Bovalino Superiore. Gli eroi invisibili
- Pino Macrì
L’estate calabra è calda per antonomasia, ma quella del ‘43 ebbe, come in molte altre parti di quel mondo impazzito, i lugubri connotati dell’inferno e della tragedia. L’assurda ed insensata avventura di un pazzoide e del suo lacchè stava, finalmente, per avere il suo epilogo, e nel modo peggiore possibile: con un corollario di infiniti lutti e di terrificanti distruzioni. Né dovrebbe mai avere spazio di esistenza, in un’umanità che voglia veramente dirsi tale, l’apologia del “tanto peggio, tanto meglio” (Hiroshima & Nagasaki docent). Ma tant’è: l’uomo scorda in fretta, e non vede l’ora di ripetere allegramente i propri errori.
ANCHE LA CALABRIA, fortunatamente in un “piccolo” tutto suo (almeno, rispetto alle infinite atrocità perpetrate altrove), non scampò alle rovine ed ai massacri. Quasi paradossalmente, la fase acuta della crisi calabra ebbe inizio il 10 luglio, di quel ‘43, con l’invasione della Sicilia: la logica militare imponeva che, dovendo stringere in una morsa inesorabile l’isola trinariciuta, necessitasse impedire i rifornimenti alle forze avversarie, rendendo inagibile il “ponte” calabro. Fino ad allora, i raid aerei sulla nostra regione erano stati commisurati alla limitata importanza strategica di qualche nodo importante (Reggio, in primis), ma niente di più di “normali” azioni di disturbo. Da quel maledetto giorno, alle strazianti sirene di allarme ed ai terrificanti sibili delle bombe facevano da contrappunto le isteriche frenesie dei soldati e degli indifesi civili. Il terrore imperversò per quasi due mesi; poi, finalmente, l’8 settembre tacquero gli strumenti di morte. In Calabria, ovviamente, non altrove. Ma, se è vero che un fiore può nascere anche nelle fessure della roccia più arida e dura, ridando una speranza alla vita, oggi, con la mente a quel fiore, voglio raccontare un episodio di mancata distruzione, e degli invisibili e dimenticati eroi che la resero possibile.
DA SEMPRE, A BOVALINO, l’8 settembre è una data con una valenza particolare per la “pietas” popolare: in un altro servizio (in Aspromonte nº 6 – Gennaio 2014) si è detto di come la festa religiosa in quel giorno vuole ricordare l’intercessione della Vergine per salvare, con una pioggia dirotta, il paese dall’incendio seguito al saccheggio piratesco di Sinan Basha. Ovviamente, le ostilità in corso avevano imposto l’abbandono temporaneo delle luminarie, ma non quello delle funzioni religiose. Quell’anno, poi, c’era un motivo in più per implorare la protezione celeste: il sordo rumore della distruzione era alle porte e in quelle serene notti si iniziavano a vedere i lontani bagliori provenienti dalla Sicilia. Certo, il rombo dei cannoni non era così nitido come quello di tre anni prima dalla vicina Punta Stilo, ma non c’era di che stare troppo tranquilli. Tutt’altro. La posizione arroccata, indispensabile difesa contro gli attacchi pirateschi del passato, poneva, ora, il paese del tutto in balia degli attacchi dall’alto, e non sarebbero bastati quei pochi bunker scalcinati (due sulla spiaggia, uno a Donna Palumba ed altri due al vecchio borgo) pomposamente detti “di difesa contraerea”, a proteggere né il vecchio borgo né la sua Marina, ormai da mezzo secolo scalpitante dalla voglia di esporsi sfacciatamente, abbandonando vieppiù i tetri ricordi legati alle decrepite costruzioni medievali di pietra e gesso sulla collina tufacea.
LE PRIME AVVISAGLIE si erano abbattute sui centri viciniori più importanti (Locri, soprattutto), ma anche la Bovalino – Bagnara aveva una sua importanza strategica, ed il 21 agosto era stata essa stessa obbiettivo di bombardamento e qualche bomba era pure caduta in zona abitata. Si era ormai al 4 di settembre, e la data della festa, si diceva, si approssimava; ma, con essa crescevano ansia e preoccupazione: il giorno prima, il 3, con l’Operazione Baytown, le truppe alleate erano sbarcate a Reggio dopo un fuoco di sbarramento terrificante, e, subito, avevano iniziato a penetrare nel territorio secondo tre direttive: la Tirrenica (l’area strategicamente più importante) la Jonica e l’Aspromonte. Parallelamente, le truppe nazifasciste, non in grado (per fortuna) di opporre qui una seria resistenza, iniziavano la frenetica ritirata per riorganizzarsi più a nord. La giornata del 4 settembre, dunque, fu interamente pervasa dal continuo e rumoroso sferragliare di mezzi e uomini provenienti dall’Aspromonte e diretti alla Marina. In mattinata, Mastru Gianni ‘u scarparu (il nome è di fantasia) era dedito al lavoro nella sua botteguccia che dava proprio sulla strada e, davanti a quel tetro spettacolo, non resistette alla tentazione di sollevare verso i fuggitivi il martello in segno di “minditta”, seppur a denti stretti: nessuno saprà mai se l’autoblindo tedesco che si arrestò all’improvviso aveva l’intenzione di vendicare l’onta subita o stava seguendo propri disegni: di fatto, mastru Gianni diede vita ad una memorabile fuga a rotto di collo per la strada della Limbìa, e si rifece vivo in paese soltanto dopo più di una settimana, quando stimò probabilmente cessato il pericolo di rivalse. Ma i disegni dei militari erano ben altri: con la tipica organizzazione teutonica, in un battibaleno da alcuni autocarri fermatisi ai lati della strada iniziarono a scendere degli uomini carichi di casse colme di esplosivo, soprattutto in polvere. Agli ordini di un ringhioso graduato, in men che non si dica le arcate su cui si snodava l’arteria aspromontana, proprio al di sotto della Chiesa Matrice (che di lì a poco avrebbe ospitato le funzioni per la sentita festività), furono intasate con la micidiale polvere.
DA DIETRO LE FINESTRE, la popolazione inerme e trepidante assisteva attonita a quelle operazioni, senza, peraltro, avere la benché minima possibilità di intervenire. Né valse ad alcunché il timido tentativo dell’arciprete di far notare che non solo la Chiesa, ma l’intera parte alta del Paese era così messa in grave pericolo. Il graduato fu irremovibile: la distruzione del ponte serviva a proteggere la loro ritirata e nulla li avrebbe fermati. E senza altro dire, essendo il contingente ormai lontano, diede ordine di innescare l’esplosivo e se ne andò di gran carriere per non essere coinvolto nell’esplosione, che si preannunciava piuttosto seria.
A QUESTO PUNTO, il racconto degli anziani che assistettero ai fatti si fa un po’ nebuloso sull’esatta dinamica del mancato scoppio: per certo, ci fu l’istintivo quanto ardito intervento di un manipolo di coraggiosi che riuscirono a strappare gli inneschi, impedendo il verificarsi della deflagrazione che sicuramente, se avvenuta, avrebbe lasciato ben poco della fragile rocca su cui è arrampicato il borgo antico. Il paese, gli abitanti e la venerata chiesa erano salvi e, ancora una volta, i canti di ringraziamento echeggiarono commossi fra le antiche e sacre mura. Non sono riuscito a recuperare tutti i nomi di quei coraggiosi: le testimonianze sono unanimi solo su due: Pietro Ietto(‘u Cardara) e Domenico Zinghinì (‘u Summicu), e pare anche che, specie quest’ultimo, fu anche perseguitato dalla polizia fascista per quello che fu ritenuto un atto di sabotaggio. Appena tre giorni dopo arrivarono gli Alleati: ancora l’8 settembre, nonostante l’Armistizio, si registrarono incursioni aeree a Lauria, Trebisacce, Pizzo, Lamezia, Vibo Valentia, Catanzaro (il giorno prima, il 7, anche nella vicina Locri), ma, per Bovalino, l’incubo era definitivamente cessato. Non risulta che mai alcun riconoscimento sia stato conferito agli autori di quel gesto che, con ogni probabilità, salvò molte vite.