I cinque martiri di Gerace. La storia e l’analisi
- Pino Macrì
Con ogni probabilità, l’idea dell’insurrezione calabrese del 1847 nasce a Napoli: qui Domenico Mauro dialoga con Benedetto Musolino, sua vecchia conoscenza, e con Mario Poerio; ad essi si associano sempre più spesso, nelle riunioni segrete delle sette: Domenico Romeo, che per la sua attività di ispettore delle dogane (in particolare, deteneva la regìa dei tabacchi) e per l’incarico di gestire la distribuzione di grano e farina nella provincia Ultra Prima poteva correre su e giù per il regno senza destar sospetti (sarà l’organizzatore ed il capo indiscusso della rivolta); Gaetano Ruffo che, con Michele Bello e Pietro Mazzone, fu poi incaricato di tenere i contatti con i liberali di Reggio Calabria durante il periodo in cui i primi due collaboravano alla Fata Morgana; Casimiro De Lieto, che, grazie anche alla conoscenza delle lingue[1], teneva stretti contatti con l’estero, soprattutto con l’Inghilterra, e faceva parte del gruppo di liberali attivi a Reggio assieme ai fratelli Agostino ed Antonino Plutino[2] ed al canonico Paolo Pellicano. Ne fu quasi ovvia scaturigine un piano eversivo che, per la prima volta, usciva dai ristretti ambiti locali e circondariali per dotarsi di un respiro e di obiettivi a più ampio raggio: avrebbero dovuto, infatti, contemporaneamente scoppiare delle insorgenze in più punti periferici del regno (Palermo e Messina in Sicilia, Reggio e Cosenza in Calabria) per distrarre le forze di polizia ed allontanarle da Napoli, su cui è probabile che avrebbe dovuto marciare un contingente di rivoltosi dagli Abruzzi, i quali avrebbero trovato Poerio e Mauro pronti ad assumere nella capitale le redini della rivolta. I lunghi preparativi, non ancora compiutamente ultimati, ricevettero probabilmente un’improvvisa accelerazione a causa della carestia, scoppiata improvvisamente verso la fine del 1846, durante la quale, tra l’altro, Michele Bello si distinse per il prodigarsi in favore della popolazione più indigente[3].
Fra tutti i cospiratori, Domenico Romeo era il più attivo, ma anche il più impaziente, e, forse per sfruttare tanto il “vantaggio” del malcontento venutosi a creare per la carestia, quanto quello della popolarità guadagnata da chi, fra i liberali, si era dato molto da fare per alleviare i disagi del popolo, premeva affinché l’insurrezione avesse inizio, nonostante il parere avverso sia dei Comitati di Palermo e Napoli, generalmente più moderati, sia di quelli di Catanzaro e Cosenza, fortemente preoccupati per il perdurare sul loro suolo delle truppe stanziate a seguito della vicenda Talarico e degli episodi di brigantaggio di cui si è detto.
Gli eventi, comunque, precipitarono inaspettatamente a Messina, dove la rivolta scoppiò in anticipo, il 1º di settembre. L’atto colse gli stessi messinesi impreparati, tanto che, dopo alcune brevi scaramucce con alcune vittime dall’una e dall’altra parte, nell’arco della stessa giornata i tumulti vennero sedati e le truppe governative ripresero il controllo della situazione, non senza dar luogo alla ormai solita scia di sangue: due condannati a morte nell’immediatezza dei fatti, (di cui uno, essendo sacerdote, ebbe la pena sospesa in attesa di un pronunziamento definitivo di un apposito consiglio di Vescovi), altri dieci, in seguito.
Il 2 settembre Domenico Romeo ruppe gli indugi ed entrò in Reggio alla testa di un nutrito gruppo di rivoltosi, tra sei ed ottocento, in gran parte suoi compaesani di Santo Stefano d’Aspromonte (detti “Stefaniti”): la capitale di Calabria Ultra Prima fu occupata senza il benché minimo spargimento di sangue, e fu letto un proclama, scritto da Casimiro De Lieto, che val la pena riproporre nei suoi passi più importanti:
Reggio alle Province di Napoli e. di Sicilia: “Fedeli alle nostre promesse, noi abbinino innalzato i tre colori della indipendenza nazionale Italiana, col fragoroso Applauso dìViva il Re Costituzionale Ferdinando Secondo, Viva la Libertà. La costituzione del 1820, così felicemente ottenuta, così spontaneamente giurata, violata poscia e tradita, veniva (senza diritto) invasa e distrutta dalla baionetta dello straniero. Quanti mai, nei trascorsi 26 anni, tentarono di risvegliarne la rimembranza, comprarono col proprio sangue quel martiri0o politico che ne santifica la loro memoria. Fratelli! alle armi! — ricordiamo il sangue dei Martiri. Il progresso della libertà civile e politica, in parecchi dei diversi stati d’Italia, e più che in tutti, nello stato del Religioso ed Evangelico Vicario di Gesù Cristo il Glorioso Pio Nono, ci conferma nel sacrosanto desiderio di divenir liberi. Gloria presente e futura al Vicario di Gesù Cristo, Pio Nono! […] Rispetto alle persone ed alle proprietà! Non è Cittadino, chi invilisce il nobile pensiero di libertà nella bassezza degli odii privati. Noi vogliamo l’ordine, e guai e morte a chiunque s’attenterà di disturbarlo o di opporsi alla nostra Santa Risoluzione, che è la Redenzione della Patria. Noi vogliamo, al paro delle più civili nazioni d’Europa, un governo costituzionale rappresentativo, poggiato sopra forza veramente nazionale, e con tutte quelle garentìe che assicurano la libertà e l’eguaglianza dì tutti i Cittadini davanti alla legge.[…]” Reggio Calabria, 2 settembre 1847[4].
Un secondo manifesto, poi, circolò in Reggio, a firma di Antonino Plutino e Domenico Romeo, che riproponeva i medesimi concetti; ed infine, un terzo, diretto a tutti gli italiani:
All’Italia redenta: “Le basi fondamentali della grandezza Italiana sono piantate da Pio Nono in quella terra superba che sempre fu l’ammirazione del mondo e de’ secoli. Opera sublime, redenta da questo Angelo celeste nella casa di Dio sotto gli auspici di sacrosanta Religione, fa sentire in ogni cuore nobili impulsi da elevarsi a grandi imprese. Italiani, quel vostro vivo fuoco è estinto? No! represso per la cattività dei tempi, sotto aure propizie, per quanto represso, spanderà tanta luce da rendere gloriosa l’Italia sopra tutte le nazioni civilizzate d’Europa. Calabresi! Siciliani! non siete voi Italiani? non volete emanciparvi, degeneri degli illustri avi? […] Non è credibile che il vostro petto non avvampi di quel fuoco celeste che la natura fa vedere e sentire in ogni angolo della nostra classica terra. […] Oggi la maschera dell’ipocrisia è incenerita sull’istesso Altare che venia profanato l’Evangelo. Pio Nono, verace apostolo di Gesù Cristo, rivendica la verità autenticata col sangue prezioso dell’Orno Dio, protestandosi imperterrito difenderla a fronte di quei perfidi aborti della natura, nemici di Dio, che tuttora persistono nell’iniquità dei loro andamenti. Stendiamo una volta generosamente la destra, vincolo e legame della nostra inviolabile amicizia; deponiamo ogni nostro rancore contro i traviati con puro sentimento di perdono, purché pentiti faccian ritorno nel giusto sentiero. In fine, concordi giuriamo col nostro sangue: vincere o morire”. Reggio, il dì 2 Settembre 1847[5].
I primi provvedimenti della Giunta Provvisoria, con a capo il canonico Pellicano, riguardarono lo scioglimento della privativa dell’acqua marina, il dimezzamento del prezzo del sale e dei tabacchi e l’abolizione immediata della tassa sul macinato, già prevista dal governo per l’inizio del successivo anno. Furono anche aperte le prigioni e liberati i soli detenuti politici.
Il giorno successivo, 3 settembre, la rivolta si concretizzò nel Distretto di Gerace, con partenza da Bianco: ivi, agli ordini di Michele Bello, Rocco Verduci e Domenico Salvadori, si ripetettero le scene ed i provvedimenti amministrativi di Reggio, e, saputa della partenza di Gerace per Bianco del sottendente Bonafede, lo si intercettò per mare e lo si fece prigioniero, mantenendogli però salva la vita e usandogli tutto il rispetto che in una società civile è dovuto ai prigionieri. I rivoltosi, quindi, si avviarono per Bovalino, dove era ad attenderli Gaetano Ruffo con altri insorti. Non tutti i comuni si schierarono dalla loro parte: San Luca prima, Gerace poi, ed infine Mammola, non consentirono l’ingresso ai liberali, mentre Ardore, Siderno, Gioiosa e Roccella (dove aspettava l’ultimo dei Cinque capi, Pietro Mazzone), si unirono ai primi, ingrossandone via via le fila fino a circa un migliaio.
Mentre questi erano gli sviluppi nel Distretto di Gerace, a Reggio, però, la situazione precipitava: poco dopo il mezzogiorno del 4 settembre, comparvero al largo le due fregate Ruggero e Guiscardo cariche di truppe (in parte sbarcate a Pizzo per dirigersi via terra verso Gerace), che iniziarono a bombardare la capitale. Gli insorti, colti di sorpresa, si ritirarono sulle montagne, dove Domenico Romeo, prima ferito, fu poi ucciso in uno scontro a fuoco, decapitato, e la sua testa, infilata su una pertica, fu riportata in macabra processione a Reggio in segno di vittoria e di lugubre avvertimento ai pochi resistenti rimasti.
Il giorno dopo, 5 settembre, la notizia della caduta di Reggio colse gli insorti a tarda sera mentre riposavano a Roccella: qui, nella notte, la luce di una lanterna in alto mare fu scambiata per un fanale di una delle navi da guerra inviate da Napoli e, consci tanto di essere in troppo poco numero per opporsi a truppe addestrate e munite di cannoni, quanto dell’inutilità di spargere inutilmente sangue, i capi preferirono sciogliere la colonna, dichiarando in tal modo conclusa, e sconfitta, la breve esperienza rivoluzionaria.
Nonostante il carattere incruento dell’insurrezione, la repressione fu, se possibile, ancor più dura del solito: secondo la copiosissima documentazione sui fatti raccolta da Visalli, i perseguitati dalla polizia borbonica per quei fatti furono in tutto ben 1392, di cui nove (i Cinque, a Gerace, e 4 figure di secondo piano, a Reggio) condannati a morte e fucilati, altri sette ebbero la pena di morte trasformata in lunghissime e durissime detenzioni, un’infinità fu condannata a pene assolutamente spropositate (Giovanni Ruffo, fratello sedicenne del Martire Gaetano, per aver confiscato un fucile ad una guardia urbana, peraltro rilasciandogli una ricevuta, fu condannato a 16 anni, scontandone poi “solo” 13, per la liberazione avvenuta dopo l’occupazione garibaldina).
La lettura del resoconto completo del Visalli fa emergere, tra l’altro, alcuni episodi che fanno comprendere come mai il moto calabrese del ‘47, in sé non determinante, ebbe una tale eco nel Regno e nell’intera Nazione, da segnare addirittura un momento importante nella svolta che ebbero, da quel momento, i movimenti liberali in Italia.
Fra i tanti episodi, oltre a quello già narrato sul trattamento riservato al Bonafede una volta catturato, pare opportuno ricordarne altri due.
Il primo riguarda il momento del processo in cui i giudici militari cercarono, sia con minacce nemmeno troppo velate, che con lusinghe mirate a possibili riduzioni di pena, di far denunciare ai Cinque i nomi degli organizzatori, occulti e non, della sommossa: nessuno di loro parlò ed, anzi, scoppiarono anche degli alterchi fra Verduci e Bello da una parte ed i giudici dall’altra, a causa dell’insistenza eccessiva di questi ultimi, quando, alla ennesima richiesta del generale Nunziante, Verduci prima rispose: “che domande incivili! E chi mai potrebbe riscattare la vita con il prezzo di tanta vergogna! Io credo che voi, generale, da soldato d’onore, non avreste la forza di consigliarmelo”[6], per essere, poi, addirittura trattenuto a stento quando uno dei giudici sputò sprezzante sulla bandiera tricolore, addotta come prova a carico. Tutto ciò, nonostante uno dei capi, Domenico Romeo, fosse morto, e di tutti gli altri la polizia conoscesse perfettamente (per ammissione postuma dello stesso Bonafede) l’identità.
Il secondo episodio attiene a due soli dei Cinque: dopo l’infausta notte di Roccella, Mazzone e Ruffo scapparono verso Catanzaro, dove il primo contava sulla possibilità di aiuto ad espatriare da parte della potente famiglia della fidanzata, Eleonora Di Riso: ivi giunti, di fronte alla dichiarazione del futuro suocero di aver trovato un solo posto su un’imbarcazione in partenza clandestina per Malta, Mazzone rifiutò di utilizzarlo per non lasciare da solo il giovane amico, e, con lui, fece ritorno verso Bovalino, nonostante la pressoché certezza della cattura. In proposito, non è fuor di luogo ipotizzare che i due intendessero costituirsi; ma, mentre Ruffo fu catturato prima di poter giungere a Bovalino, Mazzone riuscì nell’intento di presentarsi spontaneamente: come si sa, nonostante le leggi dell’epoca non lo prevedessero, non se ne tenne conto in sede processuale ed anch’egli fu, poi, condannato a morte, ennesimo arbitrio della sanguinaria nomenclatura borbonica.
Per completezza di informazione, oltre che per meglio far comprendere la disumanità che, certamente in quella circostanza, fu appalesata dai borbonici, vi è da dire che, a seguito della concessione della Costituzione, si respirò (per poco, purtroppo), un’aria nuova nel Regno, tanto che i parenti delle Cinque vittime ritennero fosse possibile recuperare i miseri resti dei loro congiunti (dopo la fucilazione i corpi dei Martiri erano stati, infatti, gettati nella fossa comune, detta la Lupa, impedendone finanche la cristiana sepoltura)[7] e, con grandissime difficoltà riuscirono a reperire due becchini dalla lontana Monteleone (oggi Vibo Valentia) specializzati nel recupero di salme: queste, appena ricomposte ed adagiate in delle bare, erano pronte per il trasporto ai paesi d’origine, quando intervenne la notizia del ritiro della Costituzione (che era stata giurata, ancora una volta, con la formula consueta “sulla Santa Trinità e sui Vangeli”), in seguito alla quale, il comandante militare di Gerace, colonnello De Flugy, fece arrestare i becchini e quanti si erano dati da fare per porre in essere quel semplice atto di umana pietà, e fece rigettare nella Lupa i resti ormai in avanzato stato di decomposizione dei Cinque giovani, in segno di ulteriore, terribile, inaccettabile, disprezzo.
In conclusione, si disse allora, e nei circoli neo-borbonici si dice tuttora, che quello fu un movimento di “massoni ed atei, foraggiato dagli Inglesi per sgretolare l’integrità del regno”; che “il reato di lesa maestà fu evidente e, quindi, era da considerarsi giustificata la reazione governativa che ne seguì”; che, comunque, “si trattò di un fatto di poco conto, messo in piedi alla bell’e meglio da un gruppo di giovani sconsigliati”, eccetera, eccetera.
Oggi, dopo oltre un secolo e mezzo in cui il contributo del Sud al Risorgimento, e, quindi, ai processi che portarono all’Unità, è stato sostanzialmente trascurato, i più attenti storici stanno finalmente rivalutando una pagina di storia, ed un’area geografica, che non soltanto non possono essere ignorati, ma che ne furono addirittura protagonisti, se non nei fatti specifici, senz’altro nel forgiare quello spirito e quell’idea di Patria che ne furono alla base.
NOTE AL TESTO
[1] reggino nativo di Roccella, era stato dapprima impiegato a Parigi nel 1822, poi aveva viaggiato per gli Stati Uniti e infine aveva vissuto per quasi dieci anni a Londra, dove “ebbe occasione di stringere amicizia con Mazzini, l’economista Pecchio, il colonnello Poerio, il conte Ricciardi” (cfr. V. Visalli, Lotta e martirio…, op. cit., pp. 46-47)
[2] Antonino Plutino nel 1844 era impiegato presso l’intendenza di Cosenza, ed ebbe parte attiva in quei moti
[3] Cfr. Aldo Cazzullo, Viva l’Italia!, Mondadori, Milano, 2010, p. 48: “[Michele] Bello ha un certo credito presso i poveri perché li ha aiutati durante la carestia dell’anno precedente”
[4] V. Visalli, Lotta e martirio…, op. cit., p. 92
[5] Ibidem, p. 309
[6] A. Cazzullo, Viva l’Italia, Mondadori, Milano, 2010, p. 47
[7] Ancor oggi, alcuni storici tradizionalisti e filo-borbonici contrappongono il sentimento religioso di Casa Borbone ad un presunto carattere ateistico della rivolta. Sulla qualità del cristianesimo dei primi non c’è bisogno di aggiungere altro; in riguardo ai Cinque Martiri, invece, valga l’omelia che Mons. Bregantini, Vescovo di Locri – Gerace fino a qualche anno addietro, tenne il 2 ottobre 1997 nella Cattedrale di Gerace, in occorrenza delle celebrazioni per il 150º anniversario dell’eccidio, nella quale “egli compì una riflessione sul gesto «perché il passato sia da ammonimento e di stimolo a vivere il momento presente» . Dalla lettura di questo episodio,[…] emerge «che essi non erano capiti da tantissima gente, da tanta realtà della Locride e di Gerace stessa. Li vedevano come dei giovani alla ricerca di chissà che cosa». Sulla triste vicenda, […], rimane «l’incapacità della base e dei vertici, compresi quelli ecclesiastici di capire il nuovo» . Erano, in realtà, precursori di innovazioni sociali di ben più vasta portata; «sognavano probabilmente (…) un’Italia allo stile di Gioberti, cioè una confederazione di molti stati guidati dal Papa». Un’Italia che forse, […] avrebbe avuto un altro destino con una «storia del sud diversa, più rispettosa, meno colonizzata, avremmo avuto un maggiore rispetto delle tradizioni (…). Il loro obiettivo era riformare lo Stato meridionale, non di più». La centralità del loro pensiero è, secondo Bregantini, costruire un’Italia dove ognuno mantenesse le proprie specificità, la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura. «Quello che io ammiro in questi giovani è il coraggio delle loro idee, è la capacità di esprimerle fino in fondo e il coraggio di testimoniare fino alla morte questo gesto vitale (…). In questo senso sono modello di chiarezza, di coerenza fino in fondo»” (tratto da: V. Cataldo, Cospirazioni…, op. cit., p. 130. I virgolettati sono brani dell’omelia citati da Cataldo e ripresi da V. NADILE, Ricordo dei Cinque Martiri di Gerace, Bovalino, Diaco, 1998).
I CINQUE MARTIRI DI GERACE, ANALISI CRITICA
I Moti di Gerace e Reggio del 1847: i prodromi del Risorgimento italiano
A leggere molti dei libri scritti sulla storia dell’insurrezione calabrese del 1847 che infiammò i cuori degli italiani ai prodromi del Risorgimento nazionale, spesso si ha come la netta sensazione che i relativi resoconti storici siano stati “buttati giù” più sulla scorta dei ricordi (personali, familiari o altro, ma pur sempre ricordi), che dei documenti ufficiali.
Se ciò fosse vero, si avvalorerebbero le due componenti che maggiormente, in tutti questi anni, hanno impedito che la vicenda rivestisse il ruolo che senz’altro merita nella storiografia risorgimentale italiana: da una parte l’improvvisazione narrativa, ancorché spesso ammantata di passione, ma non sufficientemente corroborata da elementi “incontrovertibili” quali i dati estrapolabili per tabula; dall’altra, una pubblicistica negativa, talora portata avanti in maniera aprioristica e zavorrata da pregiudiziali di tipo ideologico.
Cosicché, a fianco o in contrapposizione alle narrazioni passionali dei “sostenitori”, fra cui spiccano quelle figliate dagli aderenti a vario titolo alle Logge massoniche anche ufficiali, hanno fatto spesso da contraltare i colpevoli “silenzi” dei critici storici delle più svariate estrazioni politico-ideologiche.
Sicché, “l’azione dei Cinque giovani è da considerarsi improvvida in quanto ebbe l’unico effetto di mettere in pericolo le sorti delle masse proletarie, magari per soddisfare le velleità borghesi di origine di tutti i capi dell’insurrezione” (è grosso modo la posizione per lunghissimo tempo tenuta dai marxisti).
Oppure trattavasi di “giovani ‘sconsigliati’, forse anche atei, in quanto dichiaratamente appartenenti alla Carboneria” (e quindi massoni: è la posizione del revisionismo neo-borbonico, imperniata quasi esclusivamente sui proclami di Civiltà Cattolica e dello storico ufficiale borbonico Giacinto De Sivo; in parte è stata anche la posizione ufficiale degli storici cattolici e della Chiesa, almeno di quella locale, almeno fino al 1997, allorquando in una memorabile omelia tenuta nella Cattedrale di Gerace dal Vescovo Bregantini, fu ufficialmente riconosciuta la valenza educativa, in senso storico, dell’Insurrezione (anche se, poi, l’accorato appello del presule fu alquanto ammorbidito nella versione ufficiale, scritta, dell’omelia stessa).
Ma anche, infine, l’impostazione dell’imperante critica liberale ha sempre propeso verso l’idea che il Risorgimento italiano sia esclusivamente da considerarsi come un “regalo” del Nord liberatore fatto nei confronti del Sud, oppresso sì, ma pur sempre incapace di qualsiasi azione autodeterminante.
E alla conta dei critici “silenti” non debbono sfuggire nemmeno i “mazziniani”, per i quali, quasi come si trattasse di un volgare tifo di tipo calcistico, c’era da aver riguardo solo per le azioni poste in essere dai loro affiliati: non si spiegherebbe altrimenti come mai fatti storici eclatanti ed eroici quanto si vuole, come gli episodi dei Fratelli Bandiera o di Carlo Pisacane, trovano amplissimo riscontro nell’agiografia risorgimentale (ed in tutti i più diffusi manuali di storia), pur non avendo avuto alcuna conseguenza nei processi rivoluzionari italiani, mentre, di episodi come l’insurrezione calabra, non si trova alcuna traccia nei più diffusi libri di storia.
Eppure, a ben vedere ed a voler essere freddamente critici, l’episodio dei Fratelli Bandiera non fu completamente edificante, se è vero che uno dei due fratelli, nell’imminenza della fucilazione, forse dietro consiglio del suo avvocato, scrisse al Re Borbone una lettera piena di elogi per la sua regal figura, dichiarandosi pronto ad offrirgli i propri servigi ed abiurando in tal modo la lotta e l’idea stessa sino ad allora fermamente perseguita.
Al contrario, invece, di quanto le agiografie risorgimentali ad usum delphini tuttora scrivono, i sentimenti del popolo italiano, quello spontaneo, non etichettabile con “ismi” di comodo e protagonista vero delle rivolte contro lo straniero, dovevano essere state ben fortemente impressionate dai fatti calabresi, se è vero, come è vero, che il 12 ed il 15 febbraio 1848, a Milano, nel profondo nord, i giovani dimostranti adottarono il “cappello alla calabrese” come simbolo distintivo del sentimento antiaustriaco, tanto da costringere le autorità ad emanare un provvedimento a mezzo del quale “si vietava rigorosamente il portare a pubblica vista il cappello che sia della forma così detta alla calabrese [… ] pena l’immediato arresto” (determinazione della delegazione provinciale di polizia austriaca nº 1207, Bergamo, 16 febbraio 1848).
E quanto, ancora, il ’47 calabrese abbia avuto influenza nell’immaginario collettivo del movimento risorgimentale italiano, è infine testimoniato da un’altro provvedimento di polizia austriaca, stavolta a Milano, che il 27 aprile 1859, cioè alla vigilia della 2º guerra d’indipendenza, e, soprattutto, ben 11 anni e mezzo dopo i fatti di Gerace e Reggio, emana un’apposita ordinanza per confiscare “pipe in radica o gesso che rappresentassero il cappello alla calabrese”.
Da subito, i fatti del ’47 destarono in tutta Italia sentimenti di commozione e di sentita solidarietà, e l’orrore per la barbara fucilazione di quei giovani fu oggetto di ampi resoconti in tutti i giornali liberali dell’epoca:
Le gazzette di Roma, di Toscana, di Piemonte, confutavano con minuti ragguagli le calunnie della stampa napoletana contro i liberali, ed il più sdegnoso linguaggio adoperavano L’Alba di Firenze, ed il Corriere Livornese: in Livorno anzi furono celebrate esequie solenni ai morti di Gerace, e rotte le insegne del consolato napoletano. […] i comitati di Palermo e di Napoli, già tendenti ad azione conciliativa, divennero deliberatamente rivoluzionari. Ed in Napoli alcuni giovani si diedero a tramare un colpo temerario, una disperata follia: assalire la carrozza reale, sequestrare o uccidere Ferdinando, e ricominciare in tal modo l’insurrezione”[1];
A Napoli, da quel momento, il motto della rivolta calabrese, “Viva l’Italia, viva la Costituzione, viva Pio IX”, divenne il motto dei liberali napoletani[2], e perdurò incessantemente fino a quando, appena tre mesi dopo (gennaio 1848), Ferdinando II, sulla fortissima pressione del popolo, non fu costretto a concedere la Costituzione, che, a sua volta, fu salutata con grande entusiasmo non solo a Napoli ma in tutta Italia. In particolare, nel Lombardo-Veneto la circostanza incoraggiò i patrioti che, in omaggio aiMartiri del Jonio (così erano detti allora) ripresero a portare il cappello alla calabresecome segno distintivo di fratellanza rivoluzionaria.
Il simbolo rivoluzionario, è opportuno sottolinearlo, era già stato adottato dai patrioti napoletani prima del 27 gennaio 1848 (data della concessione della Costituzione):
Varie son le fogge dei cappelli. I governi assoluti si occupavano molto della lor forma. […] In Napoli, prima del 27 gennaio, chi portava il Cappello alla Calabrese o all’Ernani, andava a respirare l’aria di S. Maria Apparente [una delle carceri di Napoli, ndR]. Ora vi è completa libertà di cappelli di qualunque forma […][3].
Si ha anche notizia che l’esibizione del cappello alla calabrese si ebbe pure a Treviso, Venezia, Roma, Palermo; a Modena[4], durante le rappresentazioni teatrali, riscosse addirittura un successo tale da indurre ai “soliti” provvedimenti di polizia, in seguito ai quali, esso fu sostituito dal “cappello alla Ernani” (ma, pare, riscuotendo minor successo). Nel tempo, quel simbolo ebbe una tale diffusione fra i liberali che anche Garibaldi ne fece uno dei propri emblemi di battaglia.
Alla luce di questi documenti riteniamo ben difficile continuare a sostenere che il ‘47 calabrese possa continuare ad essere considerato un fatto minore che, tutto sommato, non ebbe influenza nel Risorgimento Italiano: al contrario, ne segnò concretamente l’inizio e lo accompagnò fino all’esito vittorioso dell’Unità d’Italia, salvo poi ad essere fraudolentemente messo in disparte per non intralciare il processo di espansione capitalistica del Nord, magari svilendolo attraverso la rappresentazione di un Sud caratterizzato dalla barbarie brigantesca: ma questa è un’altra storia…
In questa sede preme invece riflettere, come si diceva all’inizio, sull’esposizione dei fatti storici troppo spesso disgiunta dal necessario supporto dell’analisi dei dati.
A questo proposito, è da rimarcare con una certa dose di rammarico come taluni sedicenti storici odierni si avventurino abbastanza avventatamente in un esercizio di demolizione dell’opera di Visalli, Lotta e martirio del popolo calabrese, con una protervia che in alcune espressioni scade addirittura in una sorta di “furia iconoclasta” assolutamente ingiustificata, e, perciò, alquanto sospetta.
Se, infatti, qualche critica può anche accettabilmente essere mossa sullo “stile” narrativo un po’ datato e sull’enfasi che qua e la traspare, anche se in misura mai stucchevole, non si può non attribuirne la cause allo stesso “brodo di cultura” entro cui il ponderoso volume è maturato, ed, anzi, non si può non apprezzarne il tentativo di distacco scientifico, nonostante i rapporti affettivi dell’Autore con alcuni partecipanti all’insurrezione.
Basterebbe al riguardo leggere con la dovuta serenità le pagine dedicate alla delicata vicenda della posizione tenuta dal Vescovo Perrone: mai Visalli si fa attrarre dalle facili sirene della polemica, ma si limita ad esporre il parere dello storico, strettamente vincolato alla mancanza di documenti o prove ufficiali in grado di assolvere o condannare il presule geracese.
Ma il vero “tesoro” storico dell’opera di Visalli risiede nella seconda parte del tomo: laddove, cioè, viene minuziosamente trascritta un’enorme mole di documenti che l’Autore rintracciò in decenni di minuziosa ricerca e che costituisce il corpus dell’archivio Visalli, senz’altro la più documentata fonte di informazioni sull’insurrezione del 1847.
Vi si trova di tutto: dalle informative che segnalavano alla polizia “movimenti” sospetti nel territorio al concitato scambio di messaggi telegrafici con la Capitale nei giorni dell’insurrezione; dal testo del proclama degli insorti alle ordinanze di fuorbando contro gli insorti sconfitti e fuggiaschi; dai rapporti di polizia sugli arresti effettuati agli estratti di svariati interrogatori delle persone incriminate per la partecipazione ai fatti.
Premesso, però, che nonostante la considerevole mole documentaria prodotta, molto altro esiste in archivi cui Visalli forse non fece in tempo ad arrivare (altri documenti originali sono consultabili, per esempio, in “I moti del ’47 a Reggio e nella Locride” di A. Lozza, Ardore, A.G.E. 1992 ed in “Cospirazioni, economia e società nel Distretto di Gerace e nella Calabria Ultra dal 1847 all’Unità d’Italia” di V. Cataldo, Ardore, A.G.E. 2000) e altro ancora non è stato ancora rinvenuto (per esempio: i verbali degli interrogatori di quattro dei Cinque Martiri, presumibilmente sottratti e distrutti da quello che ancora oggi alcuni si ostinano a definire “l’onesto” difensore dello Stato Napoletano Antonio Bonafede), purtuttavia, tanto per ritornare all’incipit di questo scritto, un’analisi di tipo statistico – storico – sociologica appena abbozzata dei documenti visalliani fa emergere una serie impressionante di considerazioni che, addirittura, in taluni casi fanno giustizia di tanti accostamenti superficiali ai fatti e di tante narrazioni che, come si diceva, sono spesso falsate da afflati retorici tanto fra i “sostenitori” quanto, soprattutto, fra i denigratori dei fatti del ’47 calabrese
I partecipanti all’insurrezione: estensione dei moti
Anzitutto la prima domanda a cui sembra opportuno dare una risposta: quanto esteso fu il movimento, in termini di partecipazione numerica?
Nelle varie narrazioni , a seconda delle “passioni” degli autori, si parla di “poche decine”, ma anche di “migliaia” di persone, senza, però, dare mai un’indicazione precisa.
Naturalmente è assai arduo, se non impossibile, fornire un numero esatto (nessun cronista dell’epoca produsse un “censimento” in tal senso), ma un’idea molto concreta può essere accettabilmente desunta proprio dalla lettura dei documenti in appendice all’opera di Visalli.
In essa vi è, infatti, l’elenco nominativo completo dei “perseguitati” a vario titolo (dai condannati a morte ai semplici arrestati) per i fatti del 1847 a Gerace e Reggio: in tutto essi assommano a 1392 persone, ed è bene sottolineare come il succitato elenco sia corredato dell’indicazione del luogo di provenienza o residenza e, in gran parte, di notizie riguardanti posizione sociale, ceto, professione o occupazione di ogni singola persona citata (in realtà in molti casi non è citata l’occupazione, quasi certamente perché trattavasi di elementi appunto senza fissa occupazione).
Già questo primo dato consente alcune valutazioni di rilevante importanza: se, infatti, 1392 furono le persone sicuramente indagate (per ciascuna di esse è possibile produrre il relativo provvedimento giudiziario), non sembra inverosimile affermare che la partecipazione attiva ai moti interessò un numero compreso fra 1500 e 2000 individui.
Naturalmente lasciamo ad altri lo stucchevole esercizio retorico sulla risposta da dare alla domanda se 1500-2000 persone erano da considerare un numero elevato o esiguo: probabilmente la fazione storica avversa, vista bruciata la denigratoria cifra di “poche decine”, si affretterà a confrontare tal numero con la popolazione dell’intera provincia di Calabria Ultra (fra 270.000 e 300.000 unità) per metterne in risalto l’esiguità, mentre l’altra sottolineerà come, visto lo stato primitivo, se non addirittura inesistente, delle infrastrutture e dei trasporti dell’epoca, ad esempio, debba ritenersi quella cifra come assolutamente straordinaria: qui preme soltanto evidenziare, forse per la prima volta, quale fosse la composizione numerica più attendibile del “corpo” degli insorti.
Ancora più interessante appare, poi, l’analisi del dato numerico riferito alla provenienza dei perseguitati rispetto al territorio (v. fig. 1): se, infatti, non deve sorprendere più di tanto la sproporzione fra gli attivisti reggini e quelli geracesi (855 a 421, più del doppio), dovuta sia al fatto che Reggio era senz’altro la roccaforte più importante da conquistare, sia all’imponente esposizione in prima persona di Domenico Romeo, il cui carisma e il cui formidabile e frenetico attivismo riuscì a coinvolgere praticamente l’intero paese d’origine di S. Stefano d’Aspromonte (fig. 2), sia, infine per la mancata partecipazione, per scelta filoborbonica di gran parte degli abitanti, ma anche per l’azione preventiva del Sottintendente Bonafede, della cittadinanza geracese (fig. 3); e se, inoltre, non deve sorprendere nemmeno l’esiguo numero di attivisti della Piana (Distretto di Palmi) rispetto al totale, viceversa il dato più interessante è rappresentato proprio da quel 4% di perseguitati che, sotto la neutra definizione di “Altro” si riferisce alla provenienza dal resto della regione o, anche, da fuori regione.
Premesso che, in molti di questi casi, la persecuzione politica non fu dovuta ad una partecipazione diretta agli eventi, scorrendo l’elenco di quei 59 nominativi, si scorgono figure anche di primo piano nel quadro nazionale della lotta risorgimentale, quali l’Avvocato Carlo Poerio da Napoli, l’avvocato Domenico Mauro da S. Demetrio Corone o il barone Stocco da Decollatura, a fianco di tutta una serie di personaggi che, a prima vista, poco o nulla dicono, se non per il fatto che, evidentemente, c’era in atto tutta un’attività preparatoria e fiancheggiatrice disseminata praticamente in ogni angolo della Calabria.
Non è difficile, cioè, intuire come a Cosenza, Maida, Rossano, Soriano, Stalettì, Pizzo, Monteleone (tanto per citare i casi più concreti) erano attivi dei “comitati” rivoluzionari pronti ad unirsi alla sollevazione, ingrossandone le fila man mano che essa avesse proceduto verso la Capitale del Regno, probabilmente seguendo lo stesso schema percorso 48 anni prima dal Cardinale Ruffo con le sue “truppe” cosiddette sanfediste.
La notazione di maggior interesse in questa disamina risiede nel fatto che ciò stride clamorosamente con una delle accuse mosse da più parti agli insorti del ’47, circa uno spontaneismo “straccione e velleitario”, la cui assoluta e totale mancanza di organizzazione non poteva che portare al fallimento della disperata impresa: anche per questo motivo gli storici si sono, forse frettolosamente, quando non fraudolentemente, affannati a liquidare l’insurrezione come “un fatto tutto sommato di minore importanza, e, quindi, immeritevole di assurgere al ruolo di prodromo del glorioso ‘48”.
Questa contraddizione è resa ancor più evidente se, per un momento, si richiamano alla memoria le modalità della cattura del Bonafede da parte degli insorti del Distretto di Gerace: come è ampiamente documentato, anche per il racconto che ne fa lo stesso Bonafede, la mattina del 3 settembre un gruppo di insorti al comando di Michele Bello intercettò per mare l’imbarcazione su cui si trovava il Sottintendente diretto alla volta di Bianco per rendersi conto di persona del livello di pericolosità dei fatti di cui, attraverso alcune delazioni, aveva avuto sentore.
Ora, se si vuole, si può anche continuare a pensare che l’evento e la conseguente cattura del più importante avversario sia stato frutto di un puro caso, ma sembra assai più logico, senza spingersi a pensare ad una preordinata attività delatoria finalizzata al tentativo di far uscire allo scoperto il capo della polizia distrettuale (ci sembra eccessivo e non supportato da alcuna evidenza documentale), al contrario non sembra poter essere priva di fondamento la supposizione dell’esistenza, in Gerace, di una sorta di “Quinta colonna” in grado di avvertire tempestivamente i Capi della insurrezione delle mosse di Bonafede.
Se ciò, unitamente all’organizzazione pressoché capillare di sostenitori in ogni centro calabrese, giusto quanto rilevato prima, ed all’osservazione che si era riusciti a nascondere accuratamente le numerose riunioni preparatorie della insurrezione alla onnipresente ed onnipotente polizia borbonica, se tutto ciò, dunque, non è prova, più che indizio generico, di organizzazione ed accurata preparazione della insurrezione …
Semmai, si può a buon diritto sostenere che, forse, la pessima dotazione di armi era un chiaro indizio di una pesante falla nell’organizzazione, laddove è possibile ritenere che l’alternativa alla potenza di fuoco doveva essere la partecipazione molto più massiccia.
A ben vedere, però, questa considerazione si presta ad un’altra lettura che, in verità, è ancora in attesa di accertamenti più approfonditi, sulla base di documenti da ricercare magari in quegli archivi inglesi cui sinora nessuno ha ritenuto indispensabile far ricorso: ci si riferisce ad una contraddizione apparente fra il fatto che l’organizzazione dell’insurrezione sia avvenuta in loco (sarebbe una logica conseguenza dell’insufficiente sostegno finanziario ampiamente provabile) ed alcuni chiari indizi che, al contrario, farebbero pensare ad una mente straniera a supporto (l’appartenenza alla massoneria di tutti e cinque i Martiri di Gerace e moltissimi dei capi di Reggio e la straordinaria “coincidenza” della presenza sui luoghi teatro della insurrezione nella Locride di un personaggio inglese di non poca notorietà ed importanza quale senz’altro era Edward Lear).
Per far piena luce su queste ultime ipotesi, però, è bene che qualcuno degli storici “ufficiali” trovi il tempo e lo stimolo per compiere quelle ricerche negli archivi inglesi di cui si diceva sopra.
Al momento, in questa sede, non ci si può che limitare alla segnalazione di uno dei tanti lati oscuri di questa indimenticata (per noi) storia che ancora sono da esplorare.
I partecipanti alla insurrezione – composizione sociale
L’analisi dei dati estrapolati in rapporto all’occupazione dei perseguitati al momento dell’arresto non è meno interessante della precedente, ed, anzi, è anch’essa foriera di elementi fortemente significativi.
La fig. 4, relativa al totale dei soggetti (1392) riguarda la composizione dei 536 soggetti di cui si conosce l’occupazione, evidenziando contemporaneamente come per gli altri 856 nelle carte non è riportato alcun dato di occupazione: con ogni probabilità, come già detto, ciò è interpretabile col fatto che questi 856 soggetti non avessero una fissa occupazione al momento del loro arresto.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di una sorta di sottoproletariato (come si sarebbe probabilmente detto qualche decennio fa, allorquando le analisi sociologiche erano di esclusiva pertinenza di scienziati del sociale di origine e impostazione ideologica marxista) la cui partecipazione ai moti può essere stata dovuta tanto al “miraggio” dei tre carlini al giorno di paga promessa (il dato è accertato per il Distretto di Gerace, non per i partecipanti all’insurrezione nel reggino), quanto alla disperazione per uno stato di miseria estrema che può avere spinto alla ricerca della rivolta come unica speranza di un domani migliore dell’oggi.
Certamente, lo stesso metro di giudizio non può essere applicato nei confronti dei 536 di cui è nota l’occupazione: risalta immediatamente come il ceto medio produttivo (ché tali devono essere considerati anche i “possidenti”, non identificabili col latifondismo parassitario, di provata fede borbonica) rappresenti la maggioranza dei soggetti, assommando a 256 il totale di artigiani (la categoria più rappresentata), possidenti e commercianti.
Molto ben rappresentato il ceto “colto” di professionisti, studenti e impiegati (l’impiego, pressoché esclusivamente pubblico all’epoca, presupponeva il possesso di un qualche titolo di studio) con 139 soggetti, e discreto quello di marinai, agricoltori e braccianti (64).
Ma il dato senza dubbio più impressionante e sorprendente risiede in quei 32 religiosi (sacerdoti e frati) che costituiscono un fatto assolutamente inatteso: è la concreta dimostrazione che se i vertici ecclesiastici non potevano che essere borbonici, anche in virtù di un provvedimento governativo di qualche anno prima che obbligava i vescovi ad una totale devozione alla corona, vincolandoli attraverso l’imposizione all’immediato resoconto ai vertici giudiziari in caso di delitti di ribellione a qualsiasi titolo (obbligo cui, tra l’altro, il vescovo Perrone si attenne con uno zelo forse degno di miglior causa), viceversa in molti casi i parroci si dimostrarono dei pastori veramente vicini alla propria gente, tanto da condividerne un’iniziativa così pericolosa per la propria incolumità.
Addirittura qualcuno, come l’abate Francesco Ruffo, fratello del Martire Gaetano, si spinse oltre, arruolandosi, in seguito, nelle file dei Mille, ed arrivando a conseguire, nel corso della storica battaglia sul Volturno, un diploma sabaudo per l’eccezionale coraggio in battaglia e le spiccate doti di comando (ad ulteriore onore di questo poco conosciuto personaggio, vi è da aggiungere che, conseguita l’Unità d’Italia, egli declinò l’invito di continuare la carriera militare da ufficiale nell’esercito sabaudo, accompagnando il rifiuto con un “l’Unità d’Italia è una cosa, l’apostasia sarebbe tutt’altra”, ritornandosene quindi alla sua originaria missione sacerdotale in Bovalino).
E’ ancora molto interessante anche l’analisi del dato disaggregato riferito all’occupazione dei partecipanti ai moti nel distretto di Gerace (fig. 5 e, per Reggio, fig. 6): anzitutto qui i non occupati scendono dal 66% di Reggio al 56%; inoltre si nota una maggiore incidenza delle occupazioni più basse (marinaio, bracciante, agricoltore), la sparizione degli studenti (logica, non essendovi scuole di alcun tipo nel Distretto di Gerace) e la sensibile presenza dei sindaci sul totale dei soggetti con occupazione nota, a testimonianza che, comunque, intere collettività aderirono, almeno idealmente, all’insurrezione.
La netta sensazione è che la partecipazione attiva nel Distretto di Gerace sia stata in qualche misura più consapevole rispetto a Reggio, connotata come fu da una più elevata percentuale di soggetti che rischiavano maggiormente, in termini di conseguenze in caso di insuccesso.
Al proposito, vi è da far rilevare che, storicamente, l’insurrezione è stata in Calabria ricordata, ed è tuttora ricordata, con riferimento quasi esclusivo ai Martiri di Gerace: la stessa conservazione della memoria collettiva sembra, negli anni, aver avuto maggiore spazio nella locride rispetto a Reggio, dove, almeno apparentemente, oltre all’intitolazione di alcune strade ad alcuni dei personaggi più esposti nell’insurrezione (i fratelli Plutino, il canonico Pellicano, Leonardo Cimino, oltre a Domenico Romeo) poco o nulla si sia fatto o si faccia tuttora per ricordare i quattro fucilati (Domenico Morabito, Raffaele Giuffrè Billa, Giuseppe Favaro, Antonio Ferruzzano), martiri della barbarie borbonica.
In conclusione, un’ultima considerazione ci sembra opportuno rimarcare in ordine alla partecipazione di soggetti religiosi nel Distretto di Gerace: ben 12, quasi tutti sacerdoti, ritennero opportuno elevare lo loro protesta nei confronti del regime borbonico, ad ulteriore smentita, tra l’altro, di quanti hanno voluto a posteriori conferire una incomprensibile connotazione di ateismo al movimento (ricordiamo al proposito che lo slogan più scandito dagli insorti, accanto a “viva l’Italia” ed a “viva la Costituzione”, fu “viva Pio IX”).
Chissà che i malesseri del Vescovo Perrone non siano stati originati proprio dalla constatazione che il suo clero, evidentemente, non era compattamente solidale con la sua visione della storia, procurandogli in tal modo quella “moestitia” che ebbe modo di convertirsi in gaudio in occasione del genetliaco del suo amato sovrano?
Non è dato saperlo: di certo ad un credente risulta che la moestitia è un sentimento che automaticamente insorge in occasione della soppressione di una vita umana, e per la quale è fatto obbligo di coscienza di adoperarsi perché ciò non avvenga.
In caso contrario, il cristiano, solitamente, chiede perdono a Dio non solo per i pensieri, i fatti e per le opere commesse, ma anche per le omissioni; poi, e solo poi, può anche dare a Cesare, se proprio non ritiene di doversi esimere, quello che è di Cesare: ma è proprio in queste “sottigliezze” che, probabilmente, risiede la differenza fra una grande figura e la meschinità, al di là della colpa sulla “grazia reale occultata”, colpa che, personalmente, ritengo che Perrone non abbia.