Il brigantaggio in Calabria. I “picciotti” di re Ferdinando
- Pino Macrì
Sul finire del Settecento, la maggiore preoccupazione dei regnanti dell’Ancien Régime era nell’impedire del propagarsi degli effetti della Rivoluzione francese.Il problema era particolarmente sentito a Napoli, dove Ferdinando I (e soprattutto la sovrana moglie, in perenne ricerca di vendetta per l’atroce fine della sorella ghigliottinata a Parigi), non appena avuto il sentore da una denuncia anonima che in Calabria il popolo, allo stremo, pensava ad una sorta di “rivolta fiscale” immediatamente inviò Luigi de’ Medici (che poi sarebbe divenuto reggente della Gran corte della Vicaria) per un’ispezione, che, però, non diede risultato alcuno: nonostante questi, infatti, ritenesse “i calabresi capaci di commettere per la più lieve cagione cento omicidi”, ed avesse compilato una relazione nella quale denunciava, tra l’altro, la totale mancanza di strade decenti, il fallimento totale della Cassa Sacra, uno stato allucinante di decadimento e corruzione della giustizia, cui corrispondeva una paurosa prepotenza dei baroni, non ritenne che vi fosse nulla di particolarmente atto a suscitare pericolose rivolte (essendo, in realtà, quello il solo pensiero a preoccupare il re). I tumulti scoppiati a Gerace e Tropea (1787) furono evidentemente sottovalutati, tanto che il re pensò di mandare un nuovo inviato, per il quale rispolverò l’antica carica di “Visitatore reale”, per avere rapporti più precisi.
Nella primavera del 1792, quindi, la nuova missione fu affidata ad uno degli ingegni più acuti del Regno, Giuseppe Maria Galanti: questi percorse in lungo ed in largo gran parte della regione, spesso avvalendosi anche delle relazioni (risposte scritte sulla base di una sorta di questionario a domande fisse, da lui stesso predisposto) di notabili scelti fra i più rispettati, attendibili e degni di fede. Ne scaturì un quadro desolante, oltre che sul versante della situazione economica della regione, soprattutto su quello che a noi, qui, maggiormente interessa, dell’ordine pubblico. Lo definisce bene Luca Addante, nell’introduzione alla riedizione del resoconto di Galanti (Giornale di viaggio in Calabria, Rubbettino, 2008): «Infiniti erano gli omicidi, i furti, i rapimenti; scandalosa l’ignoranza del clero; spocchiosi i notabili di paese, ossessionati dall’idea di arricchirsi e poi di nobilitarsi, rapaci monopolizzatori delle amministrazioni locali, cresciuti all’ombra di una decadente nobiltà di cui si preparavano a raccogliere le spoglie». Parole forti, certo, ma che corrispondono pienamente a quanto annotato da Galanti: in particolare, nel Giornale colpiscono le descrizioni di inquietanti fenomeni di criminalità urbana in cui non è difficile scorgere il germe di quella che un secolo dopo, mutatis mutandis, si cominciò a configurare come associazione delinquenziale vera e propria, la ‘ndrangheta.
A fianco delle “solite” scorrerie nelle campagne, dove la povertà diffusa faceva concentrare i disperati che nel brigantaggio vedevano la sola possibilità di sopravvivenza, Galanti annotò acutamente come un’amministrazione della giustizia pesantemente inficiata dall’inefficienza, dalla corruzione e dal monopolio assoluto ed in gran parte incontrollato dei baroni, stesse iniziando a produrre casi, come a Maida, di “una picciola combriccola di giovinastri scapestrati che commettono violenze col fare uso di armi da fuoco. La giustizia è inoperosa perché senza forza e senza sistema. Le persone maligne si fanno miliziotti [una sorta di guardie urbane, ndr]”. Nel Distretto di Gerace, “le scorrerie de’ malviventi nelle campagne sono generali. Quasi tutti i miliziotti sono i più facinorosi della provincia perché i delinquenti ed i debitori adottano questa professione e vengono garantiti da’ comandanti in disprezzo delle leggi. Con ciò restano impuniti i delitti, i quali crescono ogni giorno”. A Monteleone [l’odierna Vibo Valentia], “vi è un gran numero di gente oziosa, detti nel paese “spanzati”, i quali sono ordinariamente inquisiti. Questi a franca mano commettono assassini, furti, violenze alle donne, con un manifesto disprezzo della giustizia, la quale è inefficace a punirli. Questa turba di briganti [ohibò, anche Galanti, a quanto pare, usava quel termine, e prima della venuta dei Francesi] pretendono essere incaricati dell’annotazione delle sete, a spese dell’arrendamento [che era una sorta di monopolio autorizzato, ndr]. Quando si nega condiscendere alle loro voglie, si minaccia l’amministrazione di ricorsi, oltre alle minacce alla sicurezza, contro la quale sono sempre disposti ad essere armati ed usi adoprare le armi da fuoco. Gli individui oziosi e truffatori, per non pagare i debiti e per esentarsi dalle pene de’ loro delitti, si arrollano nella milizia. Questi anche ricattano la gente ricca, esercitano il contrabbando con baldanza, esercitano l’incarico di perseguitare i malviventi per dare sfogo alle loro private vendette, il che porta seco una catena di delitti”.
La Calabria, dunque, “era in preda a una generale disgregazione dei poteri pubblici e di quelli privati” (A.M. Rao, 1992), ma, in un contesto così grave, Ferdinando IV decise piuttosto che era più importante ed urgente rivolgere la propria attenzione alla costituzione di una coalizione anti-francese («Non sono tempi per queste cose» replicò bruscamente al ministro Simonetti, che proponeva di mettere in atto il piano di risanamento complessivo per la Calabria predisposto da Galanti), ricordandosi di essa solo per inquadrarne, al servizio del Regno, della patria e della religione, banditi, fuoriusciti, inquisiti, carcerati. Insomma, ciò che in tempi passati avevano osato solo alcuni baroni per regolare le questioni interne contro altri baroni, adesso riceveva addirittura l’imprimatur reale, e dunque, per la prima volta, il brigantaggio si rendeva conto di aver raggiunto una posizione di spaventosa forza nel dominio del territorio. Difatti, dopo la disfatta napoletana nella battaglia di Roma del 1798, i briganti sciamano nei territori d’origine, abbandonandosi a saccheggi e devastazioni incontrollate. Queste, ovviamente, non potevano che dare luogo ad una rinnovata catena di faide: cosicché alcuni di essi, per porre in essere le vendette private con la copertura delle istituzioni, passano con i Francesi durante la breve stagione della Repubblica del 1799, e qualche occasione di impianto dell’Albero della Libertà, diviene, in realtà, un mezzo per l’espletamento di sanguinose vendette. Quando, poi, il cardinale Fabrizio Ruffo propone a Ferdinando un piano per riconquistare il Regno da attuare col concorso dei suoi “bravi conterranei calabresi”, il re, fidandosi evidentemente più della sanguinarietà dei briganti che dell’efficienza di un suo proprio esercito, quantunque supportato dall’Inghilterra, acconsente immediatamente.
Ruffo, sbarcato a Punta Pezzo con un pugno di uomini, in breve raccoglie sotto la bandiera della Santa Fede migliaia di contadini, con la promessa della diminuzione delle tasse e della redistribuzione delle terre, e centinaia di bande di briganti, con quella dell’impunità nei saccheggi, purché funzionali alla riconquista. Va da sé che, però, i briganti non sono facilmente inquadrabili in un esercito regolare e, come relaziona lo stesso Ruffo al sovrano, “ora che hanno fatto un po’ di denaro si sono ritirati, e non posso riaverli. I ribelli sfuggiti dalle mie mani si sono poi dispersi per la provincia e, illuminati dai cattivi soggetti, vanno assassinando coi forzati regalatimi da Messina, da Catanzaro, da Cosenza, da Cotrone [gli unici “effettivi” che il re inviò al cardinale, ndr]”. Bisognò così, per esempio, “assegnare poteri straordinari all’Udienza di Catanzaro per combattere le bande del brigante Panzanera, che avevano continuato ad imperversare fra Tiriolo, Marcellinara, Gimigliano, Amato, ora innalzando la Santa Croce, ora piantando l’Albero della Libertà” (A.M. Rao, 1992). Pare superfluo aggiungere che, passata la tempesta della Repubblica Partenopea, Maria Carolina fece ritirare tutte le misure servite ad ingraziarsi il popolo per spingerlo alla crociata sanfedista (abolizione dei dazi, della feudalità e degli Jus Privativi), e si concentrò unicamente nella “punizione ai capi [gli ”scellerati” patrioti e i nobili infedeli, ndr], deportazione per gli altri, indulto e perdono” agli autori dei saccheggi e delle stragi; ma, soprattutto, “perpetuo silenzio: né potersi più parlare, né scrivere, dire, citare il passato di nessuno; che un eterno oblio seppellisca tanti orrori e delitti” (lettere della regina a Ruffo, da Palermo, 16/2, 3/5 e 3/9/1799).
Quell’ultimo scorcio del Settecento, dalla relazione Galanti alla ignominiosa vicenda della Santa Fede, a ben vedere, occasionò due evidenze, rivelatesi nel tempo tristemente incontrovertibili nei nostri territori: – la criminalità prospera e si afferma in concomitanza con l’inefficienza della giustizia; – le perverse alleanze fra potere costituito e criminalità producono guasti che spesso si radicano pesantemente e arrivano a spingere deleterie propaggini nei decenni (se non nei secoli) a venire.