Il Natale di Pasquino
- Bruno Salvatore Lucisano
Il Natale è una data cruciale nella storia del Cristianesimo. E non sono pochi i problemi che la nascita del Cristo sollecita. Tra tutti, quello della concordia tra il Vecchio Testamento, che, secondo Gioacchino da Fiore, è l’età del padre e della schiavitù, e il Nuovo Testamento, che sempre secondo Gioacchino da Fiore, è l’età del Figlio e dell’amore.
Non vogliamo infilarci dentro questa discussione, cioè, quello della concordia o sconnessione tra Vecchio e Nuovo Testamento. Per noi e per tutti il certo è che con la nascita del Cristo si attua un addomesticamento, oserei dire un incivilimento, della religione di Geova, che diventa più umana, più colloquiale, povera di punizioni alluvionali e ricca di speranza. La quale, testé rinverdita dall’Enciclica di Papa Benedetto XVI, non può morire mai. Perché se questo avvenisse, morirebbe la preghiera. Il che davvero non può darsi.
Ora, l’ispida speranza, sollevata dal cristo, è il sorprendente annuncio, mai detto prima, che tutti gli esseri umani sono uguali davanti a Dio, e degni di Dio. Per questo uno degli scrittori più interessanti del Novecento, Elio Vittorini, ha scritto che nessuno prima di Cristo ha detto parole più alte delle sue e che, comunque, niente di quello che è stato scritto dopo e in contrasto con quello che aveva dentro il Cristo. Al quale si deve pure il trascinamento della donna, la sua eccelsa Madre, dal buio alla luce della storia e, quindi, dei cieli.
Il Cristo ha predicato. La sua universalità, non circoncisa dai dottrinari della fede incarcerata nelle formule, consiste nella oralità del messaggio. Tutti possono riceverlo e, se vogliono, intenderlo. Dunque, la grandezza incontrovertibile del Cristo, e da nessuno negabile, e dove si trovano credenti e non credenti, sta nel fatto che non ha scritto. La parola scritta discrimina. Perciò da Lui fu scartata.
Fu una scelta di classe? Se si pensa al grandioso ed insuperabile discorso della Montagna, si potrebbe osare di sì. Certamente, fu una scelta di umanità, dell’umanità povera, che non sapeva leggere e non sapeva scrivere. E sarebbe rimasta fuori dal suo messaggio. Non c’è legittimo dubbio: per il Cristo fu il popolo, che è oralità, come pure Lui fu ed è oralità. Le due oralità, se non si vuole bestemmiare, non sono eguali. Sono vicinanze coincidenti. Interscambiabili. Così davvero il popolo è il popolo di Dio. È il prescelto. Il resto verrà dopo. Intendo: la parola scritta, che si fa poesia. Ma anche qui è la poesia orale del popolo, che precede.
Natale scende dalle stelle con i canti dei poeti del popolo, che vibrano il dialetto, la lingua orale per eccellenza e per eccellenza lingua umile. E il Natale – come in questa rassegna – i poeti del popolo cantano, rievocano, ricostruiscono nel tempo plurale: nella nostalgia, parola binaria che cova passato e presente; nella speranza, trina parola, che contiene passato, presente, avvenire. Poiché sperare significa guardare indietro, giudicare il presente, costruire il sogno del domani. Ancora una volta e di più: la speranza non può morire. Se non ci fosse la speranza, che il Natale di Cristo ha espugnato contro le vecchie culture misogine, tutto il tempo sarebbe finito. E finito male. Con la vittoria del male. Evviva il Natale.
*Introduzione a: NATALE, scendendo dalle stelle con i poeti del popolo, Città del Sole Edizioni (RC), dicembre 2007.
Nell’antologia sono presenti i poeti: Michele Pane, Vittorio Butera, Napoleone Vitale, Ciardullo, Francesco Salerno, Giuseppe Coniglio, Giuseppe Morabito, Achille Curcio, Salvatore Borelli, Luciano Nocera, Antonio Zurzolo, Pasquale Favasuli, Franco Blefari, Giovanni Favasuli, Bruno S. Lucisano, Totò Mediati.