracciare nei dizionari colti del tempo. Ed, invece, come hai potuto verificare, i dizionari non riportano questa parola. Del resto non si può non chiedersi: quale peso può avere il prestigio culturale in una società rurale?
Comunque, è vero che il termine βαρελάς non è contenuto nel Megalexicon. Questo, però, non cambia nulla perché questi prestiti, come sostiene la ‘tesi bizantina’, in polemica con la ‘tesi arcaista’, si realizzano tra lingue non colte e solo alla fine del processo, che può essere stato formalizzato molto tardi, arriva nella lingua ufficiale dei dizionari. Del resto, dal XVI secolo al XIX, il greco è stato parlato e scritto sempre meno in Grecia, soprattutto nelle minoranze rurali, al punto che è stato reinventato dopo la costruzione dello Stato greco nell’Ottocento. Questo processo di ricostruzione è stato solo parzialmente fissato dal Megalexicon, ma in effetti è continuato anche dopo.
Sono comunque a tua disposizione per eventuali chiarimenti…”.
A questo punto, con una così dotta spiegazione, chiunque avrebbe dovuto abbandonare. Solo che io avevo troppa fiducia in mio padre e non mi sono fatto smontare. La mia ricerca si doveva solo indirizzare in un’altra direzione, non doveva essere abbandonata. Ma in quale direzione? Mi sembrava di averle percorse tutte e tutte senza minimamente scalfire le certezze accademiche.
Ma il destino era in agguato, pronto a darmi una mano. Nel 2004 entro nella libreria Feltrinelli di Padova e vedo esposto in bella evidenza un piccolo libro dal titolo I bizantini in Italia. In questo libro scopro, ma lo ho già raccontato nel racconto Le “prime guerre calabresi” viste dal “Castello di Santa Cristina”, pubblicato su questo sito il 4 aprile 2013, che Oppido si chiamava Sant’Agata e che, quando aveva questo nome, era stata occupata dai Saraceni per ben due volte, nel X secolo. Questa scoperta, tra le altre cose, fa ripartire la mia ricerca su Barillà perché la località indicata con questo nome si trova proprio dirimpetto al sito archeologico di Oppido Vecchio. Infatti, se Oppido è stata occupata per due volte e per qualche tempo dai Saraceni, diventa molto probabile che in un luogo vicino sia rimasto un toponimo di origine saracena, come ultima residua traccia della loro presenza.
Ma cosa vuol dire Barillà? Quali dei tanti significati suggeritomi nel tempo, era quello giusto? Con Google Maps ho potuto riscontrare che Santa Cristina vecchio, Oppido Vecchio e Barillà si trovano, in linea d’aria, più o meno sulla stessa direttrice e che Barillà si trova a metà strada tra le due cittadine distrutte dal terremoto. Questo mi ha suggerito la seguente ipotesi: se i Saraceni hanno occupato Sant’Agata, o Oppido che dir si voglia, è possibile che essi abbiano messo un distaccamento di soldati o di sentinelle nel luogo sopraelevato che ha poi preso il nome di Barillà. Infatti, se come si dice, il castello di Santa Cristina non è mai caduto in mani arabe, la posizione di Oppido era fortemente a rischio se non si fosse costantemente tenuto sotto controllo la valle sottostante, per evitare sortite improvvise.
Solo che nessuna delle traduzioni suggeritemi sembra legata a questa funzione che possono averci svolto un distaccamento di soldati o di sentinelle. E la ricerca via Google continua. Fin quando non ho scoperto un testo in cui le parole arabe sono scritte in caratteri latini e contengono una traduzione in inglese. Qui trovo due significati diversi per il termine Bar (il resto della parola –illà o illah sta per “di Allah”): 1) terra ferma contrapposta a mare o acqua in movimento; 2) luogo dal quale ci si espone per guardarsi intorno. Il secondo significato pare adattissimo a descrivere la funzione delle sentinelle: il loro compito è quello di esporsi (forse rischiando di farsi notare) per guardarsi intorno e controllare chi passa e chi arriva nelle due valli (al fine di evitare che nemici arrivino all’improvviso alle porte e riescano ad entrare perché le trovano parte).
Adesso avevo due significati molto logici, contenuti in un unico dizionario. L’unica cosa è che non sapevo quanto fosse affidabile quel dizionario contenente le pronunce delle parole arabe, non il modo in cui sono scritte. Occorreva che trovassi una persona abbastanza autorevole da confermarmi se una delle due tradizioni o entrambe fossero corrette. Inutile dire che mi sono rivolto a tanti senza ricevere alcun aiuto. C’è ancora un mio collega che, da me contattato il settembre scorso in quanto sta studiando l’arabo, si è impegnato a sottoporre il quesito al suo insegnante. Ogni volta che lo incontro, gli chiedo se ci sono novità e sempre mi risponde che il suo insegnante “sta studiando la questione”.
Tuttavia, la scoperta di questo secondo possibile significato di Barillà (luogo – di Allah – dal quale ci si sporge per guardarsi intorno) merita una visita a Barillà per verificare quanto e da dove sia visibile la valle o, perlomeno, il pendio che porta ad Oppido Vecchio e una seconda visita ad Oppido Vecchio per verificare se Barillà la consistenza delle difese della città. Il 17 agosto 2010 sono ad Oppido vecchio dove ho modo di guardare le rovine. Vi sono molti abitanti di Oppido, con studenti della scuola, un coro e una banda. Essi festeggiano qualcosa nel paese. Sono presenti alcuni assessori, oltre al Sindaco. Ascolto i racconti che fanno alcuni giovani di Oppido. Uno di questi racconti verte su una delle torre aragonesi: un pezzo della torre è caduto, ma non per il terremoto del 1783, qualche anno fa per l’incuria. Sotto la torre quadrata è chiaramente visibile una preesistente torre circolare. La spiegazione che viene data è che la torre circolare sia angioina e che la torre quadrata sia aragonese. Nessuno sa spiegare, però, perché si è dovuto conservare una torre precedente dentro una più moderna.
Qualche giorno dopo Natale del 2012, conosco Gioacchino Criaco che mi parla della Chanson d’Aspremont. Trattandosi di una canzone in lingua normanna, è sfuggita alle mie ricerche sulla storia dei Bizantini. Appena tornato a Padova, cerco la Chanson nelle biblioteche universitarie e scopro una vasta bibliografia. Comincio subito a leggere quest’opera, concentrandomi, agli inizi, sulle introduzioni in lingua moderna (francese o inglese o italiano). Scopro tante cose che non conoscevo a partire dal fatto che si racconta di tre grandi battaglie combattute tra Saraceni e Cristiani per la conquista dell’Aspromonte: la conquista di Risa; la battaglia per la conquista di una torre saracena in Aspromonte; la liberazione di Risa. Mi viene subito in mente che queste battaglie possano avere un fondamento di verità e comincio a leggere con attenzione le varie versioni dell’opera, soprattutto le parti relative alla battaglia per la conquista della torre.
Mentre sono dedito a questa nuova ricerca, all’improvviso, trovo il modo di risolvere il problema del significato arabo del toponimo Barillà.
Il 18 aprile 2013 appare sulla stampa locale veneta un‘importante notizia accademica:
“Università degli Studi di Padova, Ufficio Stampa. Cecilia Martini Bonadeo vince il più prestigioso premio letterario internazionale per le traduzioni dall’arabo. Il riconoscimento è stato conferito dalla
Casa Reale Saudita e ammonta a 200.000 dollari”.
Il premio le è stato dato per la traduzione dell’opera L’armonia delle opinioni dei due sapienti il divino Platone e Aristotele del filosofo arabo al-Farabi morto nel X secolo. La professoressa Martini insegna Lingua e letteratura araba ed è, evidentemente, un’autorità nello studio della lingua araba del X secolo.
Cerco subito la sua e-mail e le rivolgo la richiesta di aiutarmi a individuare il significato del toponimo Barillà che dovrebbe essere derivato dall’arabo del X secolo, periodo nel quale i Saraceni hanno occupato alcune località della Calabria. La giovane studiosa si rivela molto gentile e disponibile e si mette a disposizione per aiutarmi. Questo il nostro scambio di e-mail.
“Egregia prof.ssa Cecilia Martini,
sto cercando da vario tempo un ricercatore (o altro tipo di esperto) che abbia il Suo tipo di competenza (conoscenza della lingua araba medioevale) per avere un aiuto su un toponimo calabrese che, una volta escluso il significato greco (dato al posto da Gerhard Rohlfs), può avere solo una origine araba (come del resto storia e tradizione popolare accreditano).
Le spiegherò il mio problema a voce se avrà il tempo e la disponibilità, di concedermi la Sua attenzione.
Se disponibile, mi faccia sapere quando si troverà a venire a Padova, il luogo e l’ora in cui riceve. Se preferisce prendere prima visione del problema, Le spiegherei tutto anche via e-mail, per darLe modo di decidere se mi può aiutare o meno.
Le comunico subito che ho, da mesi, allertato sul problema un mio collega del FISPPA e questi mi ha detto che i suoi referenti (i docenti che gli hanno insegnato l’arabo moderno) stanno avendo non poche difficoltà.
La saluto, ottimisticamente, con un arrivederci.
Giuseppe Gangemi”.
“Gentile Prof. Gangemi,
Le direi che ci provo. Magari non sarebbe una cattiva idea se potesse istruirmi il caso via mail e poi potrei incontrarLa a Padova nel corso delle prossime settimane.
Cordialmente
Cecilia Martini”
“Cara Prof.ssa Cecilia Martini,
La ringrazio della rapida risposta.
Mi permetta di dilungarmi, per spiegarLe.
Vi è un termine “Barillà” che in Calabria è un cognome, ma anche un nome di un particolare luogo. Nel suo citatissimo Dizionario dei Cognomi e soprannomi calabresi, Rohlfs ha sostenuto che Barillà viene dal greco, esattamente dal termine “βαρέλασ”. Il problema è che la spiegazione di Rohlfs è debole per due motivi:
1) Barillà deriverebbe da “bottaio”. Spiegazione che va bene per il cognome, ma non per il luogo. La spiegazione, affidata al luogo, presuppone l’ipotesi che in quel luogo abbia lavorato un bottaio. Solo che, in quel luogo non ci sono mai state abitazioni. Si tratta di una parte sopraelevata con cui si conclude un pianoro. Oltre quella parte più elevata che si chiama Barillà, vi è una valle, con un fiume e oltre una città (si è scoperto recentemente che si chiamava, fino all’XI secolo, Sant’Agata);
2) La spiegazione di Rohlfs per il cognome non mi convince perché βαρέλασ è termine che non esiste nel greco antico. L’ipotesi è che si tratti di un termine che proviene dalla lingua italiana parlata nel meridione, da barile. Quindi, secondo la spiegazione modernista, che cerca di salvare la provenienza greca del termine, βαρέλασ è un prestito meridionale al greco restituito al meridione.
Vari motivi spingono a pensare, invece, che il nome sia di derivazione araba:
1) La valle sottostante il luogo che ha questo nome Barillà, è la valle esposta agli attacchi dalla montagna subito dopo la quale si trova una città, Sant’Agata, che nel X secolo è stata conquistata per ben due volte (nella prima metà e nella seconda metà del secolo) dai Saraceni (sia la prima che la seconda volta è stata a lungo sotto il controllo saraceno);
2) Barillà si trova a metà strada tra Sant’Agata e Santa Cristina. Quest’ultimo era un paese con un castello fortificato dai Bizantini che non è mai stato espugnato dai Saraceni (e nemmeno da altri, dopo). Se io fossi stato un Saraceno che viveva a Sant’Agata conquistata, o riconquistata, la prima preoccupazione che avrei avuto sarebbe stata quella di mettere un distaccamento di soldati su Barillà, unico modo, data la conformazione del terreno, per controllare che non ci fossero sortite improvvise da Santa Cristina verso Sant’Agata.
Mi fermo con gli argomenti a favore della tesi araba. Il problema è che, parlando con Arabi che ho conosciuto negli ultimi anni, ho avuto anche troppi suggerimenti sulla provenienza dei termini.
Gliene dico alcuni:
1) Il suono originario potrebbe essere Darillà, e in quel caso significherebbe “La casa di Hallah”;
2) Ci sono due dei 99 nomi di Allah che si pronunciano con suoni molto vicini a Barillà;
3) In un particolare dialetto di non ricordo più dove, il termine vorrebbe dire “Le spezie di Allah” (e, in questo caso, quel luogo di confine e di difesa potrebbe anche essere diventato un luogo di scambio);
4) Infine, il termine potrebbe venire da qualcosa che traduco come “scorciatoia”, ma alla lettera dovrebbe essere “sentiero per pedestri” o “sentiero per animali”.
A parte i primi due, il terzo potrebbe avere un senso e il quarto sarebbe anche giustificato dal fatto che quel cucuzzolo viene aggirato da due strade: una più lunga che portava, nel X secolo, da Santa Cristina a Sant’Agata (e lo ha fatto fino al terremoto del 1783, dopo il quale le due città sono state ricostruire altrove) e una più breve e ripida che portava, ma non permetteva il passaggio dei carri, sempre a sant’Agata.
Spero di essere stato chiaro. Di sicuro Lei è la persona più adatta a darmi un suggerimento o, almeno, io lo spero.
La ringrazio della Sua attenzione.
Giuseppe Gangemi”
“Caro Prof. Gangemi,
avrei un'idea, ma per poterla giustificare appieno avrei bisogno di sapere come è l'idrografia del luogo. Mi spiego: la località Barillà è arida? Si oppone ad una zona vicina o ad un centro abitato (magari Sant'Agata o la valle sottostante) con un corso d'acqua, un fiume, una sorgente?
Aspetto sue indicazioni, a presto
Cecilia Martini”
“Cara prof.ssa Martini,
in effetti le valli su cui domina Barillà sono due e due sono le fiumare sottostanti. Queste si avvicinano sempre di più l’una all’altra, finché non confluiscono, in basso, a NordNordOvest di Barillà. Ai lati Ovest e Est del pianoro che ha alla sua punta terminale Barillà, il salto nelle valli sottostanti è molto ripido e non c’erano strade che scendessero dal pianoro ai fiumi, a parte ripidi sentieri da percorrere a piedi. Per scendere, dopo il terremoto, sul lato Ovest, è stata costruita una strada che poi è diventata una strada provinciale asfaltata. Ci sono voluti cinque tornanti, molto stretti, che però tornano indietro un km prima di Barillà. Sul lato di Est, niente, nemmeno adesso. Questo per darle un’idea della situazione ai lati.
Da Barillà in giù, nella punta del pianoro, la discesa verso Nord è più agevole. A Nord di Barillà è sempre esistita una carrabile che scende verso l’incrocio delle due fiumare, poi gira verso Est, attraversa la fiumara che proviene da Est rispetto a Barillà, e si dirige a Sant’Agata (attuale Oppido vecchio, paese abbandonato dopo il terremoto).
In effetti, Barillà si oppone a sant’Agata, che rimane più in basso, ma è comunque sul punto più alto dall’altra parte della valle, oltre la fiumara che proviene da Est di Barillà.
Barillà non ha sorgenti di alcun tipo. Più in basso ci sono le due fiumare, più vicina quella proveniente da Est che si può raggiungere con una scorciatoia, troppo ripida per dei carri, più agevole quella proveniente da Ovest che si raggiunge con la strada carrabile sempre esistita per unire Santa Cristina a Sant’Agata.
Spero di avere dato risposte giuste (e chiare) alle sue domande.
Aspetto una Sua gradita risposta.
Giuseppe Gangemi”.
“Gentile prof. Gangemi,
sarò a Padova mercoledì 29 Maggio per un seminario. Sarebbe per Lei possibile incontrarmi nello studio del prof. Bottin in piazza Capitaniato 3 alle 14.00? Vorrei mostrarLe la soluzione che ho in mente. Mi faccia sapere.
Cordiali saluti
Cecilia Martini”.
La soluzione che la prof.ssa Martini ha trovato è contenuta nell’Edward William Lane’s Arabic-English Lexicon (Dictionary), vol. I, p. 176, il più completo dizionario esistente, in otto volumi. Bar viene tradotto come: Elevated ground, open to view; ma anche come The track, or part, where one is esposed to view. Tradotto, indica la “terra in alto, aperta alla vista”, ma anche “percorso, o parte di esso, dove ci si espone alla vista”. Ovviamente, bar vuol dire tante altre cose, perché ha assunto tanti altri significati nel tempo. La prof.ssa Martini sostiene che questi due significati sono più adatti alla situazione del terreno come da me descritto.
Avevo finalmente trovato l’accreditamento autorevole di uno tra i tanti possibili significati della parola Barillà, una volta assunto che fosse una parola araba. E, per giunta, veniva accreditata la possibilità che il termine indicasse, in origine, un luogo, di Allah e quindi saraceno, dove stazionavano delle sentinelle che potevano guardare nelle valli sottostanti e controllare, ma potevano anche essere viste dalla suddette valli.
Inoltre, ultima considerazione, questo luogo serviva a protezione di una città, in mano ai Saraceni, posta di fronte a Barillà, la città di Sant’Agata che, dopo due sicure occupazioni saracene, diventa Oppido, cioè acquista un nome indicante che è stata trasformata in una città fortificata.
Questo pone nuovi interrogativi che liquiderò, tuttavia, rapidamente:
1) Chi ha costruito le fortificazioni di Sant’Agata, poi diventata Oppido? I Saraceni o i Bizantini? Più probabile la prima ipotesi perché, fermo restando che la fortezza fondamentale rimane quella di Santa Cristina, porre una fortezza così vicina alla prima non aumenta la sicurezza, ma la diminuisce perché costringe a dividere le forze in caso di occupazione. Se la strategia di fortificare Oppido si comprende da parte dei Saraceni, una volta scoperta l’impossibilità di conquistare Santa Cristina, la strategia di fortificare Oppido non si comprenderebbe da parte Bizantina perché sarebbe preferibile far convergere a Santa Cristina armati e cittadini di Oppido;
2) Perché a Oppido si trova una torre circolare circondata da una torre quadrata? Chi ha costruito la prima e chi la seconda? Sulla seconda, le idee sono chiare: sarebbero stati gli Aragonesi; sulla prima, le opinioni sono discordi: secondo alcuni sarebbero stati gli Angioini; secondo altri i Normanni o gli Svevi; secondo altri ancora i Bizantini; infine, vi è chi sostiene che possano essere stati i Saraceni.
Sulla seconda domanda ho consultato un collega dell’Università di Padova, il professore Pietro Del Negro, esperto di storia militare e di fortezze. Gli ho rivolto le seguenti domande:
1) È vero che le torre angioine sono sempre circolari e quelle aragonesi sono sempre quadrate?
2) Quale è il motivo per cui una torre quadrata può essere stata costruita intorno a una torre circolare? È un modo per rendere le torri più solide di fronte ai cannoni?
3) Potrebbe la torre circolare essere normanna o bizantina o saracena?
Chiarito che non è un esperto di storia militare del Meridione, il collega risponde punto per punto alle tre questioni:
1) non solo gli Angioini, ma anche i Normanni, i Bizantini e i Saraceni tendevano, prima dell’invenzione dei cannoni, a costruire delle torri circolari;
2) se la torre quadrata è stata costruita dopo il 1480, data a partire dalle quali i cannoni diventano determinanti negli assedi, forse la torre circolare dentro una torre quadrata è stata un tentativo di costruire fortezze più resistenti ai cannoni. Tuttavia, la soluzione non è stata molto efficace perché sarebbe stato meglio costruire larghe mura con due file di mattoni e un’intercapedine riempito di terra (come sono appunto i bastioni di Padova);
3) la torre circolare poteva essere anche bizantina o saracena. Per saperlo, però, bisogna indagare sul modo in cui è stata costruita. Forse, però, anche il fatto del mutamento del nome potrebbe aiutare: una città che prima si chiamava Sant’Agata e poi, dopo l’occupazione dei Saraceni, prende il nome di Oppidum molto probabilmente ha costruito la sua nuova realtà di città fortificata nel momento in cui ha cambiato nome. Quindi, dato che il nome è latino, o glielo hanno dato i Bizantini che si sono ritrovati una città fortificata lasciata dai Saraceni sconfitti o glielo hanno dato coloro che hanno costruito la fortezza con la torre (presumibilmente coloro che hanno trasformato quella città in una diocesi, quindi i Bizantini dal momento che Oppido è sicuramente già diocesi venti anni prima della conquista normanna).
E a questo punto mi fermo perché, per andare oltre, è necessaria una lunga ricerca su un altro argomento. Una ricerca di cui spero di poter riferire molto presto.
*Giuseppe Gangemi, professore di Scienza dell’Amministrazione all’Università di Padova