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Brancaleone antico. Di lui quell’ultimo muro

  •   Carmine Verduci
Brancaleone antico. Di lui quell’ultimo muro

Salgo spesso al vecchio borgo, vagando solitario tra i ruderi di Brancaleone antica. E mi soffermo ad immaginare la vita del paese. Non sono passati neanche tanti anni dal suo abbandono, ma la devastazione è stata lenta ed inesorabile. Meno di sessant’anni fa i suoi abitanti si spostarono sulla zona costiera, eppure, dai resti murari che ancora oggi stanno solitari e ammutoliti dal tempo e dalla vegetazione, gli anni sembrerebbero molti di più. Secoli, forse millenni. La devastazione è da imputarsi principalmente agli eventi atmosferici: violentissimi. In verità, non ho mai sognato di rivedere questo paese ricostruito, perché il fascino che ancora conserva, intriso dal forte odore dell’artemisia (assenzio greco) cresciuta sui muri rimasti ancora in piedi, e dall’odore della terra, che si riesce a percepire su per le narici non appena si supera il passo della Madonnina delle grazie, rievoca immagini che valgono più di una ricostruzione materiale. I misteri e le leggende popolari aleggiano ancora. Brancaleone è il luogo dove rifugiare la propria coscienza, la propria anima, lontano dalle contaminazioni a valle. Guardo di anno in anno come il tempo cancelli ogni traccia del passato; é come se cominciasse a sbiadire un quadro a cui tieni più della tua vita. Quando l’ultimo muro rimarrà in piedi di fronte al nulla, allora sì che piangeremo polvere, e fango. La polvere, che hanno respirato i nostri antenati durante il lavoro nei campi, il fango, che non hanno mai visto i nostri avi in nessuna alluvione o catastrofe meteorologica, perché qui, a 310 metri di altezza, alluvioni non ce ne sono mai state. Il deflusso dei suoi abitanti verso la marina è invece stato determinante, furono essi “vittime consapevoli” di quel processo di urbanizzazione che creò dal nulla le cittadine costiere della Calabria.

Cittadine e nuclei anonimi, vuoti e geometricamente organizzati come ammassi di cemento e calcestruzzo, divisi da una linea ferroviaria che, oggi, é quasi del tutto morta. Poi, alle spalle, sempre la campagna, le terre coltivate ad ulivi e vigna che muoiono a loro volta soffocati dalla modernità. Sembra che queste mura silenziose ci stiano a guardare, sembra siano la rappresentazione del fallimento che l’uomo, con la sua politica, le sue convinzioni e le sue intuizioni sbagliate, ha creato. Proprio come questo borgo, che muore ogni volta che qualcuno porta via un pezzo, un frammento, una misera tegola, o un mattone rosso di creta. Che muore, ogni volta che qualcuno lo guarda senza domandarsi nulla della sua storia e della sua origine. E sorrido se penso a quanta ipocrisia ci sia nei sospiri di chi ha preferito lasciare agli sciacalli la sua stessa identità. E quando l’ultimo muro rimasto in piedi crollerà, saremo tutti morti. Non fisicamente, ma “morti dentro”, come morta é già la coscienza di chi mi ha sempre deriso per il mio incondizionato amore verso questo paese. Certo è che non dovremmo mai impietosirci di fronte alle lacrime degli uomini che con convinzione lo hanno abbandonato, e dimenticato. Dovremmo altresì riflettere di fronte ad un passato fatto di errori politici, che ci hanno negato ogni possibilità di rilancio e di futuro. Altrove questo piccolo borgo avrebbe prodotto molto di più che l’emigrazione giovanile. Essa, ancora oggi, è per noi calabresi una piaga profonda. Perché dico questo? Perché credo che un individuo, attaccato alla sua famiglia e alla sua proprietà, non permetterebbe mai che il ladro violasse la sua casa. Evidentemente, siano essi uomini onesti o ignari, hanno lasciato che il tempo portasse via i ricordi, le fatiche, la storia, quasi ci fosse una volontà di cancellare così la propria infanzia, e la propria beltà. Mia nonna, quand’ero bambino, mi portava a Brancaleone antica, luoghi dove era cresciuta e che le avevano lasciato segni indelebili, glielo si leggeva in viso. Ella si emozionava nel raccontarmi dello stato miserevole in cui vivevano i brancaleonesi quassù, delle vicende curiose, dei fatti, dei misteri e dei segreti della sua gente. Nei suoi racconti si intuiva una semplicità assoluta, la capacità di essere felice con poco. Tutte cose che non appartengono più al nostro tempo. Eppure mi sono sempre domandato: perché ogni qual volta mi perdo nel silenzio profondo di questo colle, mi emoziono come la nonna? Rivedo spesso la sua figura, che mi conduce amorevolmente tenendomi per mano, verso piazza Vittorio Emanuele, quando seduti sui muretti di calce e pietre, mi raccontava della prima volta che la radio arrivò al paese. Ella mi spiegava, col sorriso in volto, che la sera attorno ad un falò si ascoltavano i “comunicati” e la musica. Si ballava e si rideva insieme, uniti come una grande famiglia. Già! Questa grande famiglia sconquassata ad un certo punto da qualcosa, o forse da qualcuno. Tradita da anni di “isolamento politico” che non ebbe piacere di consegnare l’elettricità o i servizi idrici ad un paese, distante solo qualche chilometro dalla costa. Non lo so, e non lo posso sapere, sta di fatto che ogni anno Brancaleone sembra sbriciolarsi, e stento a credere che ci sia qualcuno che provi ancora amore per questo borgo, come invece affermano i suoi ex abitanti. E oggi, quando mi raccontano di come si viveva bene al paese sulla collina sacra (come la chiamo io), a trent’anni suonati dalla mia esistenza terrena, ho delle risposte che preferirei soffocare dentro, preferirei morissero con me. Perché, quando l’ultimo muro crollerà sotto l’impeto della pioggia, o sotto il vento tremendo di Maestrale, qui calerà per sempre il silenzio. Un silenzio simile a questa sera d’autunno mentre, solerte e timido, il sole sta tramontando dietro Pietrapennata, lasciando il passo all’oscurità che tutto avvolge e che tutto, spesso, fa dimenticare.


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