Bova. Peppe Musolino e i "birbanti" di Calojero
- Franco Borrello
Quella mattina mastro Pietro Borrello era andato a Calojero ché lo avevano chiamato per un lavoretto. Si era portato con sé il figlio, il piccolo Cicciarello, ed il cognato, Pasqualino Larizza, appassionato cacciatore e gran burlone, come lo sarebbe poi stato il nipote che ne portava il nome. Si erano concessi una pausa per la colazione e Pasqualino ne aveva approfittato per andare a caccia. Ad un certo punto, sull’aia arrivò un contadino e, con fare misterioso, bisbigliò alcune parole all’orecchio di mastro Pietro. Gli uomini parlottarono tra di loro e poi mandarono a chiudersi in casa i bambini e le donne che si guardavano tra loro e si interrogavano con gli occhi.
Cicciarello non riusciva a stare quieto: in quella confusione era riuscito a sentire mezza parola: Musulinu! Il brigante Musulinu, a quell’epoca, era già una leggenda. Si favoleggiava dei mille travestimenti che lo rendevano imprendibile, si favoleggiava delle cinque lire d’argento che lasciava ai piedi degli alberi quando la sete lo costringeva ad appropriarsi di qualche frutto, si favoleggiava della dote che aveva fatto a qualche orfana in età da marito.
Ma, soprattutto, si bisbigliava che avesse il libro della Sibilla, che sapeva usare bene quanto la doppietta, e, tra quelle pagine, leggeva il futuro riuscendo a sfuggire a nemici e carabinieri. E, per sfuggire ai carabinieri, ogni tanto veniva anche a Bova dove aveva alcuni vecchi amici e qualche compaesano. Cicciarello si sdraiò a terra e, dalla tripa, il buco della porta da cui passavano galline e gatti, sbirciò fuori. E lo vide!
Vide il grande brigante Musulinu e la delusione fu altrettanto grande. Se lo era sempre immaginato una sorta di gigante con stivaloni e cappellaccio, fucile a trombone, una cartuccera alla vita e due a tracolla, pugnale, sciabola e due pistoloni alla cintura. E, invece, accanto a mastro Pietro, lui sì un gigante, vide un ometto che pareva si potesse buttare con la berretta e con un fucile in spalla che era meglio quello di suo zio Pasqualino. Forse non lo avrebbe nemmeno raccontato agli amici. Dopo una mezz’oretta Musulinu andò via e gli uomini lo vollero accompagnare almeno fino allo strapunto.
Neanche dieci minuti e tra le gole echeggiò una fucilata. Le donne corsero con le mani nei capelli. Lungo la stradicciola, sotto un olivo, Pasqualino giaceva riverso col fucile ai piedi ed una larga macchia di sangue sulla camicia bianca. «Una disgrazia – spiegò mastro Pietro – Musulinu se lo è visto davanti all’improvviso e armato e ha sparato prima che lo potessimo fermare. Non toccate niente e andate via ché abbiamo già mandato a Bova a chiamare pretore e maresciallo». «Che andare via e andare via? – si ribellò comare Mica – Che non era cristiano battezzato? Ci fermiamo invece e diciamo il Rosario!».
Pasqualino questo non l’aveva previsto, ed era il terzo errore della giornata. Il primo l’aveva commesso quando aveva sparato alla colomba di comare Mica prendendola per una tortora. Il secondo, quando l’aveva nascosta sotto la camicia bianca, imbrattandosela di sangue. Il terzo, quando gli era venuta la bella pensata di fare quello scherzo alle donne che ora non se ne andavano più e recitavano il Rosario mentre a lui toccava fingersi morto trattenendo il respiro e le risate.
«Regina dill’Angeli» «Orapronobbis».
«Regina dilli Patri arti» «Orapronobbis».
«Regina dilli Profeti» «Orapronobbis».
«Regina dill’Apostuli» «Orapronobbis».
«Regina dilli Marturi».
«Gnornò ch’eranu vurpi!» sbottò a ridere Pasqualino, che non si teneva più, e ridendo si alzò e scappò via e ancora rideva mentre le donne lo prendevano a pietrate.