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Caraffa del Bianco. La rivoluzione sociale di un prete

  •   Domenico Stranieri
Caraffa del Bianco. La rivoluzione sociale di un prete

Tra gli aspetti che accomunano le religioni, ed ogni forma di potere in generale, vi è la distruzione dei libri (e quindi della cultura) a favore di una sola idea di mondo. Quella dell’uomo, dunque, è anche una lunga storia di odio verso la conoscenza, di dualismi mai risolti tra fede e ragione, tra ideologie di vario tipo e finanche tra filosofie. Se siamo stati platonici e non epicurei non è solo per la grandezza di Platone, ma perché, nella guerra di cancellazione del sapere dell’altro, Epicuro, grande quanto l’allievo di Socrate, ha perso.

Ci sono, poi, vicende sorprendenti, personaggi di provincia che hanno saputo disegnare una via per tutti, con sguardo nitido; ipotesi intellettuali che nel tempo sono diventate realtà. In fondo, nella prima metà del ‘900, ogni paese aspromontano era sì povero ma vivo, una piccola galassia desolata con tante anime e qualche talento. Eppure ogni sistema solare, per quanto eterogeneo, necessita di un sole per essere tale. Vale a dire un centro, un punto di riferimento sicuro.

Dal 1897 al 1942, Caraffa del Bianco trova il suo centro, la sua guida, nella figura di Domenico Battaglia, un arciprete che ha saputo fare della combinazione tra fede e cultura una missione di vita. Nato proprio a Caraffa nel 1865, a sette anni entrò nel Seminario diocesano di Gerace dove studiò con passione e, il 25 dicembre del 1890, divenne sacerdote. Nel 1897, dopo la morte di don Vincenzo Borgia (al quale, da bambino, aveva confessato di sentire “la chiamata di Iddio”), Battaglia fu nominato parroco della chiesa di Caraffa del Bianco e vicario foraneo come fiduciario del Vescovo.

Se proviamo a chiedere, oggi, ad una persona anziana, la prima immagine che rievoca di questo arciprete, quasi certamente ci risponderà: «Che amava camminare, e lo faceva ogni sera». Don Domenico Battaglia, difatti, come un Aristotele moderno, percorreva quotidianamente un tragitto che, d’inverno, da casa sua lo portava fino ad un punto panoramico detto torre, “da dove si abbraccia un paesaggio immenso e meraviglioso” (come scriverà Saverio Strati nel 1953, affacciandosi dalla torre in compagnia di Corrado Alvaro). D’estate, invece, scendeva fino all’incrocio tra le strade di Caraffa e Casignana, nel luogo dove, originariamente, si trovava la prima chiesetta di S. Maria degli Angeli, titolo assunto, in seguito, per denominare la chiesa matrice di Caraffa. E, come un antico pensatore greco, ad accompagnarlo c’erano solitamente i suoi alunni, che egli amava definire discepoli (forse più in senso filosofico che religioso).

L’arciprete, difatti, era dotato di un’impareggiabile cultura e possedeva una rara abilità divulgativa. Aveva il puro piacere di “spargere i semi” della conoscenza, tanto che, per tutta la vita, istruì gratuitamente i suoi allievi (il primo dei quali fu Antonio Melina, futuro parroco di Sant’Agata). Tuttavia, una cosa, una soltanto, egli la esigeva: ovvero che i suoi studenti, ogni domenica, servissero messa. Dopodiché, conduceva una vita modesta e quando (ogni fine mese) andava a visitare una famiglia povera o un ammalato, lasciava sempre in un angolo della casa, o sotto un cuscino, qualche soldo che aveva messo da parte. Lo faceva in silenzio, senza farsi notare, e non desiderava essere ringraziato.

In un libro distribuito alle famiglie di Caraffa del Bianco, dal titolo L’Arciprete Domenico Battaglia, l’uomo, il maestro, il sacerdote (Grafica Luigi Monti, 1998), il giudice Ottavio Domenico Galletta ricorda: «Ci insegnava molte cose con il suo esempio: ci insegnava la parsimonia delle parole e la ricchezza dei pensieri che si traducevano in atti concreti e quasi celati di solidarietà umana». Il religioso, figlio di un fabbro, aveva donato ai suoi concittadini le chiavi per apprendere i mezzi specifici dell’istruzione.

I giovani capirono che l’unica via di riscatto era rappresentata dallo studio, e, in quel frangente storico, dalle lezioni private dell’arciprete. La spinta dell’impegno intellettuale, la fiducia nel futuro e la nuova possibilità di sfuggire alla miseria rappresentarono una certezza collettiva. Con sacrifici notevoli, contadini, pastori e artigiani lavoravano perché i loro figli diventassero “altro” e non fossero asserviti ai proprietari terrieri. Proprio come aveva fatto Giovanni Battaglia, padre del sacerdote, che era riuscito a far studiare i due figli, Domenico e Giuseppe (che era diventato notaio).

Negli anni a seguire, a Caraffa si tracciarono molteplici percorsi professionali, tanto che il paese ebbe una media di laureati tra le più alte d’Italia (se consideriamo la proporzione tra numero di abitanti e numero di laureati). Lo scrittore Giuseppe Dieni evidenzierà: «Oggi a Caraffa, un tempo paese in maggioranza abitato da pastori, ci sono più laureati che pecore» (Dove Nacque Pitagora, Frama Sud 1976, pag. 198).

Prima di morire, l’arciprete Battaglia pretese che i suoi ultimi risparmi (circa 500 lire) venissero suddivisi tra le famiglie più bisognose. Il suo feretro venne portato a spalla, dai suoi discepoli, in un lungo corteo per le vie del paese. Era il 16 novembre del 1942, e la piccola galassia di Caraffa perdeva il centro attorno al quale aveva scelto di orbitare.


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