Bovalino, il Convento di Santa Maria del Gesù
- Pino Macrì
Erano appena spuntati gli albori del XVI secolo e già da tempo la ferace terra calabra era entrata nelle mire dei mercanti genovesi, che avevano intravisto possibilità di grossi affari nell’approvvigionamento a buon mercato della seta grezza. La Calabria, si sa, a quell’epoca era tutto un brulicare di nutricate: pressoché ovunque, in ogni podere, c’era almeno un albero di gelso bianco, delle cui fronde erano golosissimi i bachi che, amorevolmente allevati, trasformavano poi le foglie in bozzoli di pregiatissima seta. Più della metà dell’intera produzione nazionale di seta grezza proveniva a quell’epoca dalla Calabria. Col tempo, le cose sarebbero pesantemente cambiate “grazie” alla rapacità degli arrendatori (i grossisti di allora) ed alle assurde politiche governative, ma in quei primi anni del ‘500 la nostra terra era quasi una meta obbligata per gli epigoni delle antiche Repubbliche marinare, con i genovesi a far da pionieri.
Il bastimento genovese
E, da abilissimi navigatori qual erano, essi non si facevano certo scoraggiare dalla cronica carenza di approdi sicuri, specie sulla costa jonica (da Reggio a Taranto, sul mare esistevano solo Roccella e Crotone) né dal sempre crescente pericolo della pirateria turca. Ma il nostro mare, e proprio in questi ultimi giorni ne abbiamo avuto tremenda riprova, quando ci si mette non fa sconti a nessuno. Fu così che, narrano le antiche leggende raccontate dagli anziani nelle lunghe serate attorno al braciere, un bastimento genovese incappò in una terribile tempesta proprio nelle acque antistanti Bovalino: tanta fu la paura di colare a picco e perdere, oltre che il carico, anche la vita, che il capitano si industriò a promettere al Padreterno l’edificazione di un’opera a Sua gloria se fosse riuscito a passarla liscia. Così avvenne e, da uomo d’onore qual era, messo piede a terra alla marina, si avviò al paese appollaiato su quell’altura così ben distinguibile dalla spiaggia, per manifestare al Magnifico di Bovalino l’intenzione di erigervi un luogo pio a “ricompensa” della grazia ricevuta. Al Magnifico (era Tommaso Marulla, messinese) non deve esser parso vero: c’era, infatti, guarda caso, proprio poco distante da Bovalino, quasi a metà strada dal casale di Benestare, un antico monastero, la Badia de’ Camocissi, le cui strutture erano in totale rovina, ma, potente com’era di una dote di terreni estesissima, necessitava proprio di risorgere, se non altro per amministrare adeguatamente tanta ricchezza. Fu così che domanda ed offerta trovarono immediatamente un punto di incontro, e si pose immediatamente mano ai lavori. Edificare in terra di Calabria, però, a quei tempi non era cosa facile, e le cose iniziarono subito ad andare per le lunghe, tanto che il capitano, che non poteva abbandonare del tutto i suoi affari per così lungo tempo, propose al Magnifico di lasciargli il denaro necessario affinché provvedesse lui a portare a compimento l’opera. Il che fu debitamente fatto, ma, alla fine, una lapide fu apposta per ricordare ai posteri che il luogo pio era stato eretto da “Don Tomasius Merula, comes Condojannis et eius uxor d.nna Dianora Staiti in anno1512”. Ovviamente non sapremo mai come andarono veramente i fatti, ma quel che interessa è che il luogo divenne il Convento di Santa Maria del Gesù, retto dai frati francescani Osservanti, prima, e dai Riformati, sempre francescani, poi. Anzi, narrano sempre le antiche “cronache del braciere”, che, quando i Riformati giunsero per prendere il posto degli Osservanti, non volendo questi abbandonare il cenobio, i conti furono regolati con una memorabile rissa a suon di reciproche legnate. Per le cronache “ufficiali”, invece, la storia del Convento ebbe modo di conoscere sia le alte vette dell’importanza religiosa e culturale che la miseria umana della ignominiosa fine. Le prime, ci sono illustrate dalle antiche cronache che narrano di un Beato, Francesco Matacarà (o Mazzacara), bovalinese, uomo piissimo e, addirittura, responsabile di vari miracoli (con tutte le riserve del caso per questi ultimi), ma, soprattutto di un valentissimo scultore (di cui magari parleremo in una prossima puntata), molte delle cui opere fanno tuttora bella mostra di sé anche a Napoli, Roma, Lecco e perfino in Svizzera: fra’ Diego Giurato, da Careri, cresciuto e consacratosi, appunto, fra le mura del cenobio bovalinese. Terminata, dopo la deleteria incursione piratesca del 1594, il periodo d’oro di Bovalino, anche il Convento cadde progressivamente in disgrazia e, gravemente danneggiato dal Grande Tremuoto del 1783, fu chiuso, e le sue terre, confiscate, finirono nel giro molto poco virtuoso della Cassa Sacra (altra edificante storia, prima o poi da raccontare…) e vendute. In verità, ci fu poi un tentativo di riportarlo in vita, ma a metà del XIX secolo, fu definitivamente abbandonato.
Monumenti da cancellare
Le imponenti, e cadenti, strutture rimasero ancora lì per oltre un secolo, preda di saccheggi (pare certo che vi fossero almeno due tele di buon valore e di considerevoli dimensioni, e chissà quante sculture in legno di Fra’ Diego), fino a quando, negli anni ’60, nel pieno di quel “boom economico” che tanti benefici portò, ma accompagnati da incommensurabili danni al “vecchiume senza valore” del patrimonio archeologico ed artistico, si decise che era giunta l’ora di cancellarlo anche dalla memoria collettiva. Per far posto ad una fabbrichetta. Ed ad un campetto di calcio “di cui tanto sentivano la necessità dei giovani del luogo, privi di qualsiasi struttura per lo sport ed il tempo libero”. Il campo di calcio non fu mai realizzato. La fabbrichetta, dopo alterne vicissitudini, non riuscì più nemmeno a galleggiare ed affondò miseramente, lasciando ai posteri l’inutile e orribile monumento, tanto simile ai barconi dei disperati che ornano qua e là le nostre marine. Dell’antico Convento, rimangono i resti di una cisterna e vaghe tracce murarie: Attila, almeno, quelle le avrebbe lasciate.