Carbonai. Gli uomini del fuoco
- Francesco Tassone
Tingiutu è il volto del carbonaio, il grande chef della cottura del legno, perché di cottura si tratta. Il lavoro è continuo, solo poche ore di riposo, perché il minimo errore renderebbe vano ogni sforzo impiegato. Basta inoltrarsi nelle montagne di Serra San Bruno per percepire l’odore della legna che arde, e fare ancora qualche passo per ritrovarsi di fronte ad una sorta di vulcano fumante. All’inizio il fumo è bianco e denso, quando ormai il carbone è cotto diventa azzurro e rarefatto. Una enorme catasta di legna, più di 600 quintali, con un diametro di circa venti metri e un’altezza che raggiunge i quattro-cinque. Modellata ad arte da chi svolge il mestiere di carbonaio, un’arte manuale che si tramanda da generazioni e che ancora oggi, a Serra San Bruno, rimane in essere. Il tutto ha inizio con la preparazione dello spiazzo (“scarazzu” in gergo). Poi si costruisce il camino con i tronchi più grossi e man mano si procede a sistemare la legna tutta intorno a mo’ di cupola lasciando aperto un cratere centrale, per alimentare il fuoco dall’alto. Fuoco che lentamente carbonizza il legno senza ridurlo in cenere. Infine la carbonaia viene ricoperta di fogliame e terra ed è pronta per essere accesa. Dei fori realizzati con pali appuntiti costituiscono le bocche per il tiraggio (fumaluari). Da qui inzia il lento processo di combustione e cottura del legno che dura anche una ventina giorni. E quando ormai la fumata è azzurra la carbonaia è pronta per essere spenta. Il prodotto viene insaccato e destinato alla vendita.
GENTE MALEDETTA
Ai primi del secolo, i boschi arrivavano fino alle falde dei paesi in collina. Oggi, dove prima c’erano grandi boschi di elci e querce, si semina il grano, o vi hanno piantato la vigna e gli olivi. I boschi, come giganti in fuga, sono molto lontani dai paesi: nel cuore dell’Aspromonte, a cinque-sei ore di strade impraticabili. Boschi secolari, con secolari querce ed elci. Ma il tragico di questa terra è che, una volta tagliati i boschi, non si pensa di continuare l’allevamento delle piante. Per cui succede che, dopo il taglio, rimane la terra nuda, che sarà lavata dalle acque, spazzata dai venti, arroventata dal sole: terra bruciata che rende tragico un paesaggio che potrebbe essere incantevole col mare davanti da qualsiasi posto ci si trovi. Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra; che sempre sono sporchi e poveri: senza casa, senza un pezzetto di terra sempre in cerca di pane, di un bicchiere di vino, sempre con le viscere arse e la gola secca; sempre pronti a saltare in una vigna e a rubarvi dell’uva; a strappare delle lattughe, dei frutti. Come se il fuoco, quello stesso fuoco con cui consumano i boschi, arda dentro le loro budella e dia un eterno bisogno di dissetarsi. Questo è il carbonaio, un uomo che distrugge, che dietro di sé lascia un senso di morte e una terra senza padrone. È perfino tenuto a distanza dagli altri, anche dai braccianti che vivono meglio dei carbonai. Non hanno quell’eterna sete di sempre qualcosa: di fichi, di vino, di pane.
Saverio Strati