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Il Brigantaggio in Calabria. Mittiga, l’inganno storico

  •   Pino Macrì
Il Brigantaggio in Calabria. Mittiga, l’inganno storico

Fra l’8 ed il 10 agosto di quel memorabile 1860 numerosi sbarchi di garibaldini vengono registrati sulle coste reggine: a Cannitello, a sud di Reggio, e, soprattutto, tra Bovalino e Bianco (dove in 200 vengono accolti dal futuro capitano delle Camicie rosse, Calfapetra, e guidati verso l’Aspromonte) manipoli di patrioti iniziano a costituire la testa di ponte per l’ormai imminente arrivo del grosso delle truppe garibaldine.

Garibaldi e i calabresi

Nella notte fra il 18 e il 19 agosto, Garibaldi sbarca a Melito; il successivo 1 settembre entra trionfalmente a Cosenza: in meno di 15 giorni l’intera Calabria si è liberata del Borbone (San Lorenzo è il primo comune a proclamare contestualmente la caduta del Borbone e l’Unità d’Italia, il 18 agosto 1860, prima ancora dello sbarco). Questa breve nota storica deve far riflettere su un dato troppo spesso trascurato, soprattutto dai neo-meridionalisti, che lo liquidano addossandone la colpa al tradimento di alcuni generali borbonici: non è pensabile che un popolo, all’occorrenza fiero e bellicoso come quello calabrese, venga con tanta facilità “sopraffatto e conquistato” senza minimamente opporsi. La verità è dunque altra: la Calabria aprì festosamente le porte alle Camicie rosse, tanto era in odio il dispotico governo borbonico, che nel 1847 e nel successivo ‘48 tanti ingiustificati lutti vi aveva creato!

Un popolo disperato

In quest’ottica, pertanto, si comprende perché, almeno inizialmente, il brigantaggio non attecchì quasi per nulla in Calabria, in particolare nella provincia reggina. Qui, infatti, a capo della amministrazione provinciale fu messo un personaggio di indiscussa levatura morale, cioè quell’Agostino Plutino protagonista sia del ‘47 che del ‘48, il quale mise subito mano ad un robusto programma sociale, impiegando notevoli risorse tanto per combattere l’analfabetismo (che toccava punte vicine al 90%, e che in soli 10 anni scese a poco oltre il 70%) quanto per la costruzione di numerosi tracciati stradali (la Calabria era, all’epoca del Borbone, all’ultimo posto in Italia per la viabilità). Discorso diverso, al contrario, va fatto per Catanzaro da un lato e per Cosenza da un altro. Qui si assistette, da subito, ad uno dei tanti tradimenti dello stato (dei suoi rappresentanti) che tanta fama ebbero poi dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: appena cinque giorni dopo la partenza di Garibaldi verso il glorioso scontro del Volturno, Morelli (a Cosenza), liberale e latifondista allo stesso tempo, revocò le misure rivoluzionarie dell’Eroe dei Due mondi (soprattutto in riferimento alla prevista distribuzione delle terre dell’immenso altopiano silano ai contadini) restaurando, di fatto lo statu quo ante, in combutta con gli altri latifondisti quali Barracco, Quintieri ecc. La reazione del popolo fu durissima e disperata allo stesso tempo, ed il brigantaggio, che già sotto il Borbone era clamorosamente attivo, a dispetto delle fandonie di Civiltà cattolica di cui si è detto nella puntata precedente, riprese vigore e ragion d’essere.

Le bande attive

Franco Molfese che, al pari di Francesco Gaudioso per il periodo dalle origini al 1860, è stato uno dei più seri ed accreditati ricercatori sul brigantaggio post unitario, elenca 32 bande attive nel cosentino tra il 1861 (che può essere definito l’inizio del fenomeno) ed il 1865 (ma qualcuna arrivò anche fino al 1868): attorno a 40 è il numero dei fucilati o uccisi in scontri a fuoco (mancano i dati del 1863, di cui fornisce solo i totali per tutto l’ex Regno), 110-120 gli arrestati ed altrettanti i presentati spontaneamente. Alcuni dei nomi dei capi-banda: Pietro Monaco (ucciso nel ‘63), Zagarese (fucilato nel ‘65), Carmine Noce (banda distrutta nel ‘66), Faccione (‘68), Catalano (‘68). Nel catanzarese, invece, mancò quasi del tutto la motivazione sociale, ed il brigantaggio fu caratterizzato quasi esclusivamente da un’inaudita sanguinarietà, frammista alla commissione, soprattutto, di sequestri estorsivi, rapine e saccheggi, a danno di chiunque capitasse sotto tiro o rappresentasse un obiettivo anche estemporaneo (per sfamarsi, per esempio, nel corso di un trasferimento da un rifugio ad un altro). I numeri (ufficiali), per Catanzaro, parlano di 28 bande, una novantina di briganti fra uccisi e fucilati, più di 300 gli arrestati e quasi 700 i costituiti spontaneamente. Atti ufficiali narrano dell’assassinio per vendetta, commesso dal brigante Perrelli, a Tiriolo, nonostante il presidio militare, di De Fazio a Gimigliano e degli “imprendibili” Ajello a Carlopoli e Tallarico presso Sersale. Completamente diversa, come accennato, fu la situazione in provincia di Reggio: qui, le cifre parlano di 53 fucilati e 28 uccisi, oltre a 70 arrestati e 80 presentati, per il solo 1861; ma, negli anni successivi, non si registrano né fucilazioni né morti, con solo 3 (tre!) arresti nel 1862. Il dato, solo apparentemente controverso, è spiegabile attraverso l’elenco delle bande operanti tra 1861 e ‘65 (ed anche oltre, fino al ‘69, indicato unanimemente come termine del brigantaggio) nel reggino: soltanto una, quella di Ferdinando Mittiga, da Platì.

Il brigante Mittiga

La storia di questo brigante è, per certi versi, addirittura esemplare di come certa storiografia talora si avventuri in spericolate acrobazie pur di far emergere situazioni che eufemisticamente si possono definire contraddittorie: dipinto come una sorta di Robin Hood, che dapprima combatte i retrivi Borbone propugnando idee liberali, poi, con l’Unità, i liberali, inneggiando al Borbone, ma sempre “dalla parte degli umili e degli oppressi”, si ritrovò, appunto sul finire del 1860, a capo di una banda che da quaranta arrivò anche a contare anche duecentocinquanta uomini, scorrazzando nell’Aspromonte fra Platì e Gerace. Quando, l’11 settembre 1861, nel luogo oggi conosciuto come Marinella di Bruzzano, sbarca l’avventuriero spagnolo Josè Borjès con un manipolo di uomini per mettersi alla testa del movimento lealista, è a lui che viene indirizzato. Assieme (ma con Borjès tenuto in posizione subalterna) assaltano Platì, dove Mittiga consuma la sua personale vendetta contro l’odiato Oliva, e Ciminà, alla ricerca di armi. La repressione fu oltremodo dura, sanguinaria addirittura: passato per le armi il superiore del convento di Bianco che aveva dato ospitalità al generale spagnolo, e tre cittadini di Caraffa, si passò poi ad una fucilazione sommaria di sette cittadini di S. Ilario, e, forse, anche di alcuni di Bovalino. Braccato dall’esercito e dalla Guardia nazionale, il 30 settembre Mittiga cadeva vittima di un agguato, forse ucciso da un suo stesso compagno (non era inusuale, come io stesso ho dimostrato tempo fa nel caso del “brigante” Martelli di Portigliola, che i militari ascrivessero a sé stessi alcuni omicidi “privati”, facendoli passare per esecuzioni in stato di guerra, per riscuotere riconoscimenti, promozioni e premi in denaro).

Le dichiarazioni di Borjès

Purtroppo, nell’evidente tentativo di ammantare di romantica tensione civile la storia del brigante, spesso ci si dimentica anche di citare non un piemontese o un nemico unitarista, ma lo stesso Generale Borjès, che, nelle sue Memorie, narra dapprima della diffidenza con cui era stato accolto dal bandito platiese, e, poi, di come era stato abbandonato in mezzo all’Aspromonte, vicino a Giffone, dai “valorosi” combattenti di Mittiga (che, evidentemente, tutto avevano a cuore, tranne che la difesa ad oltranza del loro re). D’altronde, lo stesso generale ebbe a dire al Tenente Staderini che lo aveva appena catturato: «Iba a decir al Rey Francisco II que no hai mas que malvados y miserables para defenderlo» (Stavo andando dal re Francesco II a dirgli che non ci sono che malvagi e miserabili a difenderlo). Nei fatti, come detto, quello di Mittiga fu l’unico episodio di brigantaggio in provincia reggina, e l’esclusione della provincia di Reggio dall’applicazione della terribile Legge Pica del 1863 (contrariamente a quanto si pensa, la tristemente nota legge non fu applicata in tutto l’ex Regno, ma in nove province su dodici, quelle giudicate “infette” dal brigantaggio) lo testimonia ulteriormente. Spiace, quindi, dover deludere quanti, padani in testa, vorrebbero far assurgere l’Aspromonte a simbolo atavico di delinquenza, banditismo, brigantaggio ecc., ma non è così.

I dati reali

Infine, a conclusione di questa non certo esaustiva storia del brigantaggio in Calabria (ma su un giornale non si poteva di più), val la pena evidenziare alcune topiche che, soprattutto di recente, diffondono dati assurdi che di metodologia storico-scientifica hanno poco o nulla: a partire dai dati riferiti dal Molfese, è opportuno evidenziare che egli stesso sottolinea che quelli sono dati ufficiali. I dati reali, è lo stesse Molfese a ricordarlo, sono ben più rilevanti. Ma il vero problema, riferito all’intero ex Regno delle Due Sicilie, non alla sola Calabria, è: di quanto?

Il calcolo delle vittime

Di fatto, un calcolo preciso delle vittime della repressione non è mai stato possibile farlo. Gli storici più avveduti concordano che il numero di 13.500 circa, fra fucilati e uccisi nel corso di scontri, sia senz’altro da rivedere al rialzo, ma, allo stesso tempo, che alcune delle cifre che circolano, basate, è bene sottolinearlo, sul nulla, di 900.000 – 1.000.000 (ormai diventati un milione e mezzo… e più passa il tempo, più aumentano!) di morti, o di “cento calabresi uccisi per ogni piemontese caduto”, non hanno la minima radice documentale, e sono numeri che probabilmente coinvolgono, come in un calderone indifferenziato, tanto i caduti di entrambe le parti (briganti, soldati, militi della Guardia nazionale, ma anche civili innocenti, vittime sia dei militari che dei briganti), quanto i feriti, gli arrestati, i denunciati, e, forse, gli ammalati di raffreddore per una notte all’addiaccio nel corso di qualche perquisizione…


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