Il brigantaggio in Calabria. Repressione e indulto (3^ parte)
- Pino Macrì
Il Seicento, in Calabria, fu un secolo in cui il banditismo, in parte distrutto con i provvedimenti straordinari discesi dalla prammatica “de exulibus”, covò, a lungo, sotto la cenere. In questo secolo, gli episodi più terrificanti e continui di delinquenza estrema si verificarono soprattutto fra Campania (Terra di Lavoro e Principato Ultra), Abbruzzi (Contado di Molise) e Basilicata.
La legislazione del Regno, però, mai diede segno di tentare di comprendere i motivi di malcontento diffuso che erano alla base di tali fenomeni: la rivolta antispagnola del 1585 ed i moti masanelliani del 1647-48 non scalfirono minimamente le coscienze dei viceré spagnoli dell’epoca, i quali finirono con l’improntare le prammatiche via via emanate a due principi fondamentali: le punizioni, particolarmente efferate, ed il meccanismo del perdono/premio. Cioè: ai delitti sempre più efferati commessi nella campagne dai briganti (pardon: banditi), e consistenti in sequestri di persona con conseguenti richieste di riscatto, razzie di mandrie, incendio di raccolti e masserie, e via dicendo, da una parte si rispondeva con misure repressive sempre più pesanti, quali, ad esempio, la demolizione delle case dei delinquenti ed il sequestro dei beni dell’intero parentado, dall’altra attraverso misure premiali, come l’indulto per il bandito che avesse presentato la testa di un capo-bandito. La spirale di violenza, dell’una e dall’altra parte, non fece che aumentare, ad onta delle intenzioni delle leggi repressive ad hoc confezionate, anche perché vi si innestarono due fenomeni che contribuirono moltissimo a complicare le cose per “i tutori dell’ordine” (le virgolette sono d’obbligo, per sottolineare l’incapacità totale di mantenere un ordine che potesse nemmeno avere la lontana parvenza della giustizia).
Il primo, gravissimo e delicato ostacolo era rappresentato dal potere ecclesiastico, che non ne voleva sapere di rinunciare, nemmeno in piccola parte, al privilegio dell’immunità derivante dalla richiesta di asilo: un bandito che, perseguito dalle autorità, si rifugiava in chiesa o in un monastero godeva del diritto d’asilo e non poteva essere catturato all’interno dei luoghi sacri. Non furono pochi, per conseguenza, i casi di religiosi in stretta combutta con i banditi, di cui, in qualche caso, ne diventavano addirittura capi.
Quasi alla stessa stregua, ancorché in un quadro normativo diverso da quello che proteggeva i luoghi di culto, moltissimi baroni concedevano asilo ai briganti (pardon: banditi), per riceverne un doppio (anzi, triplo) beneficio: porre fine alle devastazioni dei propri beni, avere un “corpo di guardia” e difesa straordinariamente efficace e privo di scrupoli ed, all’occorrenza, servirsene per le vendette private o per le infinite liti contro altri loro pari.
Ma la strategia premiale del Regno non si esauriva con l’indulto per i banditi che uccidevano un capo o con le taglie a favore di chi (anche non bandito) consegnasse la testa di un capo banda (per i non banditi esisteva la possibilità di taglie, in misura ridotta, anche per l’uccisione di banditi non riconosciuti come capi): le infinite guerre di successione che insanguinarono l’Europa del Seicento richiedevano continue e robuste iniezioni ricostituenti di “carne da macello” da mandare al fronte. E chi poteva far comodo meglio di gente adusa a commettere delitti senza batter ciglio ed a non andare mai per il sottile, specie nelle occasioni in cui, come una battaglia, la superiorità di una delle parti in lotta era spesso decisa dall’irruenza e dalla forza bruta dei combattenti? Quindi, gente così era meglio averla per alleato e servirsene per i propri “gloriosi” fini, piuttosto che impegnare preziose risorse per debellarla, per giunta con risultati assai deludenti!
Esemplare, in tal senso, fu l’azione repressiva del Duca del Carpio: mano durissima contro banditi e baroni recalcitranti, con contorno, come detto, di demolizioni anche di torri e castelli baronali, oltre che delle abitazioni dei banditi e del loro parentado più stretto, ma, al contempo, offerte premiali di indulto in caso di presentazione della testa di un capo-bandito. Forse non a caso, si assistette anche, in quel periodo, ad un lugubre commercio di teste mozzate (addirittura, in qualche caso, ne furono usate come titolo di credito), che non sempre, tra l’altro, corrispondevano esattamente a quella di un bandito, ma, spesso, anche di innocenti che magari nulla avevano a che fare con i crimini perpetrati nel loro territorio. Oppure, di “redenzione” perpetua, da conseguire prestando servizio militare in guerra: non si trattava più di “mettere ai legni” i criminali incalliti, ma di utilizzarli indecorosamente pur di raggiungere scopi ed obiettivi considerati irrinunciabili (quali gli accaparramenti di altre sovranità – a scapito dei popoli che vi ricadevano).
In Calabria, si diceva prima, nel Seicento gli effetti del brigantaggio (pardon: banditismo) non furono così devastanti come nel resto del Regno, ma sopravvivono i nomi di capi banda come Antonio Paladino e Alfonso De Dominicis, quali destinatari di due dei cinquantanove indulti che furono comminati, fra il 1664 ed il 1679, per utilizzarne i destinatari ad “altri usi”, o di quello dell’“Abate Antonio Monsolino et suoi frati”, accusati di dare protezione ai banditi e finanche di servirsene per imporre la primazia sul territorio. Per chi rifiutava di “redimersi”, l’ordine era di infliggere pene “mayores de la muerte”, cioè “accecarli e mutilarli di mani e piedi e poi abbandonarli a sé stessi”, di modo che “la vida les fuera pena i la muerte reposo” (da: E. Ciconte, Banditi e briganti).
Nonostante queste misure estreme, barbare addirittura, il banditismo, che nel Seicento imperversava dalle Venezie alla Calabria e nelle isole, fu ben lungi dall’essere distrutto, e nel secolo successivo riprese con virulenza soprattutto al Sud, dove le condizioni di vita ed i sistemi amministrativi spesso pachidermici e corrotti funzionavano da pericolosa miscela incendiaria.