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Cartografia storica. Mappare l’Aspromonte

  •   Pino Macrì
Cartografia storica. Mappare l’Aspromonte

Già al solo pronunciarla, la parola “Aspromonte”, ti lascia nella mente il ricordo di un suono rotondo, ampio e, insieme, fiabesco e regale. Per chi accetta gli insegnamenti linguistico-strutturali di De Saussure, ciò equivale quasi ad un magico imprinting che non abbandonerà mai più chi lo abbia anche solo pronunciato, forse ancor prima di chi lo abbia percorso veramente e profondamente conosciuto. In questo senso, la straordinaria immagine geografica di Piri Re’Is (fig. 1) pare esaltarne ancor di più il fascino, attraverso l’uso di quelle vive colorazioni, che in verità, però, sono utilizzate per tutte le catene montuose. Cionondimeno, ci hanno provato a lungo le culture latina, prima, e celtico-eurocentrica, poi, a disinnescare il fascino dell’etimo che, sulle ali dell’epico trasporto ingenerato dalla omonima Chanson, rischiava di invadere gli ambiti cortigiani dell’erudizione. Cosicché, in letteratura come in geografia, “Brutium” (fig. 2) e “Appennino” (o, meglio, “Apennino”, con una sola ‘p’), per un certo periodo tentarono di sovrapporsi alla tradizione indigena: il primo, omologando erroneamente tutto quanto stava al di là (al di qua, per i calabresi) del Pollino, il secondo dichiarandone la subalternità orografica, degradandolo al tòpos di semplice segmento terminale della catena dorsale della penisola italica.

A noi piace pensare che, forse, gli antichi abitatori aspromontani già fossero ben consci della diversità anche strutturale fra Aspromonte e Appennino: di origine granitica (strictu sensu, assieme alle Serre ed alla Sila), e quindi molto più antica, il primo, sedimentario, e più recente, il secondo. Paradossalmente (ma non tanto), Aspromonte, Serre e Sila sono più imparentati con le Alpi che non con l’Appennino. La Geografia, attraverso la sua filiazione visuale più diretta, la Cartografia, non poteva esimersi dal “richiamo all’ordine” delle culture dominanti; cosicché, allorquando, agli inizi del ‘600, vide la luce quella che fu definita “la più importante modernizzazione geo-cartografica del suolo italiano”, ad opera del padovano G. A. Magini, il Nostro sembrò destinato ad un imperituro ruolo secondario attraverso l’apposizione del toponimo “M. Apennino” (fig. 3).

IN REALTA’, L’OPERA DEL MAGINI, che pure ebbe un successo furioso per tutto il ‘600 e fino a quasi la fine del ‘700, aveva ben poco di originale: sostenuto dal Duca di Mantova, lo studioso padovano, incaricato di redigere il primo “Atlante d’Italia” mai mise nemmeno piede in molte delle Regioni di cui pur così “minuziosamente” descrisse contorni geografici e toponimi: per gran parte del Regno di Napoli, in particolare, si avvalse soprattutto della cartografia del geniale scienziato nolano (che alcuni, errando, vorrebbero addirittura di origini sidernesi) Nicola Antonio Stigliola (fig. 4).

Eppure, già vent’anni prima, l’enorme affresco della Galleria delle Carte Geografiche nei Musei Vaticani, iniziato da Egnazio Danti e portato a termine dal grande erudito Lucas Holsten (Holstenio per gli italiani) non aveva lasciato spazio a dubbi, con quell’ “ASPRO MONTE” in bella vista al centro della rappresentazione della Calabria Ultra (fig. 5). Ma, come detto, Magini si mosse poco da Mantova, e forse non arrivò nemmeno a Roma…

Le prime avvisaglie dello “scippo” si erano concretizzate con l’opera di Abraham Ortel (più noto come Ortelius), altro abile collazionatore di opere altrui, che a differenza del Magini però almeno dichiarava sempre le proprie fonti, e che, per non scontentare nessuno, capovolse il ragionamento e dichiarò la catena montuosa reggina chiamarsi, sì, Aspromonte (anzi “Aspro Monte”, fig. 6) ma “olim” (una volta, anticamente) Apenninus.

Eppure, Ortelius aveva dichiarato di ispirarsi direttamente alla Calabria del Parisio, un numismatico cosentino che qualche anno prima aveva guidato l’opera incisoria di Natale Bonifacio da Sebenico (fig. 7) talmente bene (almeno in riguardo alla toponomastica) da essere direttamente copiato tanto dal De Nobili (fig. 8) che dallo stesso P. Fiore da Cropani (nel riquadro piccolo di fig. 7), autore del celeberrimo Della Calabria illustrata.

QUASI COME UN NOVELLO PILATO, invece, Giò Rigo Verricy, rinuncia a prendere posizione per l’una o per l’altra versione dei fatti (fig. 9) e proprio non si esprime, lasciando orfana questa parte di territorio calabro della sua fiera rivendicazione toponomastica. 

Ma, in fondo, Verricy era un veneziano che, per quanto la sua carta del Regno di Napoli fosse seducente dal punto di vista estetico, in Calabria non solo non ci aveva mai messo piede, ma ne aveva delle informazioni così frammentarie, da sbagliare quasi tutti i toponimi che vi risultano rappresentati! Janszoon, invece (fig. 10), pur copiando la sua carta storica pari pari da un’altra dell’Ortelius opera in pieno ‘600, e, quindi, vira senza tentennamenti sull’Apenninus.

E qui mi sia consentita una piccola parentesi: questa carta di Janszoon (o Janssonius che dir si voglia), assieme alla omologa di Ortelius, è stata addirittura da qualcuno ritenuta come l’antesignana dell’origine della parola ‘ndrangheta in quanto, in una zona completamente bianca reca la scritta “Andragathìa Regio” (fig. 11): forse, quel qualcuno, nonostante che a completamento del concetto Janszoon avesse aggiunto “Lucania”, avrà pensato che in quel “regio” magari l’Autore avesse distrattamente dimenticato una “g”…

Tornando, più seriamente a questa breve storia cartografica dell’Aspromonte, bisogna comunque arrivare alla fine del ‘700 per avere, con un altro padovano, G. A. Rizzi Zannoni, finalmente una vera e propria rivoluzione nella pratica cartografica. Certo, non può essere un caso che, stavolta, il cartografo in Calabria ci stazionò a lungo, e poté compiere il primo rilevamento non solo accurato, ma estremamente prezioso in riguardo ad alcune informazioni storiche a noi tramite quella carta pervenute, come, ad esempio, il gruppo di laghetti (da me evidenziati in blu, e oggi non più esistenti) che formarono il novero di quasi trecento invasi, fra grandi e piccoli, originati dal colossale sconvolgimento prodotto dal terribile terremoto del 1783 (fig. 12).

Peraltro, nonostante i suoi grandissimi meriti, Rizzi Zannoni non mancò di compiere un ultimo sgarbo nei confronti della nostra montagna, riportandola, sì all’antico nome, ma quasi in sottinteso, attraverso l’associazione al Mont’Alto (“la cima più alta dell’Aspromonte”) ed ai piani più propriamente noti come “della Corona” che non “di Aspromonte” (fig. 13).

AD OGNI MODO, A SISTEMARE definitivamente le cose ci pensarono, qualche anno più tardi, gli Ufficiali topografi dell’Esercito Austriaco (che ci facevano gli austriaci nel Regno di Napoli fra il 1821 ed il 1844? Beh, questa è un’altra storia…), che, basandosi proprio sulle carte del Rizzi Zannoni, redassero un accuratissimo Atlante del Regno che, stranamente, non ebbe però la fortuna che invece avrebbe meritato (fig. 14), non foss’altro che per l’evidenziazione, per la prima volta, di luoghi e toponimi sconosciuti ai più, come Pietra Cappa (in verità ritratta anche dal Rizzi) e Pietra Castello.

A CONCLUSIONE DI QUESTO EXCURSUS che spero non abbia troppo annoiato il coraggioso lettore che sia arrivato a questo punto, però (last, but not least direbbe l’inglese), mi sia consentita di riparare attraverso il regalo di una vera e propria “chicca”: la carta di fig. 15, meglio conosciuta come Carta Aragonese perché, come recita il cartiglio, sarebbe stata fatta ricopiare dall’Abate Galiani, “per ordine del RE, da un antico manoscritto conservato presso il Deposito della Marina di Parigi” nel 1767. Vi è riportata la descrizione del territorio per come sarebbe stato, secondo la ricostruzione più accreditata, attorno al 1495! Se il presunto originale (oggi scomparso) fosse veritiero (ci sono delle riserve) questa carta rappresenterebbe una testimonianza eccezionale degli insediamenti antropici medievali in questa parte di Calabria, addirittura tale da costringere a rivedere molte pagine di storia. Al momento, purtroppo, non si può parlare di conferme definitive, ma nessuno potrà mettere in second’ordine il fascino e l’eleganza di segni cartografici fra i più belli della cartografia antica. E, fra tutti, spicca in splendida evidenza un inequivocabile “aspro monte”.


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