Il principe dei briganti
- Fortunato Nocera
La mattina del 19 agosto 1299 Gervaso, servo pastore del monastero di San Giorgio, aveva condotto il gregge di pecore nella vasta radura del bosco di lecci e querce di proprietà del cenobio basiliano, detto Bosco della Batia, distante da esso circa un miglio. L’erba, in quel grande prato di circa una salmata e mezza, formatosi dopo l’abbattimento di centinaia di lecci per farne carbone, era come un’isola verde in un mare di alberi, in maggioranza querce gigantesche, giacché in esso vi cresceva un’erba folta e verde, ancorché si fosse in piena estate.
Gervaso stava seduto sul masso grande, al centro della radura, per controllare i movimenti del gregge e suonava un piffero a doppia canna che aveva costruito da sé, come gli aveva insegnato il nonno Andrea, morto ormai da due anni.
D’un tratto, come uscito dal nulla, apparve un manipolo di cavalieri armati di tutto punto, con gli elmi chiusi e le celate abbassate, indossanti armature a cotta di maglia, ma qualcuno la più moderna armatura a piastre. I cavalli di grande struttura, avevano tutti barde rosse con ricami di un’arma principesca – un colonna su sfondo verde sormontata da un corona – Alcuni di loro scesero da cavallo e si avvicinarono al giovane con piglio deciso, fecero delle domande parlando un lingua strana che il pastore naturalmente non poteva capire e quindi non rispose. Gervaso tremava come l’avesse assalito una febbre improvvisa e roteava gli occhi senza rispondere.
Quello che sembrava il capo della comitiva, con la mano ancora coperta dal guanto di ferro gli sferrò uno schiaffo che lo ferì facendolo sanguinare. Alcuni di loro catturarono due pecore, le scannarono senza indugio, poi le appesero ad un ramo dell’albero più vicino ed iniziarono a scuoiarle dimostrando una notevole perizia, mentre gli altri si liberavano delle pesanti armature. Il ragazzo tremava e piangeva; si inginocchiò ai piedi di colui che sembrava il capo e, nella sua lingua- dialetto greco bizantino – lo pregava di risparmiargli la vita e di lasciarlo andare via con il suo gregge, senza ricevere, naturalmente, alcuna risposta.
Dalla radura, posta al culmine di una altura, era visibile, guardando verso sud, una piccola catena di rocce con al centro uno sperone appuntito che soverchiava in altezza tutti gli altri.
Il cavaliere notò subito quel posto di straordinaria bellezza paesaggistica che aveva tutta l’aria di essere una fortezza militare, anche se, da così lontano, non si distinguevano muraglie e fortificazioni, confuse nel caos roccioso. Cercò di sapere dal ragazzo cosa fosse quel masso enorme, messo lì tra gli altri, come un indice puntato verso le nuvole. Gervaso non capiva, ma cercò di interpretare cosa volesse il cavaliere indicando insistentemente verso quella direzione.
-“Castron”- rispose infine tremando. Il cavaliere capì che quel sasso enorme era o era stata una fortezza. Era quello che cercava. Quello che gli era stato indicato come posto sicuro per nascondersi e per difendersi dagli sgherri di papa Bonifacio VIII che erano alla sua ricerca, da più di un mese, da quando, cioè, era scappato con alcuni dei suoi dal confino di Tivoli, dove il papa l’aveva condannato a soggiornare forzatamente, assieme agli altri parenti Colonnesi, dopo avere fatto radere al suolo la città di Palestrina (13 giugno 1299) capitale di tutti i feudi dei Colonna, averla fatta arare e a spargervi sopra il sale, come avevano fatto i romani a Cartagine, ed aver atterrato tutti i loro castelli. Gli altri membri della grande famiglia si dispersero per tutta la penisola: alcuni in Liguria, altri in Toscana, altri in Francia, altri ancora negli stati angioini. Pietro Colonna, fratello di Giacomo “Sciarra” Colonna, prese la via del Sud alla ricerca di un luogo dove nascondersi ed attendere i momenti della vendetta – che vennero qualche anno dopo, quando il re di Francia Filippo il Bello, anch’egli scomunicato dal papa, alleatosi con i Colonna, li aiutò nella vendetta, mandando a Roma il suo più fidato consigliere Guglielmo de Nogaret; questi assieme a Sciarra Colonna marciò sulla città papale di Anagni, feudo dei Caetani, la conquistò e prese prigioniero il papa, umiliandolo di fronte alle truppe francesi. Si dice che Sciarra abbia anche schiaffeggiato il pontefice-.
Pietro e la sua “banda” raggiunsero in poche ore la Fortezza, detta delle tortore, anche se l’itinerario non era dei più agevoli svolgendosi per stretti sentieri, appena accennati, spesso a perpendicolo su profonde forre ed orridi bui. Il castello era stato costruito dai bizantini nel VIII secolo, come residenza militare e presidio di controllo sulle strade carovaniere aspromontane, e successivamente usata dai normanni e dagli svevi; ma ormai abbandonata da quando regnavano gli angioini. Trovarono il maniero deserto, ma in eccellenti condizioni e lo resero più efficiente nei circa due anni che vi dimorarono, prima di abbandonarlo per il ritorno a Roma.
In quei due anni il principe e i suoi militi si distinsero per la loro malvagità e cupidigia, furono il terrore dei pochi villaggi che vi sorgevano intorno, vivendo di rapine e stupri. Si trasformarono in una vera banda di grassatori, predatori e, non raramente, assassini. Di notte si aggiravano per le valli come lupi a sorprendere pastori inermi e pacifici carbonai a cui portavano via tutto quello che era trasportabile. Molte furono le donne che sparirono dalle loro case, per poi ricomparire, a volte dopo mesi, distrutte moralmente e fisicamente.
L’imprendibilità della rocca consentì alla banda del principe di farla franca; anche quando il feudatario del luogo decise di stanarla per combatterla.
Poco distante dal castello, passava la via pubblica, l’unica che permettesse di raggiungere la città di Hyerax ed i villaggi al di là della catena appenninica sul versante del mar Tirreno. Sulla via pubblica, in una stretta gola, avevano creato un posto di blocco: i mercanti e i pellegrini che vi passavano dovevano pagare, per il transito senza conseguenze, uno sbruffo in danaro o merci.
Ma ci fu chi tenne loro un agguato. Una notte di novilunio cinque soldati arrivarono in un ovile cercando di sorprendere i pastori; ma costoro si aspettavano la “visita”, ormai consueta, e li sorpresero a loro volta alle spalle, armati di lunghi coltelli e di accette a manico corto affilatissime. Due degli sgherri di Pietro Sciarretta ed un pastore perirono nella lotta in quella notte senza luna. Era la prima reazione armata e la prima sconfitta della soldataglia del principe. I pastori all’alba lasciarono quell’ovile, ormai pericolosamente esposto, e guadagnarono, insieme al gregge, una valle più lontana, piedi di Montalto, vicina al santuario di Polsi.
Ma passavano i mesi e gli assalti, anche se più sporadici, continuarono; fino a che al Castello giunse un messaggero da Roma, che portò al principe la novella: il consigliere del re di Francia Guglielmo de Nogaret era giunto in Italia deciso a chiudere la partita con il papa. Era giunta l’ora della vendetta. Bisognava partire subito. Tre giorni dopo il drappello armato si mise in marcia verso Roma, percorrendo in fila per uno, la via di fondo valle. Gervaso dall’alto della radura sulla quale pascolava il gregge avvistò la colonna e se ne compiacque. Era finito un incubo, durato quasi due anni.
Nel cielo terso della splendida mattinata di marzo due corvi imperiali disegnavano giri lenti e solenni gracchiando furiosamente, come se anche essi gioissero della partenza dei briganti.