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Fiabe d’Aspromonte. “I mostri della buonanotte”

  •   Maria Francesca Frascá
Fiabe d’Aspromonte. “I mostri della buonanotte”

“C’era una volta” è un’espressione che incanta! Chi la ascolta, si concentra nell’attesa di sentire come si completa, quali storie prodigiose nasconde dietro il suo magico suono. Tutti i bimbi del mondo al momento di dormire si sono messi sotto le coperte, buoni buoni, solo per sentirsi raccontare che c’era una volta …

Ma in Calabria non è mica così facile prendere sonno con tutti quei tipi strani che si aggirano per le storie della buonanotte! I bambini della nostra regione – in particolare quelli della nostra provincia – sentono parlare nelle loro fiabe di anarada, magara, il drago e la draga. È vero che i pargoli hanno il dono dell’immaginazione, ma il narratore che pronuncia questi nomi corre il rischio di sentirsi chiedere: “chi sono e come sono fatti?” e la maggior parte delle volte rispondere non è semplice. Anzi, ci vuole addirittura una piccola indagine sul nostro passato – notoriamente greco – per capire da dove vengono e che forma hanno i mostri delle nostre fiabe.

Iniziamo dall’anarada. Uno dei racconti di Roccaforte del Greco descrive questa figura come un animale parlante dispettoso e burlone. Nel Dizionario dialettale delle Tre Calabrie di Rohlfs, il lemma ha il significato di fata o strega, il che fa pensare a una figura dalle fattezze umane. La memoria popolare racconta invece che l’anarada è divisa in due metà: dalla testa al busto è donna, per il resto è asina … o capra … o pesce; su questo i cantastorie non sono mai molto precisi. Ma allora l’anarada è un animale o una donna? Beh, né l’uno né l’altra: l’anarada è una divinità! Il suo nome deriva dal greco neréis, ossia Nereide. Le nereidi – ben 50 sorelle, se crediamo a quanto dicono Omero ed Esiodo – erano le figlie degli dei marini Nereo e Teti e vivevano negli abissi dello Ionio. In effetti, anche la nostra anarada ha a che fare con l’acqua: i racconti popolari dicono che abiti nei dintorni di ruscelli e di fiumi. Nei pressi di Siderno, vive addirittura nel mare, da cui esce a mezzanotte per attirare col suo canto chiunque si avvicini a lei, proprio come facevano le sirene di omerica memoria!

Lasciamo l’anarada e passiamo al drago e alla draga. Nella tradizione fiabesca calabrese è il nome dato all’orco e all’orchessa e la descrizione delle due figure non ci lascia dubbi: si tratta di personaggi dalla notevole statura, caratterizzati da grande forza bruta, sempre vanificata da un quoziente intellettivo assai deludente. Nelle fiabe ricoprono sempre il ruolo dell’antagonista, sconfitto dall’eroe grazie a tiri mancini particolarmente astuti. Nella storia d’origine calabrese “Le tre raccoglitrici di cicoria”, riportata da Calvino nelle sue Fiabe italiane, il drago è sconfitto dalla protagonista grazie a questo trucco: prima lo fa ubriacare col vino e poi lo colpisce in mezzo alla fronte, uccidendolo. Inutile ricordare l’episodio di Ulisse, che accecò il ciclope Polifemo con lo stesso gioco. Dal momento che le fiabe hanno origine dal mito, non è difficile credere che il nostro racconto abbia il suo diretto antenato in quello riportato nell’Odissea e che il drago, così grosso, sciocco, spesso con un unico occhio, sia lo sfortunato pronipote dei ciclopi!

Un’altra figura insolita è quella del fuḍḍittu, un piccolo spirito che, secondo la leggenda, vive nelle cantine e nelle stalle, si fa vedere solo a notte fonda e indossa un berretto rosso. Chi si imbatte in lui ha due possibilità: lasciarlo andare, e in quel caso si ammalerà di febbre esattamente una settimana dopo l’incontro, oppure provare ad acchiappargli il cappello; se ci riesce, sarà fortunato per sempre! Così raccontata, la vicenda non sembra avere alcuna ascendenza greca, ma non è per forza così: non tutti sanno – e neppure io lo sapevo, prima di leggere il Dizionario dialettale delle Tre Calabrie – che nel dialetto di Canolo fuḍḍittu significa incubo. Nella grecità classica assimilati agli incubi erano i giganti, che il mito indica come i figli della Terra e di Urano; ma dietro questa allegoria gli studiosi contemporanei ravvisano spiriti maligni del tutto simili agli incubi notturni.

E che dire della Sorte? Nell’immaginario collettivo greco, come attestano lo storico Erodoto e il tragico Sofocle, la tyche è irresponsabile e irrequieta, e corre per il mondo facendo rimbalzare una palla, metafora della volubilità della fortuna. Ovviamente, le storie del reggino ospitano anche la Sorte, che veste i panni di una bambina capricciosa. In una delle fiabe raccolte da Lombardi Satriani, la dolce fanciulla non faceva che predire vite sfortunate e morti cruente a tutti i nascituri.

Ma i mostri più imprevedibili, e per questo più terrificanti, della fiaba popolare calabrese sono – difficile a credersi – le principesse. E sì, perché non sono come tutte le altre. I bambini sono abituati a una principessa delicata e remissiva, che piange sulle proprie sventure mentre aspetta che qualcuno la salvi. I compiti affidati alle principesse non richiedono sforzi fisici, peregrinazioni, astuzie, che invece sono propri del ruolo dell’eroe. La principessa, di norma, attende il principe azzurro con pazienza, supera prove d’obbedienza, si mostra compiacente, salvo qualche vezzoso capriccio. Ma non è il caso delle nostre principesse. Per esempio, nella fiaba “Il figlio serpente”, mentre il principe, vittima di un incantesimo, subisce continue metamorfosi, è sua moglie a scontar le pene: per amore del marito, patisce tormenti inverosimili! E quando la fortuna le arride ancora e il principe vorrebbe riprenderla con sé, lei che fa? Lo rifiuta! Gli rinfaccia tutto il male che ha sopportato a causa sua e si barrica dietro una dorata altezzosità. Al povero principe non resta che riconquistarla a suon di diamanti! In un’altra fiaba, “Re Pipi”, la principessa non vuole che sia il padre a sceglierle un marito, così se lo fabbrica da sé con farina e zucchero e, quando le succede di perderlo, lo va a cercare fino alla casa della temibile draga e se lo riporta a casa di prepotenza.

Se nelle fiabe calabresi è l’angelo del focolare a portare i pantaloni, un motivo c’è. E, come al solito, bisogna ricercarlo nelle radici greche dei territori del reggino.

I miti greci arrivati fino a noi sono per la maggior parte antifemministi, e la donna è la causa dei disastri maggiori della storia: tanto per dirne qualcuna, i dieci anni di guerra di Troia furono colpa di Elena, e fu colpa di Pandora aver diffuso il male in tutto il mondo aprendo il vaso che lo conteneva. Una corrente di studi poco nota sostiene che questa misoginia sia nata in Grecia all’unico scopo di sovvertire il matriarcato che vigeva originariamente, sostituendolo con un pantheon in cui il simbolo della forza, dell’ordine e del potere fosse l’elemento maschile. Artefici di questo sovvertimento sarebbero stati gli elleni provenienti dalle steppe eurasiatiche, che si stanziarono nella penisola balcanica circa quattromila anni fa. Nonostante questo, alcuni esempi di matriarcato rimasero, e possono essere rintracciati soprattutto in Magna Grecia: basti pensare ai grandi templi fondati sulla costa ionica tra il VI e il III secolo a. C., dedicati non agli dei, ma alle dee, di cui il più famoso è quello in onore di Era Lacinia, nell’attuale Capo Colonna. E non sarà inutile ricordare quello che scrisse lo storico greco Tucidide, il quale tramanda che la città di Locri è stata fondata da donne e che la nobiltà per nascita seguiva allora non la linea dinastica paterna, ma quella materna. In più, molti studiosi attestano che le popolazioni preelleniche fossero matriarcali e che venerassero la dea Eurinome la quale, fecondata dal vento Borea, creò l’universo, il tempo e la vita. Persino il nome Calabria è femminile e, secondo alcuni etimologisti, deriva dall’unione di due aggettivi greci, kalé e ybris, ossia bello e superbo. Con una regina che porta questo nome, che tipo di principesse potevamo aspettarci?


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