Il beneficio ecclesiastico e la Calabria
- Pino Gangemi
Il monaco sta seduto sul letto, accanto a quello di mio padre, nell’ospedale di Oppido. Le braccia poggiate su un bastone di legno, curvo come un ombrello di una volta. Il cappuccio calato sulle spalle, la tonaca sbottonata e aperta, magro con il viso scarno e radi capelli bianchi. I due parlano. Non so di che cosa.
Saluto mio padre e saluto il monaco. Mio padre mi sorride, accetta il mio bacio e si rivolge al monaco dicendo poche parole: “È mio figlio, il grande”. Il monaco fa un cenno di saluto e, poi, chiede: “Cosa fa nella vita questo bravo giovane?”. “È all’università di Catania”, sussurra mio padre.
E allora si rivolge a me e mi chiede: “cosa fai all’Università?”.
“Mi sono laureato da poco, in Scienze Politiche, indirizzo storico politico”, aggiungo, per la precisione. “Ho una borsa di studio e sto imparando a fare ricerca”.
Il monaco mi guarda pensieroso e poi passa dal tu al voi: “Cari giovani, studiate il beneficio ecclesiastico se volete capire la Calabria! ... Continuate voi giovani che avete cultura! … Per troppo tempo siamo stati senza Università in Calabria. … È ora di costruire una storiografia calabrese …. Cominciate dal beneficio ecclesiastico!”.
All’inizio, mi sembra strano questo rapido passaggio dal tu al più cerimoniale voi, rimasuglio del nostro essere stati per lunghi secoli Romani e Bizantini. Poi, come un lampo, mi rendo conto che non sta pensando solo a me, ma a tutta la mia generazione di giovani. La cosa mi fa sorridere. Solo che, qualche anno dopo, quando comincio a pensare di seguire il suo invito e cominciare una ricerca sul beneficio ecclesiastico, quel “voi” mi appare profetico e chiaro.
C’è, infatti, un tranello in quel voi del frate, che mi si palesa quando leggo uno dei primi libri sul beneficio ecclesiastico scritto da un grande storico calabrese: Augusto Placanica. Presentando una sua ricerca sulla Cassa Sacra, cioè sui beni delle chiese e dei monasteri del reggino e del catanzarese che sono stati espropriati nel 1784, dopo il Grande Flagello, Placanica sente l’obbligo di chiarire, sin dalle prime pagine: nell’Archivio di Stato di Catanzaro è riscontrabile una quantità enorme di documenti, accatastata talmente alla rinfusa da obbligare a studiare solo una minima parte della documentazione esistente sul beneficio ecclesiastico. Di conseguenza, egli decide di studiare solo i documenti relativi al Distretto di Catanzaro, quattordici comuni in tutto, Catanzaro esclusa.
“Se tanto mi da tanto”, ne concludo pensando al monaco, “ci vorranno veramente generazioni di storici per studiare il beneficio ecclesiastico, ammesso, poi, che l’argomento meriti tanta attenzione”.
Armato di buona lena, decido di seguire l’indicazione di Placanica e concentrarmi su tre soli luoghi:
1) La città di Scolacium, poi Skylletion e infine Squillace, per la sua importantissima funzione culturale (vi è stata fondata dal nobile romano Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore, la prima università al mondo, nel 510 d.C.);
2) Il Santuario di Polsi per la sua importantissima funzione religiosa, ma anche militare, costruito nel luogo di un miracolo di cui non si hanno riscontri certi (vi è chi lo data al 1048, chi ad almeno venti anni dopo, chi al 1144 e chi, addirittura al IX secolo, senza una data precisa);
3) Il Castello di Santa Cristina, per la sua importantissima funzione militare di controllo dell’unica strada che collega il Tirreno allo Ionio nell’istmo della Planitiae Sancti Martini (oggi Piana di Gioia Tauro). La funzione di questo castello, considerato inespugnabile, è stata quella di impedire che l’Aspromonte fosse accerchiato e si costituisse una testa di ponte saracena che permettesse la ripresa dell’avanzata islamica verso Roma e l’Europa centrale.
Ovviamente, decido di cominciare da Santa Cristina, il mio paese. Per scoprire, però, che i documenti della ricca Parrocchia di San Nicola si sono persi (avanzerò una ipotesi, alla fine, su questa sparizione).
Il passo successivo è quello di andare all’Archivio di Stato di Napoli, dove ci sono i censimenti catastali. Trovo, negli schedari, notizia di due censimenti relativi a Santa Cristina (il primo del 1642 e il secondo il Catasto Onciario di un secolo dopo) e di un terzo censimento, nel 1729, interrotto a metà, relativo ai soli proprietari di terreni non residenti nel paese.
Il problema è che il Catasto di Santa Cristina del 1642, dal quale vorrei cominciare, non esiste più, malgrado sia elencato in un vecchio catalogo: “Distrutto! Bruciato dai Tedeschi, durante la guerra!”. Ci sono, però, i registri del Catasto Onciario di Santa Cristina: sono sei e se ne possono visionare due per volta.
Quando arrivano i primi due registri richiesti, basta solo uno sguardo per rendermi conto che sono più di un migliaio di pagine per registro. Ne apro il primo, n. 6218, e trovo, nelle prime pagine, un documento che considero importante: una riunione del Parlamento di Santa Cristina e, due settimane dopo, una seconda riunione per correggere una decisione precedente. Il tutto occupa quattro pagine, due fogli fronte e retro. Comincio a trascrivere, ma la scrittura è così irregolare, con tante parole tronche e moltissime di origine dialettale o di un italiano molto vecchio, che ci metto tre ore a trascrivere tutto.
Mi rendo conto che ci vorranno anni per decifrare tutto quel materiale. Anni che non posso passare a Napoli. Chiedo, speranzoso, quanto costerebbe microfilmare il materiale. La cifra che mi spara l’impiegato a cui mi dicono di rivolgermi è talmente spropositata da costringermi a fare una scorsa rapida al materiale, prendendo appunti solo per ciò che mi è chiaro.
Dopo quattro giorni di lavoro massacrante, me ne vado con circa cinquanta pagine di appunti. So che la ricerca che intendo fare avrà tempi lunghi, anzi lunghissimi e, soprattutto, che il patrimonio delle varie Cappelle di Santa Cristina è, per quanto frantumato in fondi tra un decimo e un terzo di ettaro, molto ingente (centinaia e centinaia di piccoli fondi, molti delle quali affidati alle cure di chierici della Diocesi di Oppido e a quella di Monteleone).
Il passo successivo mi porta all’Archivio di Stato di Catanzaro dove ci sono i dati della Cassa Sacra, istituita per gestire il patrimonio ecclesiastico requisito e venduto per ricostruire i paesi distrutti dal terremoto del 1783. E qui, a Catanzaro, i dati risultanti sono veramente pochi. Ciononostante, malgrado la maggiore quantità di dati si trovi all’Archivio di Stato di Napoli (dove i censimenti riportano tutti i dati dei proprietari laici ed ecclesiastici), gli storici si sono concentrati a studiare i dati, molto inferiori di numero, dell’Archivio di Stato di Catanzaro (dove i registri riportano solo i dati dei proprietari ecclesiastici e solo di una minima parte di essi).
Uno dei motivi di questa “strana” preferenza è la gran mole di dati ricavabili dal Catasto Onciario. Mole che non può essere esaustivamente analizzata dai soli ricercatori accademici. Lo ha perfettamente intuito, nel corso degli anni Settanta, Augusto Placanica che ha, per questo, fondato il Centro Studi Antonio Genovesi cui hanno partecipato vari tipi di ricercatori (accademici, professionisti, insegnanti, bibliotecari o giovani entusiasti interessati a riscoprire le radici del proprio paese). Il Centro Genovesi ha realizzato anche dei propri “Annali” per pubblicare ricerche relative alla realtà salernitana. È a Salerno, infatti, che Placanica ha cominciato a svolgere la propria attività di professore ordinario di storia moderna. E nel salernitano, purtroppo, i dati relativi alla Cassa Sacra non esistono. I due insieme di dati, congiunti, del Catasto Onciario e della Cassa Sacra, danno alla Calabria ex Ultra una occasione storica inesistente altrove, una occasione che i Calabresi non hanno ancora saputo sfruttare.
Il motivo di questa occasione storica non sfruttata è di origine culturale: la funzione che più ha interessato la generazione di studiosi calabresi, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, è quella dell’avere individuato nel periodo della Cassa Sacra il momento del passaggio da un’economia tradizionale, al limite feudale, all’egemonia borghese in Meridione. Lo suggerisce esplicitamente un significativo titolo di uno scritto importante di Placanica: Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria. La privatizzazione delle terre ecclesiastiche, 1784-1815. Il volume in questione è del 1979. In questo e in altri libri, il passaggio dalla proprietà ecclesiastica alla proprietà privata viene visto come un fatto positivo, in termini di contributo alla modernizzazione. Ciò malgrado il confronto tra i dati del Censimento Onciario e quelli della Cassa Sacra mostri che quest’ultima “privatizzazione” è stata, più probabilmente, un latrocinio di beni ecclesiastici.
L’alternativa chiave di lettura che intendo qui proporre presuppone che la Cassa Sacra si inserisca in una linea di continuità, in negativo, che porta, dall’utilizzo del beneficio ecclesiastico come bene comune, al suo utilizzo come strumento di arricchimento per alcune famiglie di notabili locali, al rapido salto nella privatizzazione fraudolenta e parassitaria seguita all’istituzione della Cassa Sacra.
Sulla base di questa alternativa lettura, propongo due diverse ipotesi di lavoro, che qui anticipo in forma sintetica:
1) il periodo 1783-1815 non è il momento cruciale di una modernizzazione possibile che, poi, è fallita in quanto più rilevante di questo momento è stato il periodo della dominazione austriaca del Regno di Napoli, cioè il periodo, ugualmente caratterizzato da fallimento, 1707-1734 (questa seconda tesi sarà trattata in altro scritto);
2) Non sono convinto che la privatizzazione sia la fase fondamentale per la modernizzazione dell’agricoltura e considero più rilevante di questa la fase dell’affittanza lunga allo stesso contadino o alla stessa famiglia di contadini (questa seconda tesi sarà immediatamente trattata nelle parti che seguono di questo scritto).
Una proposta di periodizzazione per lo studio del beneficio ecclesiastico in Calabria Ultra
Ai fini del discorso che ci interessa, l’importanza di Scolacium diminuisce con la costruzione del Castello di Catanzaro. Quindi, lo studio di Scolacium è importante, per capire la Calabria, solo per quello che precede l’Ascendant ad montes, cioè la parola d’ordine che spinge la popolazione, per difendersi dalle incursioni Agarene, a lasciare le coste per le montagne. Dopo di allora, l’importanza sociale del beneficio ecclesiastico è quello che si realizza intorno a questi castelli difensivi. Il beneficio ecclesiastico ha una funzione importante perché diventa uno strumento strategico fondamentale per portare i contadini affittuari delle terre delle Chiese e delle Parrocchie a combattere per la difesa delle famiglie, del loro lavoro che garantisce una qualche forma di promozione sociale e della loro fede. Per questo, possiamo utilizzare, in questo schema, Scolacium come un punto di partenza che ci spieghi come era la Calabria prima che le coste diventassero insicure e il beneficio ecclesiastico fosse finalizzato a una importante funzione religiosa, civile e militare.
A Scolacium, attraverso le Variae di Cassiodoro, si comprende come era l’economia del luogo appena ha cominciato a delinearsi la grande riforma della strategia militare dell’impero romano realizzata nel IV secolo, continuata da Giustiniano (a metà del VI secolo) e portata a compimento da Clemente II imperatore d’oriente alla metà del VII secolo, ma solo per il resto dell’Impero, e impostata dal grande generale Niceforo Foca per la Calabria, alla fine del IX secolo.
A Santa Cristina, studiare il beneficio ecclesiastico significa, di fatto, studiare sia la realizzazione concreta della strategia di difesa calabrese nei confronti, prima, dei Saraceni e, poi, dei Turchi, ma anche, dopo la vittoria di Lepanto del 1571, che rende più sicuri i mari, studiare i processi di arricchimento delle principali famiglie calabresi, per esempio della famiglia Zerbi, con la carica di Protopapa in S. Cristina.
Al Santuario di Polsi, studiare il beneficio ecclesiastico significa trovare conferme sul ruolo fondamentale della religione nella difesa dagli Islamici e, dopo l’abbandono dei monaci di rito greco del Santuario, studiare il ruolo dei nobili napoletani o spagnoli o romani nella gestione delle rendite del Regno da loro conquistato.
Chiariti questi punti che rendono fondamentale il suggerimento del monaco di Oppido, sorgono, però, dei problemi:
a) Come studiare il beneficio ecclesiastico?
b) Quando è diventato socialmente rilevante?
c) Per quanto tempo lo è stato?
d) Quando ha smesso di esserlo?
e) Perché in Calabria è potuto diventare più importante che altrove?
f) Perché più importante che in Sicilia o più importante che nel napoletano?
Quando ho cominciato a cercare di rispondere a queste domande, mi sono reso conto che la domanda contrassegnata con la lettera b può servire a individuare una lenta evoluzione che obbliga a considerare importanti due svolte significative:
1) L’eclissi, per più di un secolo, del potere bizantino in Calabria tra lo sbarco del primo esercito saraceno in Sicilia (anno 740) e l’arrivo del grande generale Niceforo Foca (nell’885). Questo vuoto di potere viene mostrato dal grande storico dell’impero bizantino, Edward N. Luttwak con tre cartine dell’impero bizantino (una rappresentazione del 668, una del 780 e l’ultima del 1025) presentate nel suo libro La grande strategia dell’impero romano.
2) La pubblicazione, a Costantinopoli, con gli auspici dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito, di venti libri di Scriptores rei rusticae o Geoponici: una raccolta delle principali opere di agricoltura, in effetti di economia, dal periodo classico di Roma antica fino a Cassiano Basso (vissuto nel VI secolo) al quale è attribuito il nucleo di scritti più consistenti. Questo ha portato a una discussione tra gli specialisti sul secolo di prima pubblicazione di questa opera importantissima e tradotta in tante lingue: se il X secolo in cui ha governato Costantino VII o se il VII secolo, che è il secolo successivo all’attività di Cassiano Basso. La prima ipotesi, X secolo, indica certamente il periodo della fortuna mondiale dell’opera; la seconda ipotesi indicherebbe il momento della riforma militare, politica e amministrativa dei Themata di Clemente II, imperatore di Costantinopoli, e, di conseguenza, attribuirebbe a quest’opera un ruolo sotterraneo tendente a una ristrutturazione dell’economia con fini strategici e sociali. La seconda ipotesi permetterebbe di affidare ai monaci di rito greco calabresi un ruolo importante, non solo religioso, nel periodo dell’VIII secolo in cui la Calabria è praticamente abbandonata dai Bizantini alle scorrerie e alle tentate invasioni degli Islamici.
3) Il miracolo di Polsi e la costruzione del Santuario che non è databile in modo storicamente certo e che potrebbe essere il X, o l’XI o il XII secolo. Occorre operare una scelta a questo proposito. Scelta che ha queste implicazioni: se il miracolo è avvenuto nel 1048, ha solo anticipato di pochi anni l’arrivo dei Normanni e non ha svolto alcuna funzione sociale in quel processo di difesa dell’Europa che ha svolto la Calabria prima dei Normanni; questo è ancora più vero se si fa risalire il miracolo a venti anni dopo o al 1144, a potere dei Normanni già consolidato. Questa seconda data accrediterebbe la versione, minoritaria e contrastante con i documenti storici e la tradizione, secondo cui al miracolo ha assistito il normanno gran conte Ruggero I o suo figlio Ruggero II, re di Sicilia, di Puglia e di Calabria, i cani dei quali (e non un bue secondo la tradizione più accreditata) avrebbero scoperto la Croce mentre i condottieri normanni avrebbero ascoltato il desiderio espresso dalla Madonna: “Voglio che si erga una chiesa per diffondere le mie grazie sopra tutti i devoti che qui verranno a visitarmi”. La data del 1144 è ricavata da una antica porta del Santuario, ora murata, in cui si legge: Postquam eruit adoravit a. 1144 (Dopo averla dissotterrata la adorò). Nella mia lettura, l’anno 1144 indica la data della costruzione della porta o del Santuario, o di affissione della scritta, non la data del miracolo. Infine, la data del IX secolo, ricavata da una fonte popolare che sostiene che Sant’Elia il Giovane abbia incontrato, nel 901, durante un viaggio a Santa Cristina, il pastorello Italiano ormai vecchio, cioè colui che, secondo la versione più accreditata, ha assistito al miracolo perché è stato il suo torello a dissotterrare la Croce. Quest’ultima ipotesi suggerisce che il Santuario abbia svolto un ruolo importante nella resistenza agli Islamici e che la strana Croce forse non è una Croce, ma è una spada. O meglio, come si è sempre pensato nel Medioevo, se alzata in alto per la punta è una spada, se tenuta bassa con la punta a terra diventa il simbolo della Croce.
4) Vari elementi, sia di natura militare, sia religiosa, sia culturale mostrerebbero che la Calabria ha preso un percorso diverso rispetto al resto d’Italia e d’Europa. Vediamo separatamente i vari elementi:
a) dopo l’invasione di Carlo VIII nel 1494, il Regno di Napoli scopre di essere indifeso dal Nord e, con la costruzione del sistema di fortezze intorno a Gaeta, ha abbandonato di fatto la Calabria alle scorrerie dei Turchi. Le scorrerie continueranno fino alla fine del XVII secolo quando gli Austriaci metteranno sulla difensiva l’Impero Turco;
b) in conseguenza dell’abbandono del Santuario di Polsi da parte dei monaci basiliani di rito greco, anche l’elemento religioso subisce un rapido deterioramento e il beneficio ecclesiastico si trasforma in uno strumento di arricchimento di varie famiglie di notabili locali;
c) mentre la musica e il folclore napoletani evolvono verso ritmi allegri, briosi e testi ottimisti e allegri, musica e folclore calabrese rimane inalterata e tende a mettere a contrasto la bellezza della natura e la difficoltà della vita. Con l’inizio del XVI secolo, a Napoli si sviluppa la Villanella, un nuovo modello di canzone che è ironico e satirico. La canzone calabrese non segue lo stesso sviluppo e rimane legata ai temi tradizionali. Segno evidente, questo, che la Calabria non si aspetta niente di nuovo o di positivo dopo il mutamento di prospettiva realizzatosi, in Napoli e nel resto d’Europa (dove la Villanella diventa una musica popolare) a partire dalla nuova sensazione di potenza originata dalle scoperte geografiche. La Villanella prepara la strada alla Tarantella, che si afferma nel Seicento e in tutto il resto del napoletano, la quale esprime un inno alla vita e alla gioia, una nuova sensazione di ottimismo e un vitalismo molto forte. La cultura calabrese non rimane estranea allo sviluppo della Tarantella, ma la innesta su una struttura di ballo preesistente alla Villanella;
5) Dal 1670 al 1680 c’è un decennio di tentativi di invasione della Calabria da parte dei Turchi. I Calabresi respingono questi tentativi attraverso tecniche di guerriglia. Questo porta i Turchi a cambiare strategia e tentare, nel 1683, la via dell’assedio di Vienna già fallita nel 1529. Anche questa seconda volta, i Turchi vengono sconfitti con le nuove tecnologie militari e una nuova generazione di generali che diventeranno i maggiori del tempo e anticiperanno alcune caratteristiche della guerra “scientifica” di Napoleone. A Vienna si sviluppa il modello militare tecnologico, mentre in Calabria era stato ancora una volta messo alla prova il modello tradizionale (di origine bizantina) di guerra di popolo o di guerriglia. I due modelli di guerra si scontreranno, in Meridione, durante la Rivoluzione napoletana del 1799. Prima con le vittorie dei generali napoleonici, poi con la vittoria di Fabrizio Ruffo e infine nel 1806 con il logoramento dell’esercito francese da parte dei guerriglieri calabresi (nasce, in Calabria, nel 1806-1807 la carboneria). Infine, l’imitazione della guerriglia calabrese porterà gli Spagnoli, dal 1812, alla sconfitta di un esercito francese e all’inizio della fine dell’avventura napoleonica. A parte questo, vari elementi, ricavabili sempre dalla storia del Santuario di Polsi (con il 1730 comincia la rinascita del culto) e di Santa Cristina (si tenta, nel 1729, un censimento delle proprietà detenute o gestite da stranieri non residenti nello Stato locale), fanno capire che gli Austriaci che governano il Viceregno di Napoli dal 1707 al 1734 hanno tentato delle riforme che, a parte gli innegabili risultati religiosi legati al culto della Madonna della Montagna, hanno prodotto scarsissimi risultati. Gli Austriaci avevano capito la funzione importante che il Viceregno e, in particolare, la Calabria, poteva svolgere nella loro lotta contro i Turchi e nel loro desiderio di diventare una grande potenza marittima nel Mediterraneo. Per nostra sfortuna, però, gli Spagnoli, dopo il 1571, diventati la prima potenza marittima del Mediterraneo e dopo la sconfitta, ad opera degli Inglesi, nel 1587, dell’Invincibile Armada, la seconda potenza marittima mondiale, vogliono evitare un nuovo temibile concorrente nel mare Mediterraneo e si sono ripresi il Viceregno di Napoli, dopo solo un quarto di secolo.
Da tutte queste considerazioni, nasce la seguente proposta di periodizzazione per lo studio del beneficio ecclesiastico nella sua funzione politica, militare e sociale:
1) Periodo romano dal IV secolo al VII secolo in cui le terre sono distribuite ai contadini per fidelizzarli alla difesa del territorio.
2) Periodo dei preti agronomi in cui i monaci di rito greco organizzano un modello di agricoltura a (relativamente) forte intensità di lavoro tendente a favorire lo sviluppo di un forte legame tra i contadini e le terre, non ancora quelle di proprietà o in affitto, ma quelle nelle quali lavorano come bracciali (secolo VII-VIII);
3) Periodo in cui, nella difesa della Calabria, i Bizantini sono praticamente assenti (VIII-IX secolo) e i monaci basiliani svolgono un ruolo importante nella resistenza agli Islamici (è probabilmente il periodo in cui nasce il ruolo sociale e militare del beneficio ecclesiastico);
4) Periodo della costruzione di una strategia di difesa in un territorio fortificato: dalla fine del IX secolo (costruzione dei principali castelli, tra cui quello di Catanzaro e di Santa Cristina) all’XI secolo, conquista normanna della Calabria;
5) Periodo del Regno di Napoli, dall’XI, conquista Normanna, al XV secolo (invasione di Carlo VIII) in cui il beneficio ecclesiastico svolge una importante funzione sociale che può essere descritta con riferimento a dei passi delle Sacre Scritture (di questo si parlerà più avanti). Il periodo può essere diviso in due parti:
a) dall’XI, unificazione sotto un solo Regno e fine della minaccia di invasione dalla Sicilia, al XIV secolo quando, tra l’altro, si perde la reputazione di inespugnabilità del Castello di S. Cristina;
b) dal XIV secolo, quando cominciano le notizie sui Protopapa e, presumibilmente, aumenta la loro importanza (forse per l’aumento del numero di benefici ecclesiastici legati alla Parrocchia di San Nicola) alla fine del XV;
6) Periodo del governo spagnolo e dello strozzamento della funzione sociale del beneficio ecclesiastico (XVI-XVII secolo);
7) Periodo del governo austriaco e delle riforme, molte delle quali vengono poi abbandonate (prima metà del XVIII secolo);
8) Periodo del Regno Borbonico che viene interrotto dal terremoto del 1783 che cambia sia la situazione patrimoniale della Chiesa e dei Monasteri, sia l’economia che abbandona definitivamente il modello basiliano (degli Scriptores rei rusticae) basato sulla multi-cultura (vite, frutta, olivo, grano e seta, con il XII secolo) per adottare il modello “illuminista” strutturato sulle grandi monoculture (olivo, soprattutto).
Dal momento che i dati più completi sul beneficio ecclesiastico si trovano nell’ultimo periodo, più o meno quaranta anni prima del Grande Flagello del 1783, che impoverisce tutte le Parrocchie della Calabria Ultra, occorre immaginare che: a) all’inizio di questa periodizzazione il beneficio ecclesiastico non ha ancora alcuna funzione, forse non basta nemmeno al mantenimento dei sacerdoti che vivono dell’obolo o dei contributi dei parrocchiani; b) in un primo periodo, soprattutto a partire dal VII secolo, il contributo che essi offrono è quello della loro competenza di agronomi; c) nell’XI secolo sono tra i protagonisti della rivoluzione sociale che viene realizzata con la coltivazione del baco da seta, etc.
Periodo romano dal IV al VII secolo
Non c’è ancora il beneficio ecclesiastico, ma c’è l’inizio di quella riforma strategica che porta, con il tempo, alla formazione di questo e al suo uso come risorsa per sostituire la funzione dell’Impero dopo l’abbandono di fatto della Calabria da parte dei Bizantini.
Ma cominciamo dall’inizio, dalla riforma strategica del IV secolo che va considerata come operata al fine di difendere una ricchezza che Cassiodoro ci descrive nelle Variae, scritte nel VI secolo.
“Nel corso del IV secolo, le truppe a tempo pieno che avevano esercitato la sorveglianza ai confini in base a una tattica mobile e offensiva, cedettero il posto a soldati-contadini (limitanei), che coltivavano la terra ad essi assegnata e prestavano unicamente una difesa statica e localizzata” (Luttwak 2010, p. 227). Molto del successo di questa nuova strategia dipendeva dalle condizioni generali della società del tempo e dal tipo di controllo sociale che poteva essere esercitato sui limitanei. Ovviamente, un ruolo importante, con l’affermarsi del cristianesimo, viene svolto dalla organizzazione della Chiesa e dai chierici insediati nelle varie località. È questa la funzione (di costruzione di queste condizioni generali e di forme di controllo) che, in Calabria, viene svolta dai monaci di rito greco che sempre più frequentemente si trasferiscono dalle terre occupate dagli Islamici, dopo il 634, cioè dopo lo sfondamento operato ai danni dell’Impero Romano d’Oriente, fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453.
Naturalmente, fino all’inizio dell’invasione della Sicilia, la Calabria non è ancora considerata terra di confine e questo fa presupporre che la situazione economica della Calabria sia ancora quella descritta da Cassiodoro nelle Variae. In questo periodo, la città più importante, talmente importante che in essa viene fondata, dal concittadino Cassiodoro, la prima Università, è certamente Squillace, al tempo nota come Scolacium.
Così Cassiodoro descrive la propria città: “Scolacium gode anche di abbondanza di squisiti prodotti del mare, per i vicini recinti di acqua di mare che sono stati costruiti, che gli abitanti vi hanno costruito: ai piedi del monte Moscio [oggi Punta Staletti], scavando nelle viscere delle rocce vi abbiamo immesso opportunamente le onde del gorgo di Nereo, dove una torma di pesci che guizzano in libera prigionia rallegra l’animo e riempie gli sguardi di stupore”.
In un edificio vicino a questi recinti di acqua di mare si trovava quel faro di civiltà e di cultura che Cassiodoro ha fondato in Scolacium e che ha preso il nome di Vivarium. Di fatto, il Vivarium è stata la prima università, se si va a considerare non tanto la sua organizzazione finalizzata all’insegnamento, ma la funzione della salvaguardia e del recupero della cultura classica.
Ma torniamo alla descrizione della città: “Non si toglie a coloro che vivono in città la vista di coloro che lavorano nei campi. Ci si reca ad ammirare abbondanti vendemmie, si osserva l’operoso calpestio delle aie, si ha anche la visione degli ulivi verdeggianti. Nessuno è privo dell’amenità della campagna e gli è permesso di ammirarla dalla città. La città non ha mura, pare un paese di campagna. La si potrebbe vedere come un podere cittadino e, siccome si colloca tra la condizione di città e la condizione di campagna, è per questo ricolmata di lodi”.
Dai colli intorno alla città, si osservano le piccole colline e la Punta Stiletti, infida alla navigazione, e tutto appare come agreste e pacifico. Persino le rocce alla base della punta, laddove ci sono vivai, ma più in là anche gorghi, e dove spesso vanno a sbattere, durante le tempeste, le navi sfuggite al controllo del timoniere. Tutto sul mare appare, dalle dolci colline intorno a Scolacium, fermo e pacifico e mai si sospetterebbe che, a volte, agitate battaglie si combattono sulle navi quando le onde prendono il sopravvento sul timone.
Tutto, naturalmente, cambia con il 655, anno di una disastrosa battaglia navale (nota come la Battaglia degli Alberi delle navi) nella quale succede qualcosa di incredibile per il tempo: utilizzando marinai ancora cristiani, la flotta islamica sconfigge quella bizantina e comincia l’insicurezza, sia di Scolacium che di tutte le città della Calabria, per tanto tempo ricche e prospere.
Ci spiega, a questo proposito, Luttwak: “Un’agricoltura altamente produttiva avrebbe potuto dar luogo a una notevole prosperità, se fosse stato possibile garantire una sicurezza costante contro il pericolo di invasioni” (2010, pp. 131-2). Il problema, quindi, dopo il 655 e la successiva riforma dei Themata, è quello di come garantire sicurezza costante contro le invasioni degli Islamici.
In questo periodo cambia la strategia militare e anche il modo di costruire i castelli a difesa delle popolazioni delle città: innanzitutto vengono costruiti in cima a delle ripide colline; inoltre, vengono dotate di mura con molti bastioni e una via di fuga. Nel Castello di Santa Cristina, che sarà costruito nel IX secolo su questo modello che comincia a diffondersi nel IV secolo, per esempio, la via di fuga è costituita da un tunnel che, dalla cima della collina, porta alle spalle degli assedianti, per un attacco a sorpresa o per la salvezza degli ultimi difensori.
In questo periodo, con la costituzione di bande di contadini armati, comincia a prendere sempre di più piede e reputazione l’attività delle Fratrie. Con questo termine si intende, al tempo, quella rete di famiglie che hanno ricevuto in affitto (con affittanze lunghe che si trasmettono da padre in figlio) o in proprietà un terreno a condizione che si impegnino a combattere in caso di necessità. La convocazione di ogni Fratria avveniva, su temi di interesse generale, per esempio la sostituzione di una famiglia di affittuari con un’altra o il passaggio di un fondo dal fitto alla proprietà, non solo su temi attinenti alla difesa, con un rituale che, evolvendosi nel tempo, è diventato quello di cui si dice in un documento della Cassa Sacra di poco precedente il terremoto: si affiggevano per tempo dei bandi nel paese e nei suoi casali, si convocava l’assemblea all’ora fissata con ripetuti suoni di campane, si accendeva una candela e si attendevano i ritardatari fino allo spegnimento della candela. Dopo di che si cominciava la discussione.
Questa poteva essere molto animata, ma proseguiva fin quando non si raggiungeva una maggioranza solida e non si otteneva la neutralità della minoranza. Nelle Fratrie, le divisioni erano il male da evitare e tutte le riunioni venivano concluse con tutti i partecipanti che ripetevano la stessa formula: “Io, Gianni Puntureri, vaticale, dichiaro essere ottima la decisione suddetta”. “Io, Francesco Spataro, bracciale, aderisco come sopra” (con riferimento al Puntureri). “Io, Paolo Trimboli, contadino, dico come sopra”. Etc. Seguiva l’impegno a rispettare la decisione presa e il giuramento di eseguirla con lealtà. Non è da escludere che, in questo periodo, anche il Protopapa sia eletto dal popolo, in pubblico dibattito.
Nelle Fratrie, il pubblico dibattito è aperto a tutti e solo più tardi, con i Normanni, quando la Fratria assume la forma istituzionale di Parlamento, all’assemblea di tutti cittadini si sostituisce l’assemblea dei capifamiglia eletti come rappresentanti di tutto il popolo. Ciascuna decisione viene, quindi, annotata nel Liber Parlamentorum e questo affidato a mani fidate, probabilmente un sacerdote in quanto i chierici sono gli unici a saper leggere e scrivere. In questo periodo stanno guadagnando una sempre maggiore reputazione i monaci basiliani, antichi missionari di Cristo, che se ne vanno per le terre dell’Impero a insegnare un po’ di agricoltura a quanti sono stati costretti, dall’insicurezza delle coste, a trasferirsi sui monti. L’ordine dei monaci basiliani è, di fatto, a quel tempo, un ordine di contadini letterati che introduce l’agricoltura tra i monti. Essi si muovono, frequentemente, tra le montagne con alla cintola un’ascia, o un piccone e vari sacchetti di semi. A volte, trasportano anche la pece che serve a coibentare i tetti delle povere abitazioni di pietra e rami.
Il Periodo dal VII all’VIII secolo
Dopo la disastrosa Battaglia degli Alberi (delle navi) ci sono degli anni di tregua. Questa tregua, dal 659 al 661, ha permesso di organizzare la struttura militare e amministrativa dei Themata. È stata questa nuova organizzazione dell’esercito e dell’Impero che ha permesso a Bisanzio di fronteggiare meglio l’offensiva Agarena. Thema significa dislocazione. I singoli eserciti non sono più centralizzati come li ha ancora Eraclio I al tempo della prima offensiva Agarena (l’anno in cui viene sconfitto nella battaglia del fiume Yarmūk è il 636). Le truppe dei Themata diventano i diversi eserciti che vengono dislocati in precisi territori dell’Impero e sono comandati da uno strategos. Secondo alcuni storici, questa riforma viene portata a termine, con l’imperatore Leone III, nella prima metà dell’VIII secolo, proprio nel periodo in cui la Calabria viene, di fatto, abbandonata a se stessa e lasciata a difendersi da sola.
La riforma militare è anche una riforma amministrativa perché si chiede che ogni Thema finanzi con le proprie tasse il proprio esercito. Viene creato anche un Thema karabisiano per indicare la flotta navale, anch’essa resa finanziariamente autonoma. L’esercito viene, ovviamente, ridotto e si passa da 150.000 uomini, prima delle conquiste agarene, ad 80.000. Ciononostante, queste truppe, per quanto ridotte, sono comunque tante per le ridimensionate capacità finanziarie dell’Impero. Il sistema dei Themata viene attivato per pagare i soldati con delle terre, oltre che con il poco denaro ricavabile dalle tasse. Le proprietà imperiali vengono dismesse e concesse ai soldati. Inoltre, viene richiesto agli stessi soldati di provvedere da soli alle spese per le armi, per le uniformi, per il foraggio e per i cavalli. Questo trasforma le truppe in meno professionali e più stanziali e finalizza l’efficienza dell’esercito alla capacità di iniziativa e di partecipazione attiva dei cittadini. Inoltre, i soldati vengono responsabilizzati dalla consapevolezza di dover difendere non solo l’Impero, ma anche le loro proprietà e il futuro dei loro figli. Lo stesso modo di combattere viene radicalmente mutato: i soldati possono fuggire dopo una sconfitta o anche per evitare uno scontro, ma tornano sempre dopo che gli invasori se ne sono andati o hanno ridotto i loro organici per portare l’offensiva su altri territori. I Themata producono il risultato che, da allora in poi, se anche riescono a conquistare territori dell’Impero, gli Agareni non riescono a mantenere a lungo il controllo di questi territori.
Dopo la sconfitta del 655, Costante II si rende conto che senza il controllo del mare, l’Impero è destinato ben presto a perire e che per questo controllo del mare è necessario che si riorganizzino i territori dell’Anatolia e quelli marittimi al centro del Mare Nostrum, in particolare, Sardegna, Sicilia, Italia Meridionale. Nei suoi piani c’è anche la conquista di Roma e la riunificazione dell’Italia in modo da ripristinare il contatto tra i territori dei Balcani e quelli della penisola italica, che intende conquistare con l’aiuto dei suoi alleati, i Franchi. Ma questa seconda parte dell’impresa non gli riesce, anche perché disgusta gran parte degli Italici del tempo che si vedono costretti a pagare più tasse per realizzare questo disegno. Finisce che viene ucciso a Siracusa nel 668. Con lui finisce il sogno della riunificazione dell’Italia sotto il comando bizantino. Tra le altre cose si dice che avesse in mente di riportare a Roma la capitale dell’impero.
La riforma dei Themata riguarda l’Anatolia di sicuro, ma non si sa se abbia riguardato anche l’Italia. Forse ci ha provato, ma senza grandi risultati, date le forti resistenze locali. Vi è ancora adesso chi sostiene in Calabria che Costante II ha saccheggiato Reggio e altre città dell’Italia meridionale. È probabile che abbia fatto togliere il metallo più prezioso, dall’oro al bronzo, dagli edifici pubblici e se ne sia servito per finanziare eserciti che realizzassero i suoi disegni. Ha anche aumentato, in modo considerevole, le tasse e anche questo ha contribuito al fallimento della sua politica.
È in questa fase che i Calabresi spostano le loro aspettative di difesa dal potere politico, troppo lontano essendo Costantinopoli, con di mezzo un mare sempre più insicuro per la crescente potenza della flotta islamica, al potere religioso che elabora una strategia alternativa modellata, in parte, sulla struttura dei Themata.
È per questo che è importante sapere se i venti volumi degli Scriptores rei rusticae siano stati composti e diffusi nell’VIII o nel X secolo. Piuttosto che scegliere tra le due ipotesi, si può ipotizzare che l’impresa di raccogliere e armonizzare gli scritti più importanti di agricoltura (di fatto l’economia dei secoli precedenti, dal periodo classico al VI-VII secolo, e la loro traduzione in greco) sia stata un’impresa che ha coinvolto vari monasteri e sia durata diversi decenni. Probabilmente, si è trattato di un’opera collettiva che è cresciuta lentamente nel tempo, per il bisogno di raffinare una strategia di costruzione di un’economia adeguata a supportare la riforma dei Themata. Ma niente impedisce che questi testi di economia siano stati utilizzati o costruiti anche nel centro culturale più importante della Calabria, i monasteri di Skylletion. In questo caso, i monaci potrebbero essersene serviti per imitare spontaneamente la riforma dei Themata che veniva realizzata altrove, ma non ancora in Calabria. Se questo è vero, è in questi due secoli che i monasteri calabresi cominciano ad utilizzare il beneficio ecclesiastico al fine di fidelizzare le famiglie di combattenti a una strategia militare di difesa attraverso le tecniche della guerriglia.
È in questo periodo di graduale abbandono della Calabria da parte dei Bizantini che i preti calabresi cominciano a svolgere la loro funzione sociale consistente nello studiare i trattati di agricoltura, operare sperimentazioni nei loro orti e nei loro terreni e diffonderli alla popolazione. La loro funzione, in questo periodo è quella che molto tempo dopo li porterà ad essere definiti “preti agronomi”. All’inizio di questo periodo non possono fare di più. Ma siccome la loro funzione diventa importante fattore di sicurezza per tutti, questi stessi monaci cominceranno a ricevere donazioni e lasciti testamentari che essi utilizzeranno per fidelizzare, attraverso affittanze lunghe, le famiglie dei combattenti per la fede e contro i tentativi di invasione e le scorrerie degli Islamici.
In questo periodo, la funzione della lotta di resistenza è talmente importante che donazioni e lasciti sono, più numerosi, a favore di quegli istituti religiosi più impegnati nella fidelizzazione dei combattenti. Come mostrerò più avanti, è destinato a diventare molto ricco proprio il Santuario di Polsi e, in minor misura, anche la Parrocchia di San Nicola di Santa Cristina. Per quest’ultimo paese, la ragione è ovvia: l’esistenza del castello documentata dal 901 in poi. Per quanto riguarda il Santuario, la ricchezza dello stesso sembra poco consona, per quanto si dirà più tardi, a una data del miracolo troppo tarda (per esempio il 1144).
Nel periodo bizantino, il beneficio ecclesiastico cresce, secondo questa ipotesi, a mano a mano che cresce l’impegno delle popolazioni nella lotta contro gli Islamici. Nel periodo in cui questa minaccia si è andata ridimensionando, quelle stesse ricchezze terriere sono state oggetto delle mire delle classi dirigenti più rapaci e parassitarie. E allora il problema diventa: se il miracolo di Polsi si realizza nel 1144, la ricchezza del santuario quando si è formata? Nei tre secoli e mezzo tra il 1144 e il 1481 (data dell’abbandono del Santuario da parte dei monaci basiliani)? Considerato che, con l’abbandono dei monaci di rito greco, la devozione al Santuario praticamente finisce, per riprendere solo nel XVIII secolo, quale è stata la funzione che hanno svolto i monaci basiliani del Santuario che ne ha prodotto l’enorme ricchezza in un territorio che va dal Tirreno allo Ionio? Questo ci collega al solito interrogativo: una Croce o una spada o entrambe le cose quella del miracolo di Polsi?
Il periodo in cui i Bizantini sono praticamente assenti (VIII-IX secolo)
Gli imperatori della dinastia Isaurica, periodo 717-802, hanno avuto i loro problemi: a parte il fondatore della dinastia, Leone III l’Isaurico, un generale che ha usurpato il trono nell’anno del secondo assedio islamico di Costantinopoli (considerando incapace alla funzione l’imperatore Teodosio III) e che muore di vecchiaia nel 741, nessuno degli altri è morto nel suo letto e ne hanno fatte e ne sono successe loro di tutti i colori: Costantino V, detto con disprezzo il Copronimo, viene spodestato da Artavasde, riprende dopo poco più di un anno la carica e muore in una battaglia contro i Bulgari; Leone IV il Cazaro muore dopo cinque anni di governo per una congiura di palazzo; Costantino VI il Cieco, figlio di Leone IV, viene fatto accecare dalla madre Irene, l’Ateniana, che ne usurpa il trono; Irene viene, a sua volta, spodestata dopo sette anni di governo e con lei finisce la dinastia.
Né i problemi diminuiscono con la dinastia successiva, la nifeforiana, periodo 802-813: Niceforo I, detto il Generale Logoteta, viene fatto decapitare dal Khan bulgaro Krum che lo ha sconfitto in battaglia, dopo nove anni di governo; suo figlio Stauracio, ferito gravemente nella stessa battaglia in cui è morto il padre, abdica a favore del cognato Michele I, dopo aver tentato, per qualche mese, di consegnare il governo alla moglie; Michele I, detto Rangabè, viene spodestato da un suo generale, Leone detto l’Armeno, dopo due anni di governo.
Leone V, l’Armeno, viene ucciso in una congiura di palazzo dopo sette anni di governo.
La dinastia amoriana, periodo 820-867, non è da meno delle precedenti: a parte Michele II, detto Il Balbo, che muore di vecchiaia dopo nove anni di governo, Teofilo, detto Saracenophron per essere stato il più filoarabo degli Imperatori, figlio di Michele II, muore di una malattia tredici anni dopo, e suo figlio, Michele III, detto l’Ubriaco, viene assassinato da una congiura di palazzo guidata dal fondatore della dinastia macedone, Basilio I. Questi, e i suoi successori, periodo 867-1057, costituiscono una grande dinastia che darà impulso a un periodo di grande ripresa dell’Impero. È con la dinastia macedone che l’Impero torna ad esercitare un effettivo controllo politico dei territori della penisola italica, a cominciare dalla Calabria. È, infatti, proprio Basilio I, un anno prima di morire, a mandare in Italia il grande generale Niceforo Foca, che viene poi richiamato da Leone VI il Saggio, figlio di Basilio morto per un incidente di caccia, quando si profila di nuovo il pericolo bulgaro.
Si spiega così come e perché la Calabria viene lasciata a se stessa per 170 anni (dal 717 all’885). Quanto a quello che succede in Calabria in questo periodo, si possono fare solo delle ipotesi e queste ipotesi sono diverse a seconda che si accetti la tradizione popolare secondo cui il miracolo della Madonna di Polsi è avvenuto verso la metà del IX secolo, o sia avvenuto nel 1048 o, infine, nel 1144.
Lo storico Luttwak mostra con tre diverse raffigurazioni dei territori dell’Impero il periodo, lungo ma provvisorio, perché i Calabresi riescono a resistere all’invasione islamica, in cui, sicuramente al 780 d.C., la Calabria non è più sotto il controllo di Costantinopoli.
Come si è già detto, i Calabresi, per secoli, fanno da soli e i loro sacerdoti utilizzano il beneficio ecclesiastico per fidelizzare i combattenti, pratica questa che comincia a diffondersi nel IV secolo e che viene istituzionalizzata nel VII secolo, con le riforme dei Themata. Infine, questa pratica viene inserita in una adeguata visione strategica con l’arrivo di Niceforo Foca, senza il quale la resistenza non avrebbe avuto molte speranze di successo.
L’idea che si diffonde in questi secoli, in cui i Bizantini sono praticamente assenti nella difesa della Calabria e i Calabresi devono difendersi da soli di fronte alle scorrerie e ai tentativi di invasione islamici, è quella secondo cui una comunità timorata di Dio sia in condizioni di cogliere naturalmente e da sola il premio della gloria divina, un premio da condividere tra tutti su questa stessa terra prima di condividerlo dopo la morte al cospetto di Dio e di tutti i santi. Questa idea era comunemente diffusa tra i calabresi dell’VIII e del IX secolo. Essi pensavano che il premio che sarebbe stato goduto sulla terra era anche il premio della sicurezza riconquistata, quella sicurezza di cui avevano goduto durante l’Impero Romano d’Occidente e, dopo la sua caduta, con la riconquista di Giustiniano e il loro inglobamento nell’Impero Romano d’Oriente. Questa idea la consideravano garantita dalla particolare predilezione della Madonna di Polsi (Madonna dei Poveri, secondo alcune interpretazioni, sarebbe il significato del nome). La Madonna non sarebbe apparsa a chierici, a monsignori o a vescovi, o a pellegrini che tornavano dalla Terra Santa o a sovrani come il Gran Conte Ruggero che di miracoli di madonne assistette ad almeno due (una Madonna apparsagli a Palermo mentre assediava la città tenuta dagli Islamici e la Madonna del Castello che impediva i lavori di costruzione di un castello con un suo quadro sepolto sotto terra), ma era apparsa a un semplice giovane pastore, di nome Italiano. Questa idea che una comunità timorata da Dio possa ricevere sulla terra il premio della propria devozione, si è diffusa in quei secoli detti oscuri ed è stata universalmente condivisa fino al Rinascimento.
Periodo della resistenza in un territorio fortificato (IX-XI secolo)
Relativamente a questo periodo, va considerato che, se è vera l’ipotesi che S. Elia, nel 901, a S. Cristina, abbia incontrato il pastore Italiano, quando questo era diventato vecchio, il miracolo di Polsi deve essere datato alla metà del IX secolo, quindi trenta o quaranta anni prima dell’arrivo del grande generale Niceforo Foca che porta un validissimo aiuto militare e riporta la Calabria sotto il controllo effettivo dell’Impero. Poi, però, arriva la minaccia dei Bulgari in territori più vicini a Costantinopoli e Niceforo Foca è costretto ad andarsene senza avere concluso il proprio lavoro, che implicava anche la liberazione della Sicilia (il grande generale si spinge, con una flotta, fino a Palermo per cercare di riconquistarla e viene richiamato mentre è impegnato in questa impresa).
Andato via Niceforo Foca, gradatamente, il controllo strategico militare della Calabria si va perdendo. Il fatto che la città di Sant’Agata (la città prenderà, nell’XI secolo, il nome di Oppido) nel X secolo (nel 921/922 e nel 977/978) sia stata conquistata due volte dagli Agareni, più il lungo elenco di conquiste saracene, mostra che la Piana di Gioia è stata sotto il controllo degli Islamici per gran parte di quel secolo. L’arrivo di Niceforo Foca in Calabria nell’885 migliora la situazione, ma solo perché vengono costruite fortezze. La situazione migliora, quindi, solo nelle montagne e dovunque sia possibile organizzare la guerriglia. Rimane il fatto che i Calabresi debbono continuare a cavarsela, il più delle volte, da soli. Questo dura, di fatto, per oltre tre secoli: dal tempo delle prime teste di ponte in Sicilia che sono stabilite tra il 720 e il 731; dopo che un primo e un secondo esercito islamico sbarcano nell’isola nel 740 e nel 753; dopo l’arrivo di Niceforo Foca, nell’885; fino all’arrivo dei Normanni nel 1059 (data della conquista di Reggio con cui la Calabria si può considerare interamente sotto il controllo normanno).
Il problema che creano autorità amministrative e militari inadeguate a garantire la sicurezza è che, soprattutto, bisogna trovare un’altra guida che sia credibile per convincere le popolazioni a combattere. Il fatto che questo impegno a resistere sia riuscito a durare per tre secoli e più, fa capire che si è assunta questa funzione un’autorità molto credibile, che fonda il potere di persuasione nella fede. Ed è in nome della fede, attraverso sacerdoti e frati di rito greco, che la popolazione calabrese rimane mobilitata in una strenua resistenza per tutto quel tempo.
Inutile dire che un’operazione di questo genere è culturalmente molto complicata, anche perché, per le popolazioni calabresi del tempo, l’Imperatore di Bisanzio è il rappresentante di Dio sulla terra, in quanto sovrano per grazia divina. La necessità di fare a meno di un’autorità politica di diritto divino non è operazione semplice e richiede una complessa operazione culturale di rilettura delle Sacre Scritture.
Un documento più o meno del tempo suggerisce il modo in cui questa operazione culturale è stata condotta. Il documento è il Bios di Sant’Elia il Giovane. Questo santo muore nel 903 e si ritiene che la sua vita sia stata dettata dal suo principale discepolo, il monaco Daniele. Quindi, la sua biografia sarebbe stata scritta più o meno nel 930, nel mezzo di questo periodo di ricostruzione di una cultura politica finalizzata alla resistenza agli Ismaeliti. Non a caso, la strategia proposta viene descritta proprio nelle due pagine dedicate a Reggio Calabria, a Santa Cristina e a un colloquio con il comandante della flotta navale bizantina, Michele che è stato strategos di Calabria e deve combattere gli Agareni.
Le tre situazioni descritte una dopo l’altra sono da considerare come degli idealtipi: Reggio rappresenta l’idealtipo della città destinata a essere conquistata dagli Islamici; S. Cristina rappresenta la città che, con la costruzione del castello appena realizzato, si muove nella direzione delle resistenza, non dell’offensiva, in nome della fede; Michele rappresenta l’uomo che deve combattere e sconfiggere gli Agareni andando all’offensiva.
Reggio: al santo viene rivelata, con una visione che ha mentre sta pregando, l’imminente distruzione di Reggio (che avverrà un anno dopo il sogno). “Come il profeta Giona, mandato da Dio ai Niniviti preannunciò loro il messaggio della minaccia del divino Castigo, così anche a questi Reggini: ma, mentre i Niniviti arrivarono a pentirsi a tempo e sfuggirono all’ira, i Reggini, poiché serrarono le loro orecchie e non acconsentirono al pentimento, cui erano invitati dal divino padre, si procacciarono le sventure per le loro colpe e alcuni furono fatti prigionieri e altri perirono di spada” (Rossi Taibbi 1962, pp. 64-5).
S. Cristina: Elia e Daniele “rivolsero esortazioni intorno alla penitenza, alla temperanza e alla carità, furono ascoltati e procurarono un duplice vantaggio agli abitanti; e infatti essi da una parte si allontanarono dai vizi e dall’altra si serbarono incolumi dai nemici, perché Iddio veramente di un grande soccorso gratifica il pentimento di coloro che sono in pericolo” (Rossi Staibbi 1962, p. 65).
Michele: questi chiede “di conoscere per divina illuminazione se il Signore avrebbe guidato felicemente il suo cammino e se egli avrebbe vinto i nemici” (Rossi Staibbi 1962, p. 65). Il santo gli manda a dire che deve purificare il popolo suo, come Dio ha comandato a Mosé. Il passo cui si riferisce il santo è il passo in cui Dio dice a Mosé di far purificare il popolo, persino attraverso il lavaggio delle vesti. La prassi della purificazione fa riferimento a un importante fatto psicologico, prima che religioso: purificare il nostro corpo, purificare quello che indossiamo e persino purificare quello che ci circonda, a cominciare dalla cucina e da tutta la casa, è sempre una premessa per ottenere il risultato di avere purificata anche la mente.
Purificare la mente in un contesto in cui si deve dire: segui le indicazioni dei chierici e dei monaci e non seguire più l’indicazione del sovrano legittimo, troppo lontano o assenteista. Per ottenere risultati, non basta dire le cose, ma occorre rileggere per intero le Sacre Scritture evidenziando i passi più adeguati a questo scopo. Come si vede dalle citazioni di Giona e di Mosé, questi passi sono preferibilmente quelli del Vecchio Testamento.
Per capire questo tipo di operazione, occorre valutare il tipo di lettura politica che ha tradizionalmente ricevuto il Vecchio Testamento. Questo è stato letto e si può ancora leggere come un testo di filosofia politica. Pratica di lettura che è continuata fino all’Illuminismo e che è ritornata in auge da circa mezzo secolo: da qualche decennio, infatti, è stata riproposta da molti studiosi di politica. La persona che ha più influenzato questa rilettura è stato il più importante teorico del federalismo mondiale, Daniel J. Elazar. Questi ha proposto di interpretare la Bibbia, e in particolare il Libro di Giosuè, come un testo di filosofia politica (Elazar 1989). Non è stato l’unico a ritornare a questo recupero filosofico, più che religioso, e nemmeno il primo. È stato solo il più convincente.
A partire dagli anni Settanta, si opera una vera e propria rivoluzione paradigmatica che rimette in primo piano l’interpretazione delle Scritture.
Yorum Hazony, nel 2004, descrive e spiega lo stato della storia delle dottrine come si è andato sviluppato nel precedente terzo di secolo. Egli sottolinea che, malgrado molti autori classici ineliminabili da ogni storia delle dottrine politiche, da Bodin fino a Rousseau e non solo, avessero tratto ispirazione dalla Bibbia per la loro riflessione filosofica (vedi i maggiori: Bodin, Grotius, Hobbes, Hurlington, Locke, Rousseau, ma anche il nostro Vico, e altri), nei manuali di storia delle dottrine politiche, come quello famosissimo e adottatissimo nelle Università occidentali, di George Sabine, è stato omesso ogni riferimento al pensiero politico precedente ai presocratici greci. Lo stesso anche per manuali scritti con intenti innovatori della disciplina rispetto a Sabine, per esempio nei manuali cui hanno collaborato studiosi come Leo Strauss e Sheldom Wolin.
Il tentativo di Leo Strauss di rileggere la storia delle dottrine politiche occidentali consiste sostanzialmente nella contrapposizione tra Atene e Gerusalemme, la prima interessata alla costruzione del miglior tipo di sistema politico (monarchia, aristocrazia o democrazia), con le relative degenerazioni (tirannide, oligarchia o demagogia), e alla ricerca della migliore sintesi possibile delle qualità migliori di ogni sistema politico, mentre la seconda è interessata alla qualità del rapporto tra governanti e governati.
Raccontandola in altri termini, mi permetto di sottolineare che il riferimento alla filosofia politica greca contrassegna, per tutti gli studiosi della politica, il riferimento alla centralità accordata alla dimensione orizzontale della politica (la contrapposizione tra destra e sinistra, tra governo di uno, di pochi e di molti), mentre il riferimento alla filosofia politica ebraica (e al Vecchio Testamento) segna la centralità della dimensione verticale della politica (la ricerca della virtù e della moralità dei governanti e dei governati).
Elazar ha presentato un elenco dei filosofi maggiori che hanno considerato il Vecchio Testamento come un testo di filosofia politica: Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico (1670); John Locke, Primo trattato sul governo (1689); Hans Kohn, The idea of Nationalism (New York, MacMillan 1961); Eric Voegelin, Israel and Revelation (Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1957); Michael Walzer, Exodus and Revolution (New York, Basic Books, 1985); Aaron Wildavsky, The Nursing Father: Moses as Political Leader (Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1984). Elazar non poteva sapere che quattro anni dopo questo suo elenco, Wildavsky (1993) avrebbe pubblicato un secondo libro di studi biblici dedicato a Giuseppe, amministratore del Faraone in Egitto, e che avrebbe lasciato incompiuto, alla morte, un terzo libro dedicato al re Davide.
Cercheremo di presentare questa lettura del Vecchio Testamento, con attenzione al problema specifico che hanno avuto i chierici calabresi negli ultimi tre secoli del primo millennio e metà del primo secolo del secondo millennio per sostituire la loro guida a quella di un re, per volontà divina, che non può più intervenire o che non è capace di farlo. Di passi che trattano questo argomento ce ne sono tanti. I principali si trovano nei seguenti libri:
1) Deuteronomio;
2) Giudici;
3) Primo Libro dei Re o di Samuele;
4) Secondo Libro dei Re o di Samuele;
5) Primo Libro dei Paralipomeni o delle Cronache:
6) Secondo Libro dei Paralipomeni o delle Cronache.
Nello scrivere su Reggio, S. Cristina e Michele, Daniele mostra che Sant’Elia sta citando Il primo Libro dei Re o di Samuele 12, 13-14-15: “Ora dunque eccovi qui il vostro re, che voi avete scelto e domandato: ecco che il Signore vi ha dato un re. Se temerete il Signore, e lo servirete, e ne ascolterete la voce e non irriterete la bocca del Signore; voi e il re che regna su di voi seguirete il Signore Dio vostro; ma se non darete ascolto alla voce del Signore, e contrarierete le sue parole, la mano del Signore sarà sopra di voi [come lo fu] sui padri vostri”.
Che fare in questo secondo caso o nel caso in cui il re diventa assente? Anche su questo ci sono varie indicazioni che possono essere ricavate dal Vecchio Testamento (quelle che seguono sono le citazioni utilizzate da Althusius, nel suo testo Politica, con riferimento al caso di città che si organizzano autonomamente, in forma federalista, rifiutando il rapporto di subordinazione a un’autorità superiore).
Il problema da cui si parte è quello presentato nel Primo libro dei Re o di Samuele, cap. 20: Davide si deve nascondere da Saul, sovrano legittimo, e fa delle alleanze con altri, a cominciare dal figlio di Saul. Nel Primo Libro dei Paralipomeni o delle Cronache, cap. 12, si descrive il processo di costruzione del consenso e del nuovo popolo attorno a Davide che si realizza durante lo stesso Regno di Saul, anche se Davide non utilizza questo consenso per attaccare Saul, ma per difendersi.
Primo libro dei Re o di Samuele, capp. 23; 24, 7-8; 26, 9-11: in questi passi si racconta di un ruolo già da re che svolge, senza potersi fidare della solidarietà di coloro che soccorre. Infatti, va in aiuto di una popolazione, da cui poi fugge perché Dio gli rivela che verrà tradito. Infine, ha due occasioni per uccidere Saul e non lo fa perché non si può toccare l’unto del Signore, cioè il sovrano legittimo. Anche se si ha la benevolenza del Signore dalla propria parte, e si è stati di fatto designati come nuovo futuro re, si deve aspettare che Dio faccia morire il sovrano in carica per rivendicare la successione.
Secondo libro dei Re o di Samuele, capp. 2, 3-4; 5, 19-20: Davide viene legittimato attraverso la formale accettazione di tutte le tribù d’Israele. Dopo di che, egli diventa il nuovo unto del Signore, autorizzato dal Signore a passare all’offensiva, nei confronti di tutti coloro che non ne riconoscono l’autorità, e non solo a restare sulla difensiva.
In Giudici 20, l’intero capitolo racconta di una battaglia intestina alle tribù, che viene autorizzata dal popolo radunato in assemblea, cioè in Parlamento. È in questa fase che si struttura il primo nucleo di Parlamento locale, che acquista questo nome con i Normanni, mentre al tempo dei Bizantini ha il nome di Fratria, in quanto si fa riferimento al fatto che le tribù di Israele prendono il nome da dodici fratelli e nel caso descritto dai Giudici si riuniscono in assemblea le tribù di undici fratelli (quella di Beniamino esclusa in quanto è contro di questa che si deve combattere). Il popolo riunito in assemblea viene gratificato dalla Parola del Signore che incoraggia a combattere, malgrado due sconfitte, fino al terzo scontro vittorioso e definitivo. Questo passo serve a legittimare la teoria politica secondo cui sovrano è il popolo, riunito in assemblea, e il capo che l’assemblea si sceglie diventa il rappresentante del popolo sovrano, cioè sovrano in seconda istanza, con il popolo che è sovrano in prima istanza. Ma è il popolo che paga le conseguenze degli errori del re (Primo Libro dei Papalipomeni o delle Cronache cap. 21) perché il popolo è il sovrano di prima istanza.
Infine, in Deuteronomio 20, 1-2, si trova l’indicazione che è il sacerdote che si mette davanti all’esercito e incita alla battaglia. È il sacerdote che deve guidare il popolo in assenza del sovrano.
Manca in questi autori cristiani, invece, la soluzione del Vecchio Testamento per il caso in cui il re sbaglia, ed è il Profeta, cioè il sacerdote che ha un largo seguito presso il popolo, che, nel nome del popolo, può anche disconoscere la sovranità del re. Gli Ebrei non hanno una chiesa con una funzione organizzativa così rigida come quella cristiana e, quindi, il Profeta può andare contro tutta l’organizzazione religiosa, normalmente dalla parte del sovrano legittimo.
Il caso di Santa Cristina mostra la soluzione cristiana di questo problema di crisi di legittimità che, per gli Ebrei, viene affrontato attraverso l’emergere del Profeta: per i cristiani, nessuna sostituzione di ruoli nelle funzioni politiche può essere spinta fino a contestare o sottrarsi all’autorità del sovrano e nemmeno del Papa: il sacerdote che deve guidare la lotta in nome della fede ha bisogno di essere autonomo, ma non svincolato dall’autorità della Chiesa (e deve comunque agire nel nome dell’Imperatore). La soluzione che si afferma, prima nella pratica e poi sul piano formale, è quella di rendere autonomo il sacerdote dal Vescovo, troppo vicino, e lasciare lo stesso sacerdote direttamente subordinato al Papa, molto lontano (e formalmente all’Imperatore ancora più lontano, soprattutto assente). Viene, così, costruito il ruolo di Protopapa (questo è il significato del termine e del ruolo). Il Protopapa di Santa Cristina viene, inizialmente, eletto dalle Fratrie. Egli distribuisce le proprietà della Parrocchia, costruite con donazioni e testamenti, direttamente ai membri più influenti delle Fratrie (che sono anche coloro che guidano la lotta di resistenza). In una seconda fase, quando le proprietà diventano molte, queste vengono affidate ai sacerdoti che le distribuiscono alle famiglie di combattenti. In questa seconda fase, sono probabilmente i sacerdoti che si scelgono i Protopapa come loro primus inter pares. Solo quando perde del tutto la propria autonomia, il Protopapa viene nominato dal Vescovo. La data in cui avvengono questi mutamenti (Protopapa eletto dal popolo, poi eletto dai chierici, poi nominato dal Vescovo) non è, ovviamente, nota.
Periodo del Regno di Napoli, dall’XI secolo, conquista Normanna, al XV
In un contesto in cui il sovrano è considerato un unto del Signore e in cui i Normanni devono sostituirsi a un sovrano legittimo riconosciuto da quasi un millennio, sorge il problema per i nuovi conquistatori normanni di come legittimarsi come nuovi unti del Signore.
Si mette all’opera con determinazione il gran conte Ruggero. Nella battaglia di Cerami, per sua fortuna, San Michele Arcangelo si mette a capo delle truppe normanne e le porta alla vittoria. Nella battaglia per la conquista di Palermo, durante l’assedio che si rivela lungo e difficile, si diffonde una pestilenza tra i Normanni e il conte Ruggero si rivolge alla Madonna. Questa gli appare e gli rivela il rimedio per sconfiggere il morbo. È il miracolo della Madonna dei Rimedi, avvenuto nel 1064. Qualche anno dopo, Ruggero fa erigere un tempio dedicato alla madre di Dio e di misericordia. E con questo sono due i miracoli ai quali assiste e dai quali è favorito. Ma siccome, come si dice, non c’è due senza tre…
Nel 1090, in Calabria Citra, in una zona in cui ci sono ancora forti resistenze nei confronti del nuovo governo normanno, il conte Ruggero decide di costruire un Castello, esattamente a Castrovillari, oggi provincia di Cosenza. Durante i lavori, i muri costruiti di giorno crollano di notte, per ignota manu, e all’alba si deve ricominciare da capo. Ruggero decide, quindi, di scavare a fondo alla ricerca di qualcosa nel sottosuolo che opera questi misteriosi crolli. Scavando, viene trovato un muro con sopra l’immagine di una Madonna intorno a cui, a furor di popolo, viene costruita una cappella che prende il nome di Madonna del Castello. Inutile dire che la zona viene subito pacificata e accetta il nuovo governo normanno.
Non si sa in quale data, ma si è anche tentato di attribuire al gran conte Ruggero un quarto miracolo. Questo succede in un’altra zona di forte devozione al sovrano tradizionale, l’imperatore bizantino nella Calabria Ultra, nel cuore dell’Aspromonte e della Calabria di rito greco.
Il miracolo di Polsi viene riproposto in due diverse versioni che riguardano direttamente i Normanni:
1) il gran Conte Ruggero, in una data non precisata, andando a caccia in Aspromonte vede i suoi cani correre e scavare tutti insieme in un punto, fino a far affiorare la Croce. Secondo questa versione, sarebbe stato il gran conte a raccogliere l’invito della Madonna a costruire sul posto un Santuario;
2) il Re Ruggero II, figlio del gran conte, in una data che potrebbe essere il 1144, vede i suoi cani scavare e trovare la Croce, con quel che segue.
Una traccia di queste versioni “filonormanne” rimane ancora nella data del miracolo collocata nel secondo Millennio, anche se ha finito per prevalere, finite le dinastie che si richiamavano ai Normanni, la versione che sia stato il torello di un giovane pastore a trovare la Croce, non questo o quel sovrano normanno.
Per quanto riguarda questo periodo è certo che la Parrocchia di Santa Cristina, anche se una notizia certa dell’esistenza di una carica di Protopapa si ha solo nel XIV secolo, è completamente autonoma dal Vescovo, che è quello di Sant’Agata diventata, probabilmente con i Normanni, Oppido. La diocesi è, in parte, l’erede della gloriosa diocesi di Taureanum, una delle prime e certamente la più importante della Calabria Ultra nel primo Millennio. Dopo la distruzione della città ad opera dei Saraceni nel 951, il Vescovo di Taureanum si ritira nel castello di Seminara. Poi, parte della Diocesi viene aggregata alla Diocesi di Mileto e la restante parte costituisce la Diocesi di Oppido, si pensa con l’arrivo dei Normanni.
La diocesi di Oppido ha, per gli storici, un importantissimo pregio: è in assoluto la diocesi di cui si sono salvati più documenti storici. Il primo documento storico della diocesi è del 1048.
Nei documenti della diocesi, le notizie su Santa Cristina sono pochissime e rarissime e questo fa pensare che non ce ne siano perché la Parrocchia di San Nicola è stata completamente indipendente. I documenti di Santa Cristina sono talmente pochi che l’importante studioso di storia bizantina, André Guillou, trovandosi di fronte, in una sua monumentale ricerca, a tre documenti relativi a Santa Cristina, per giunta di epoche storiche diverse e non collegati tra loro, preferisce attribuirli a tre diverse località chiamate Santa Cristina, piuttosto che supporre l’esistenza di un solo paese. Nell’indice dei nomi che chiude il volume, Goillou scrive tre volte il nome Santa Cristina, mentre tutti gli altri luoghi sono scritti una sola volta per tutte le citazioni che li riguardano.
Insomma, la sorte ha voluto che si sappia molto di Oppido e niente o quasi di Santa Cristina. Ecco perché della storia di questo paese e dell’uso del beneficio ecclesiastico di questa Parrocchia molto ricca, più ricca di alcune diocesi che finiscono per attingere benefici da lei, si sa pochissimo. Si sa pochissimo anche della sua economia anche se la presenza, nei suoi territori, di ventuno fiumi ha sempre fatto ipotizzare che molto prospera fosse l’industria della coltivazione del baco sa seta.
Fino al X secolo, le stoffe più pregiate si sono ricavate dalla sete del bisso, una seta animale estratta dai molluschi di fondale, in particolare dalla Pinna Nobilis. È un’arte antica di cui si parla persino nell’Iliade dove si legge che la moglie di Priamo indossava stoffa fatta con questa seta. E si dice che persino il mantello scintillante della Regina di Saba, di cui si parla nella Bibbia, fosse fatto di questa seta. Solo con il XII secolo, sembra con Ruggero II, re normanno di Sicilia, siano arrivate in Meridione, e da qui si siano diffuse in tutta Europa, le uova di baco che permettono una produzione di seta a minor prezzo di quella del bisso e a qualità più o meno simile.
I monaci di rito greco, che in quegli anni leggono i manuali di agricoltura per apportare delle migliorie a vantaggio dei contadini, finiscono di perfezionare il sistema di produzione ad alta intensità di lavoro con l’aggiunta della coltivazione del baco, della filatura della seta e della tessitura di vesti di seta. In sostanza il sistema produttivo serve ad aiutare i contadini ad apprendere quando seminare, quando potare, cosa e come coltivare, come raccogliere i capitali per piccoli prestiti a coloro che intendono investire nelle loro proprietà o investire nei loro benefici ecclesiastici anticipando i capitali e permettendo agli agricoltori un aumento del reddito che possa ripagare l’investimento attraverso l’affittanza lunga.
Puntare su una multicultura di ulivi, viti, frutta, grano e seta significa, di fatto, offrire opportunità di lavoro continue, per tutti gli anni e quasi per l’intero anno, sia al contadino, sia alla famiglia (la moglie e i figli). Infatti, i bachi devono essere nutriti con le foglie di gelso e devono essere tenuti al caldo. Questo ne fa un’attività che può essere svolta in gran parte a domicilio, il reddito garantito della famiglia diventa maggiore e si creano condizioni possibili di promozione sociale che gli stessi chierici favoriscono, aiutando i giovani più svegli delle famiglie contadine ad entrare in seminario e, poi, a gestire proprietà delle cappelle, e relative proprietà, loro affidate.
Il sistema di produzione agricolo che si affermerà, dopo il terremoto del 1783, strutturato sulla monocultura si rivelerà disastroso per i contadini senza terra che possono lavorare solo per una media di sei mesi l’anno (circa tre nella cosiddetta “annata magra” e fino a nove nella cosiddetta “annata grassa”). Ma quando si tratta di ricostruire dopo il terremoto (e di questo ne parlerò in altra occasione) le teorie agricole dei sacerdoti e monaci basiliani, cioè le antiche teorie degli Scriptores rei rusticae vengono di fatto ignorate e sostituite dalle nuove teorie illuministe che, nelle nostre campagne, funzioneranno molto meno.
Il beneficio ecclesiastico dalla fine del XV secolo alla fine del XVIII
L’entità del beneficio ecclesiastico può essere documentata nella sua interezza, o quasi, solo a partire dal censimento del Catasto Onciario. Censimento che è stato realizzato dai re Borboni di Napoli e Sicilia, nel 1742-46. I catasti precedenti, infatti, detti de appretio, non contengono i dati sui Luoghi Pii, sui beni ecclesiastici, e su quant’altro sia esente da tributo. Quindi, nessuna analisi sistematica del beneficio ecclesiastico può essere realizzata relativamente al periodo precedente.
E siccome si tratta solo di costruire una tipologia, preparatorie per una riflessione, non certo per una ricerca esaustiva, mi limiterò a presentare il caso del beneficio ecclesiastico di Santa Cristina, con qualche considerazione sui beni del Santuario di Polsi.
Le informazioni sul catasto conciario dei cittadini residenti in Santa Cristina si trovano nella Revele 6219 dove sono censiti 168 nuclei famigliari per 847 abitanti. Le informazioni relative ai sacerdoti della Diocesi di Oppido, dei forestieri non residenti a Santa Cristina, dei sacerdoti non abitanti e delle Parrocchie sono contenute nella Revele 6222. Cominciamo da quest’ultima.
Circa 227 piccole proprietà site in Santa Cristina sono concesse al Vescovo di Monteleone, la Diocesi più importante in quanto Monteleone, attuale Vibo Valentia, è al tempo la capitale della Calabria. Il Vescovo le concede in affitto e incassa per la Diocesi il fitto da altrettante persone, molte delle quali non sono di Santa Cristina. Esattamente 60 piccole proprietà site in Santa Cristina sono concesse al Vescovo di Oppido nella cui Diocesi si trova la Parrocchia gestita da un Protopapa formalmente autonomo dal vescovo (il termine Protopapa sta per “prima del Papa”, cioè che risponde direttamente al Papa). Anche queste proprietà sono per lo più concesse in affitto e il fitto viene incamerato dalla Diocesi. Altre proprietà sono gestite da sacerdoti o da laici che abitano a Napoli. E così via.
Solo una minima parte delle proprietà della Chiesa vanno ai sacerdoti residenti a Santa Cristina. I sacerdoti nati e residenti nel paese sono 9, cui vanno aggiunte due persone (un secolare e uno che si definisce eremita). Tutti i 9 sacerdoti hanno delle proprietà da amministrare. Di questi, 6 sono figli di bracciali o di vaticali. Per il padre (e per qualche fratello di questi 6 sacerdoti) il catasto recita: “Bracciale che vive civilmente” o “Vaticale che vive civilmente”. Il che vuol dire che due terzi dei sacerdoti del paese utilizzano il loro ufficio per la promozione sociale della propria famiglia.
Se la carriera di sacerdoti riesce a perpetuarsi per più di una generazione nella stessa famiglia, questa può riuscire ad accumulare capitali sufficienti all’acquisto di proprietà non vincolate al beneficio ecclesiastico.
Normalmente, il beneficio ecclesiastico viene legato a ciascuna cappella della parrocchia la quale si costituisce come società di fatto che può fare accordi e contratti e percepire censi dagli affitti. Il Protopapa di Santa Cristina è quello tra i vari sacerdoti che controlla tutte o quasi queste società di fatto. Certamente controlla la Parrocchia di San Nicola di Bari, che ha sede nella chiesa omonima e questa controlla tutte le proprietà che non sono attribuite alle varie cappelle:
Cappella del Santo Rosario, società di fatto controllata dal Protopapa;
Cappella di Santa Maria la Porta, società di fatto controllata dal Protopapa;
Cappella del Carmine, società di fatto controllata dal Protopapa;
Cappella dei Suffragi, società di fatto controllata dal Protopapa;
Cappella del Venerabile, società di fatto di cui non si indica esplicitamente il controllore.
Ognuna di queste società di fatto, anche se forse non tutte, viene, poi, affidata dal Protopapa a un sacerdote e questi deve rispondere al Protopapa circa la buona amministrazione della società. I buoni rapporti con il Protopapa sono condizione indispensabile per potersi permettere di ricevere l’amministrazione di una delle tante società di fatto e, successivamente, di concedere in affitto, a condizioni vantaggiose, una proprietà a qualcuno della famiglia o a qualche protetto del sacerdote stesso. A volte, tutte le proprietà in propria disposizione vengono affidate in fitto a una sola persona. Diminuito, dopo il terremoto, il patrimonio della Parrocchia di Santa Cristina, rimangono, comunque numerosi fondi. Per secoli il Protopapa di Santa Cristina si è visto contestare dal Vescovo di Oppido il diritto di decidere autonomamente su queste proprietà. Il Vescovo ha sempre presentato un diritto di veto. La pratica di questi ciclici conflitti si è mantenuta fino al XX secolo. Si può dire che nessun nuovo Vescovo si è astenuto dal tentare di imporre il proprio veto e nessun Protopapa abbia rinunciato senza resistere.
A questo proposito, il Protopapa Pietro Luppino, in un documento del 30 novembre 1922, elenca 27 fondi di proprietà della Parrocchia e, sotto l’elenco, aggiunge: “Tutti i detti fondi il mese di Marzo scorso furono per un solo anno fittati a mio fratello Antonino. Scadendo del fitto non appena raccolte le olive di quest’anno 1922-23”. Il Vescovo di Oppido pretende che il Protopapa chieda il permesso per ogni operazione di fitto e il Protopapa osserva che il preteso controllo del Vescovo “non fu registrato né mandato in effetto, perché il possesso dei fondi l’ho io”.
Il potere del Protopapa era enorme prima del terremoto e diventa, ancora prima della fine del rischio di invasioni islamiche, ambito a molte famiglie di notabili dell’Aspromonte che si arricchiscono monopolizzando la carica. Lo mostra l’elenco dei Protopapa che presento suddiviso in tre diverse tabelle, una per periodo storico.
Né il libro di famiglia dei Brancatisano, né i registri parrocchiali dicono quale sia il motivo di queste dimissioni. Nel libro di famiglia, dove si cita anche il Libro della Parrocchia, si legge: “L’Abbate Sebio Brancatisano fu fatto protopapa della chiesa di S. Cristina l’anno 1597. Esercitò la cura sono all’anno 1608, e la renunciò all’Abb. Gaspare Zerbo. Sopravvisse fino a 21 Aprile 1619. Morì all’eta di anni Settanta”.
Secondo lo storico Rocco Liberti, il primo Protopapa della famiglia Zerbi è stato veramente un grand’uomo, con molta cultura e carisma. Quelli che gli succedono dello stesso nome sono meno ferrati in dottrina e più prepotenti. Il che porterebbe a pensare che sia con il secondo Protopapa Zerbi che la funzione sociale del beneficio ecclesiastico di Santa Cristina cambia decisamente funzione: diventa uno strumento per l’arricchimento della famiglia Zerbi.
Dopo don Carlo Clemente, tutti i Protopapa che seguono appartengono alla famiglia Zerbi che, con questa carica prestigiosa e proficua, prima creano e poi incentivano la loro ricchezza. Essi reggono la Parrocchia per complessivi 94 anni di seguito (1669-1762). L’appartenenza per quasi un secolo di una carica ad esponenti della stessa famiglia indica che la carica viene assegnata (venduta?) più che per l’ufficio da svolgere, per la rendita o il profitto che garantisce. A partire dalla fine del XVI secolo, è molto probabile che la carica venga assegnata dal Vescovo di Oppido, magari con l’accordo del Vescovo di Monteleone. E questo spiegherebbe il numero elevato di fondi che vengono affidati alle due Diocesi in questione, come mostra il Catasto Onciario.
Non vi è notizia di controversie relative alla gestione de’ Luoghi Pii durante il lungo periodo della gestione della famiglia Zerbi, residente a Oppido. Tuttavia, con l’elezione di un Protopapa appartenente alla famiglia Brancatisano, di Santa Cristina, la situazione si fa difficile da gestore. Notizie relative a controversie nella gestione dei Luoghi Pii di Santa Cristina si riscontrano sia nell’Archivio di Stato di Napoli, sia nell’Archivio di Stato di Catanzaro. Accenno, rapidamente, ai primi due documenti:
1) Controversia sui Luoghi Pii di Santa Cristina, documento del 16 gennaio 1773 (Registro 132, Carta 105). Il documento riguarda sia il paese, sia alcuni dei casali;
2) Università dello Stato di Santa Cristina per la controversia con il Vescovo di Oppido (Registro 386, Carta 255 v), documento del 15 maggio 1773.
Una controversia più dura, che ha bisogno di un dibattito in Pubblico Parlamento, si sviluppa tra Sacerdoti (sono coinvolti un appartenente alla Famiglia Zerbi, il Protopapa in carica, don Pompeo Brancatisano, e un futuro Economo Curato, don Filippo Molluso). Il Pubblico Parlamento si tiene il giorno 24 di Dicembre del 1781, il ricorso è del gennaio successivo e si deve attendere Luglio per avere la sentenza definitiva. Questa litigiosità interna al clero, che coinvolge famiglie interessate alla gestione della Parrocchia e persino il Vescovo di Oppido, dipende dalla grande importanza economica del beneficio ecclesiastico nello Stato di Santa Cristina.
La Tabella n. 3 indica in poco più di due secoli (1783-1991) un numero di nove Protopapa e di otto Economi Curati. Questi ultimi sono chierici cui viene provvisoriamente affidata la Parrocchia, fortemente impoverita sia sul piano sociale, sia sul piano economico dopo il terremoto del 1783. Si può notare che l’impoverimento provoca come conseguenza che non si riscontrano più due Protopapa con lo stesso cognome. Lo stesso cognome c’è in due casi:
1) Molluso per indicare il Protopapa don Giuseppe Maria (1784-1788) e l’Economo Curato don Filippo (1791-?). Secondo un carteggio della Cassa Sacra, don Filippo è proseguito nella carica fino a tutto il 1794. Il carteggio non esclude che rimanga nel ruolo anche per il 1795 e oltre. Deve essere stato difficile trovare un Protopapa disposto a tenere la Parrocchia date le mutate condizioni della medesima, dopo il terremoto. Don Filippo è del posto, ed è uno dei sopravvissuti tra i 14 cappellani corali che costituivano il clero di Santa Cristina al 1783 (Archivio di Stato di Catanzaro, Cassa Sacra, Segreteria Ecclesiastica, B. 40, fasc. 720);
2) Pupa per indicare due Economi Curati, don Isidoro e don Vincenzo Maria, che seguono l’uno all’altro (1866-1873).
In altri termini, per sintetizzare i tre periodi:
1) fino alla fine del XVI secolo, i Protopapa sono poco importanti rispetto alla collegialità di sacerdoti e monaci e la loro carica è più importante per la funzione religiosa, militare e culturale che svolge la Parrocchia che per le rendite delle proprietà;
2) dopo il terremoto del 1783, la gestione della Parrocchia è importante per chi la ottiene (che ricava rendite molto consistenti), ma non socialmente rilevante fino al punto da essere oggetto di contesa tra famiglie di notabili locali;
3) tra la fine del XVI secolo e la fine del XVIII secolo, la gestione della Parrocchia rivela un vasto intreccio di interessi e relazioni che si muovono tra lo Stato di Santa Cristina, la Diocesi di Oppido, la capitale della Calabria, attraverso la Diocesi di Monteleone, e persino la capitale del Regno, Napoli. In questa fase, la carica di Protopapa è interamente nelle mani di famiglie di notabili locali, la più importante delle quali è la famiglia Zerbi. Gli interessi in gioco sono talmente forti che non è raro un contenzioso tra i sacerdoti avente per oggetto la gestione degli affitti della Parrocchia (Archivio di Stato di Catanzaro, Cassa Sacra, Segreteria Pagana, B. 21, fasc. 288, aa. 1781-1782, appena prima del terremoto). Anche perché la Famiglia Zerbi mantiene ancora relazioni troppo forti in Santa Cristina. Talmente forti da condizionare lo stesso Protopapa in carica, Brancatisano, nell’assegnazione degli affitti di un anno di durata.
Per quanto riguarda l’evoluzione della Parrocchia, essa segue con il ritardo di più di un secolo, una analoga evoluzione del Santuario di Polsi. Il 29 marzo 1481 viene abolito il rito greco in Calabria. Qualche anno dopo, i monaci basiliani che tengono il Santuario, lo abbandonano, essendo rimasti in pochi, e si recano a Grottaferrata. Il Santuario viene affidato ad Abati commendatari che risiedono fuori Polsi. I più noti sono gli Abati della famiglia Pignatelli, napoletana. L’ultimo abate di questa famiglia è l’Abate Fabio Pignatelli, che muore nel 1543 e viene sostituito dal chierico Gabriele Sanchez, di cui si dice solo che appartiene a famiglia nobile. Nel 1577, l’Abate Sanchez viene sostituito dal Cardinale Orsini, di nobile famiglia romana, che regge il Santuario fino al 1604. Quindi segue un altro Abate di cognome Sanchez (di nome Giacomo o, secondo altre fonti, Giovanni), di cui si chiarisce che è napoletano (ed ovviamente nobile). Non si sa per quanti anni questo Abate tenga l’Abbazia. Viene sostituito da un altro napoletano, Mons. Buratti.
L’abbandono del Santuario da parte dei monaci di rito greco fa rapidamente precipitare Polsi dalla sua importante funzione di guida religiosa ad una situazione di gestione assenteista delle rendite che si ricavano dall’ufficio.
Anche perché, partiti i monaci basiliani, vengono nominati Vescovi, per la Diocesi di Gerace (dal 1472 al 1538 diventata Diocesi di Gerare ed Oppido) nel cui territorio si trova Polsi, chierici che vivono altrove. Essi sono:
a) Atanasio Chalkèopoulos (1472-1497), primo Vescovo di Oppido e Gerace, che compie una importante relazione attestante la buona condizione, soprattutto nella conoscenza del greco, da parte dei chierici di Polsi, ma è anche il primo dei Vescovi che si reca nella Diocesi solo per l’assunzione della carica;
b) Troilo Carafa (1497-1505);
c) Jaime de Conchillos (1505-1509), poi Vescovo di Catania;
d) Bandinello Sauli (1509-1517), patrizio genovese e cardinale, che è, in contemporanea, amministratore apostolico in Liguria e viene dimesso dopo essere stato arrestato accusato di avere complottato contro Papa Leone X (muore, si dice, avvelenato da partigiani di Leone X);
e) Geronimo Planca (1519-1534), ultimo Vescovo di Oppido e Gerace;
f) Tiberio Muti (1538-1552) Vescovo di Gerace che ha trovato il clero del Santuario persino incapace di somministrare i sacramenti e di celebrare le funzioni secondo il rito;
E così via, fino a Domenico Diez de Aux (1689-1729), ultimo dei Vescovi di Gerace assenteisti.
Invece, a Santa Cristina, la situazione religiosa ed economica della Parrocchia rivela una maggiore capacità di resistenza al declino spirituale ed economico. Due sono i fattori che fanno sì che la rendita assenteista di affermi con molta più lentezza:
1) l’esistenza del Parlamento dello Stato di Santa Cristina, con rappresentanti eletti dai e tra i capofamiglia, la cui funzione principale è quella di contrastare lo strapotere dei baroni e degli ecclesiastici che vogliono subordinare il loro ufficio alla percezione delle rendite del beneficio;
2) la presenza di una serie di famiglie di notabili locali che compete per la carica di Protopapa, ma anche resiste all’intromissione di nuovi poteri provenienti dall’esterno.
Se maggiore è stata la capacità di resistere di Santa Cristina all’utilizzo parassitario del beneficio ecclesiastico, è evidente che Santa Cristina non ha (o non ha più) risorse spirituali sufficienti per reagire alla crisi, quando un’occasione viene offerta. Questa occasione, a mio avviso, viene offerta, al Santuario e alla Parrocchia, dall’amministrazione austriaca. Con gli austriaci al governo in Napoli, si verificano due grosse novità, nelle due realtà dell’Aspromonte, le più ricche dal punto di vista delle proprietà della Chiesa, a distanza di un anno l’una dall’altra.
La prima si verifica nel 1729, a Santa Cristina, dove si tenta di realizzare un censimento delle proprietà appartenenti a forestieri, ritenendo probabilmente che è da fuori che proviene l’attacco all’uso produttivo e proficuo del beneficio ecclesiastico. Il documento ha come titolo “Luogotenenza della Terra di Santa Cristina in prov. Di Calabria Ultra a. 1729”.
Interessante è il fatto che quel documento, l’unico di quel tempo che si trovi nell’Archivio di Stato di Napoli, rimanga incompiuto, praticamente interrotto a metà. Segno questo delle grandi resistenze che vengono frapposte ai tentativi di riforma degli Austriaci, che controllano il Regno dal 1707 al 1734 (di questo, però, parlerò in altra occasione). Segno anche del fallimento della tentata riforma.
Un anno dopo, comincia un tentativo (riuscito) di riforma del beneficio ecclesiastico del Santuario di Polsi. Lo realizza don Idelfonso del Tufo che diventa Vescovo di Gerace, nel 1730. Il nuovo Vescovo realizza delle riforme per reagire alla decadenza del Santuario ed il suo tentativo lo impegnerà per 18 anni. Il Vescovo utilizza le rendite del Santuario per programmare lavori e ricostruzioni: ingrandisce la chiesa, trasforma una chiesa di campagna in un tempio; ristruttura il convento e le case intorno ad esso; ma soprattutto ravviva il culto e la fede verso la Madonna. Questo basta a far riprendere la pratica dei pellegrinaggi e a trasformare il Santuario nel luogo di culto più frequentato della Calabria. Dopo tanto lavoro, don Idelfonso decide di trasferirsi ad Ascoli, a continuare colà la propria missione come Vescovo. Le sue riforme sono ancora adesso viste come il momento della ripresa del culto della Madonna della Montagna, con una devozione che torna a diffondersi nella Calabria e nella Sicilia Orientale.
Dopo il trasferimento di don Idelfonso, la carica ritorna in mano a Commendatari che non risiedono in loco. Nel 1789, il nuovo Abate è D. Pietro Rocco, possidente in Roma. La rendita dichiarata del Santuario è di 500 ducati, cui vanno sottratti 137 di pesi. La cifra restante è di 363 ducati che, paragonati alla retribuzione dell’Economo Curato don Filippo Molluso di Santa Cristina costituisce una rendita di sole due volte e mezzo la retribuzione annua del Molluso.
Ma, ormai, il più è fatto e il Santuario riprenderà vita per le iniziative delle associazioni di pellegrini o delle confraternite di Maria Santissima della Montagna che nasceranno un po’ dappertutto in Calabria e nella Sicilia Orientale.
Il beneficio ecclesiastico dopo il Grande Flagello
Confrontando i beni ecclesiastici censiti al tempo del Catasto Onciario con quelli dichiarati dall’Economo Curato don Filippo Molluso, lo stesso che si è distinto nelle controversie precedenti il terremoto e che dopo di questo ha riempito di carte la Cassa Sacra per farsi pagare, si sono persi per strada la stragrande maggioranza dei fondi. Questa perdita deriva da vari fattori:
1) l’effettiva rovina di molti fondi conseguenza del terremoto, compresa l’impossibilità di individuare i vecchi confini. Solo per fare un esempio, il vecchio castello di Santa Cristina si trova a poche centinaia di metri dalla principale faglia individuata dal terremoto, quella che ha prodotto un’imponente frana “avente spessore di un centinaio di metri e componimento orizzontale dello spostamento nel senso del movimento non inferiore a 0,5 km” (Cotecchia, Travaglini e Melidoro 1969, p. 23) oltre ad altre frane analoghe, alla formazione di un lago che sommerge la valle più fertile dello Stato, rovinando i terreni, etc.;
2) la spoliazione dei beni ecclesiastici da parte dei sacerdoti sopravvissuti e delle loro famiglie, complice la perdita della documentazione della Parrocchia. È in questo periodo che, a Santa Cristina, “spariscono” i documenti della Parrocchia, premessa indispensabile per una spoliazione fraudolenta dei beni ecclesiastici, molti dei quali erano di piccolissime dimensioni e facilmente occultabili per semplice abbattimento dei segnali di confine con i fondi vicini. L’operazione non è sfuggita ai contadini e al resto dei paesani, che nulla hanno potuto fare, per nascondere quanto stava avvenendo, in mancanza, appunto, dei documenti della Parrocchia. L’operazione fraudolenta rimane fissata nella memoria collettiva attraverso un detto popolare che era ancora usato due secoli dopo: “Rrobbati! Rrobbati! Ch’è ‘robba d’Abati!”. Si può anche ipotizzare, con molte probabilità di indovinare, che l’intero archivio parrocchiale, pieno di preziosissime informazioni di natura storica, mai ritrovato, nemmeno in parte, dopo il terremoto, sia stato distrutto per poter giustificare la perdita dei documenti relativi ai beni ecclesiastici, quei documenti dai quali si potessero ricavare notizie dirette o indirette sui titolari dei diritti di proprietà;
3) Il sequestro e la vendita di beni da devolvere alla Cassa Sacra. Nei quattordici Comuni considerati intorno a Catanzaro, Placanica calcola che “tra il 1784 e il 1786 cinquemila fondi rustici già ecclesiastici andarono in mano ai privati, spesso accrescendo e a buon prezzo, le vaste concentrazioni fondiarie di molti benestanti e ‘prepotenti’ calabresi quasi sempre col sacrificio delle masse contadine che pure, nei limiti del possibile, aspiravano al possesso fondiario definitivo e tentarono di trarne profitto dall’insperata occasione” (Placanica 1985, pp. 28-29). “Proprietari e contadini uscirono sconfitti dalle operazioni della Cassa Sacra. Le vendite privilegiarono i nobili imborghesiti, i benestanti in genere, dando luogo, almeno nel riparto di Catanzaro, a un fenomeno di accumulazione fondiaria” (Placanica 1970, p. 212). Una accumulazione che non ha prodotto effetti reali di modernizzazione perché, come si è anticipato all’inizio, l’occasione per la modernizzazione la Calabria, e l’intero Regno, la aveva già persa agli inizi del secolo, non collaborando con i progetti riformatori degli Austriaci (ma questa è una storia da raccontare un’altra volta).
*Giuseppe Gangemi, professore di Scienza dell'Amministrazione all'Università di Padova
Riferimenti bibliografici
Cotecchia, V., G. Travaglini e G. Melidoro (1969), I movimenti franosi e gli sconvolgimenti della rete idrografica prodotti in Calabria dal terremoto del 1783, Bari-Roma, Arti Grafiche Favia
Elazar, Daniel J., “The Book of Joshua as a Political Culture”, Jewish Political Studies Review, 1989, I, 1-2, pp. 93-150
Franzin, Elio (2001), Giovanni Coi: un abate illuminato e la questione idraulica padovana, Atti del convegno storico (Dall’Accademica dei Ricovrati all’Accademia Galileiana) per il IV centenario della fondazione (1599-1999), Padova, Accademia Galileiana in Scienze Lettere ed Arti, pp. 299-318
Guillou, André (1976), Aspetti della civiltà bizantina in Italia, Bari, Ecumenica Editrice
Luttwak, Edward N. (2010), La grande strategia dell’impero romano, Milano, Saggi BUR Rizzoli
Placanica. Augusto (1970), Cassa Sacra e beni della Chiesa nella Calabria del Settecento, Napoli
Placanica, Augusto (1985), Il filosofo e la catastrofe: un terremoto del Settecento, Torino, Einaudi
Rossi Staibbi, Giuseppe (1962), Vita di Sant’Elia il Giovane, Palermo, Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici
Wildavsky, Aaron (1993), Assimilation versus Separation. Joseph the Administrator and the Politics of Religion in Biblical Israel (Transaction Publishers, New Brunswick, USA, and London, UK)