Cinema. La Bellezza e la riflessione "fuori campo"
- Giovanni Scarfò
La Grande Bellezza ha messo in crisi critici e gente comune, più o meno competente e/o appassionata. A creare ulteriori dubbi e aspettative è stato sicuramente il titolo: parlare di Bellezza in Italia è stato sempre un esercizio difficile, tenuto conto della negativa o quanto meno incerta storia che riguarda la nostra dinamica socio-politica nei confronti della Bellezza genericamente intesa.
É solo da pochi anni a questa parte che il concetto di Bellezza ha cominciato timidamente a farsi strada. Eppure, già nei lontani anni ‘70, Peppino Impastato aveva intuito che “la potenza della Bellezza” avrebbe potuto sconfiggere la mafia; e oggi il titolo di un programma radiofonico serale gli rende omaggio con una trasmissione dal titolo La Bellezza contro le Mafie.
«La bellezza può manifestare le infinite possibilità delle sue forme, offrendo tanti spazi di meditazione e di dialogo» scrive Laurent Mazas. Purtroppo, sullo sfondo di un orizzonte incolore in cui si colloca la società contemporanea, uno dei tanti spazi di meditazione e di dialogo riguarda le riflessioni sulla bellezza che rischiano lo scontato e il banale, riducendola ad un’idea sdolcinata e accademica, perché riproposta come “percezione esteriore superficiale”; oppure come contemplazione fine a se stessa, che rischia il vuoto o trova la morte, come Dorian Gray.
«Rara infatti è la capacità di lasciarsi ferire dalla Bellezza» ha scritto Gianfranco Ravasi, perché la bellezza è anche nell’oscurità, persino all’interno del “male” e del dolore. Bellezza significa anche un viaggio nello stupore che possono suscitare i diversi volti della creatività, che non si limitano all’arte genericamente intesa, ma anche alle teorie scientifiche. Per gli scienziati più insigni, infatti, la Bellezza è sempre stata uno degli obiettivi da raggiungere, quando non una guida nel cammino verso la verità. Da Einstein, per scrivere la relatività, ad Heisemberg, per ricercare la chiave della teoria quantistica, la storia della fisica e della matematica moderna è accompagnata dal desiderio di trovare l’armonia della natura e quindi la sua Bellezza.
Come si evince da quanto ho finora scritto, intendo offrire una riflessione “fuori campo”, riprendendo un titolo di Eisenstein del 1929, con il quale il regista ci ha fatto vedere quanti oggetti il cinema sia capace di offrire al pensiero, oltre ciò che viene pensato nei singoli film. Cosa incontriamo infatti nel “fuori campo”? Incontriamo il senso del cinema, come sistema di rappresentazione e di comunicazione. Ci sono per esempio registi che raccontano una storia il cui senso non va al di là della storia raccontata. Ci sono registi che raccontano una storia il cui senso va al di là della storia raccontata. E ci sono registi che raccontano una storia che non sembra avere bisogno di ulteriori letture; mentre invece va al di là di quello che mostra. E lo fa non solo con i personaggi, ma anche e soprattutto con il paesaggio che diventa protagonista, da una parte perché i personaggi si collocano in rapporto al paesaggio, dall’altra perché il paesaggio diventa esso stesso personaggio. É per esempio il caso del film L’Avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, che ha per protagonisti un gruppo di persone che, alla lettera, vive un’avventura inaspettata; ma, in effetti, nella loro realtà apparente, queste sono alla ricerca di sé stesse; così come Sandro e Claudia sono in apparenza alla ricerca di Anna, mentre nella storia si dipanano le loro crisi reali.
La professione di Sandro, architetto, è solo un pretesto per servirsi dell’architettura siciliana e dei significati espressivi che essi pro/muovono. «Che cos’è oggi la città per noi? - si chiedeva Italo Calvino in un conferenza tenuta a N.Y. nel 1983 - Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città». Il cinema ha posto varie domande in questo senso, cioè sulla funzione e il significato della forma architettonica nel cinema. E un film come La grande bellezza pone ancora queste domande, così come se le pongono L’Avventura, come già detto, e Il ventre dell’architetto (1986) di Peter Greenaway: «Un dramma psicologico che narra la vicenda di Stourley Kraklite, un architetto nordamericano in visita a Roma per allestire una mostra dedicata ad un suo predecessore Etienne Luois Boullèe (1728/1789); film pretesto per riflettere sull’immaginario collettivo della nostra attuale società, nonché un grande affresco di Roma». Per concludere: il film di Sorrentino può essere visto anche come l’identificazione dell’architettura di Roma intesa come «comunicazione nella dimensione dell’antropologia culturale che è un modo specifico di osservare l’uomo e le sue attività, ovvero nel momento in cui appare convincente la sua capacità di comunicare altro, di divenire media» (Virgilio Vercelloni).
Ma protagonisti non sono solo l’Architettura e il Paesaggio, ma anche la macchina da presa, con i movimenti di macchina che tracciano i percorsi dei personaggi nella città. E la sequenza d’apertura del film è sufficiente a dare senso alla “bellezza terribile” del film (e del cinema): «La bellezza del mondo ha sempre due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia, e taglia in due il cuore» (W.Woolf). P.s. Un film “pirandelliano”? All’inizio del film Jep Gambardella ascolta un pezzo de Il fu Mattia Pascal: sta forse pensando di “morire” per cambiare nome e vita e così mettere fine allo “squallore disgraziato di un uomo miserabile”? O sta forse pensando ai “suoi” personaggi perduti in cerca di un senso, dei quali lui tira le fila come un capocomico?
Giovanni Scarfò