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Il racconto. Gli scolari, la anarada, il fiume

  •   Franco Borrello
Il racconto. Gli scolari, la anarada, il fiume

Le Nereidi che al seguito dei coloni greci, gelosamente custodite nella loro memoria, sbarcarono secoli fa su queste terre sono, col tempo, diventate le Anarade e, da divinità del mare tranquillo, benigne agli uomini, si trovarono trasformate, da un’approssimativa e fantasiosa trasmissione orale, in megere dai piedi di mula che di giorno stavano coricate e la sera uscivano, volando a cavalcioni di un ramo di sambuco, in cerca di bambini da mangiare.

Così, assieme a fuddhitti e draghi (nell’area della bovesìa intesi come orchi), hanno popolato fiabe e leggende grecaniche e anche gli incubi dei fanciulli più impressionabili. Ancora oggi, qualche nonno trapiantato a Reggio racconta delle Anarade ai nipoti che hanno voglia di ascoltare. Che hanno voglia di ascoltare, che hanno voglia di apprendere le tradizioni, che hanno voglia di imparare la lingua degli avi. E proprio per riscoprire le proprie radici un gruppo di studentelli, che aveva frequentato un corso di grecanico, un giorno risaliva il greto dell’Amendolea con la loro professoressa, approfittando della gita di fine anno. Ad un tratto, ad una cinquantina di metri da loro, videro una scena ormai inconsueta: una donna nella fiumara che sciacquava dei panni. Una vecchina vestita di nero con un gran fazzoletto in testa. «Calispera!» gridò sbracciandosi la professoressa che guidava il gruppo. Ma la vecchietta continuò nelle sue occupazioni senza neanche voltarsi. «Calispera! Ti cannite?» (Buonasera! Che fate?) insistette la professoressa. «Ode immasto!» (Qua siamo!) rispose quella restando girata. «Pose guenni?» (Come va?) «Ode immasto!» e non si voltava. «Elate ode!» (Venite qua!) «Ode immasto!» rispose di nuovo continuando a non mostrare il volto. Qua siamo e, volle sottintendere, qua intendiamo rimanere! Era chiaro che non aveva alcuna voglia di parlare né di farsi vedere. Ma perché questo atteggiamento? Ad un tratto uno dei ragazzini ebbe l’intuizione: «Guardate! Tiene i piedi dentro l’acqua. Non esce per non farci vedere che ha i piedi di mula. É un’Anarada!». A questo punto la vecchia, sempre tenendo i piedi nell’acqua, cominciò a risalire la fiumara e svoltò dietro una grande roccia che la nascose alla vista dei ragazzi. Un paio di questi, tra i più coraggiosi, le corse dietro. Ma, giunti dietro la roccia, restarono a bocca aperta: della Anarada nessuna traccia, era letteralmente sparita! Uno di loro trovò la spiegazione: «Guardate là: ci sono dei sambuchi, sicuramente ne ha staccato un ramo, ci è salita sopra ed è volata via!». Quella sera, in una bella casa di Reggio, un nipotino tutto eccitato raccontò al nonno che era vero che l’Anarada esiste. Ed ha veramente i piedi di mula anche se sembra una donna come le altre. Ma lui l’aveva vista con i suoi occhi volarsene via a cavalcioni di un ramo di sambuco che se glielo raccontava un altro non ci credeva. Quella stessa sera, in una casetta della vallata dell’Amendolea, invece, una nonna raccontò ai nipotini che a ottant’anni e passa si era dovuta mettere a giocare a mmucciareddhu per non farsi vedere da mia murra zzè pedìa àsqueta ce mèrmera (na murra di figghioli ‘nqueti e dammaggiusi) e dalla professoressa che li portava in giro. Era rimasta nascosta più di mezz’ora dietro la rocca dei sambuchi, come quando era ragazzina. E prima era stata costretta a camminare potamò-potamò me ta pòdia sto nerò (hjiumara-hjumara con i piedi nell’acqua) perché si vergognava a farsi vedere scalza. E loro dicevano che era un’Anarada invece di pensare a quello che erano le loro madri e le loro sorelle. E aggiunse che tutti quelli che si interessano del greco, o del grecanico come lo chiamano loro, solo quando vedono dio combo zzè runicò (ddhu’gruppi di saddizzu), era ora che la smettessero na clausi ta divuzionia (mi nci ruppinu li divuzioni). Ta bisia! (Le… scatole!) corresse efficacemente il più piccolo dei nipoti, che non aveva frequentato il corso di grecanico ma qualche parola la sapeva lo stesso.


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