Il racconto. Il giorno dei morti
- Rocco Palamara
Per commemorare degnamente i defunti era d’uso che, dopo la messa di ognissanti, un gruppo di donne si recasse al cimitero per liberarlo dalle sterpaglie e renderlo accessibile e pulito per “il giorno dei morti”. Una volta fu della squadra anche mia nonna Carmela che come al solito mi portò con se.
Per prima cosa raggiungemmo le altre donne nel punto stabilito presso la fine del paese. Tutte – compresa mia nonna – arrivarono munite non di fiori, ma di falci e di roncole.
Insieme intraprendemmo la ’insilicata in ripida discesa verso Africo e, col passo veloce di sempre, arrivammo presto in contrada Castagnare e davanti al cimitero. Là mi avvidi che dietro il cancello del quadrato murario il camposanto era veramente impraticabile perché fittamente coperto di felci giganti e di rovi. Arbusti che le donne (chi con la roncola, chi con la falce) si affrettarono a tagliare.
Malgrado la loro maestria ci volle un bel po’ per sgombrare la strana foresta e rendere visibili le tombe, poi – poiché delle più non c’era traccia di nome, tumulo e a volte nemmeno della croce – altro tempo ancora ci volle per individuare ogni una quelle dei propri cari. Basandoci su labili segni e le vicinanze tra i sepolcri, trovammo anche noi quella di mia bisnonna Lucia morta 20 anni prima.
Solo allora le donne deposero i ferri e si accostarono a quella sorte di tumuli, passando repentinamente dal lavoro al pianto.
In breve i lamenti si levarono da tutte le parti tra le mura muschiate del cimitero.
Mia nonna – ricordo – fu la sola a non piangere. Non era nel suo essere, forestiera delle marine, accordarsi a quella comunione di più antico fondamento e poiché, per fortuna, non avevamo morti recenti, si espresse nel modo a lei più congeniale e che reputava anche più utile: estrasse l’inseparabile rosario e insieme pregammo per le anime di tutti quanti i ‘mbiatimorti e il loro riscatto dal purgatorio.
Poi, quando – come per un ordine superiore – i pianti finalmente cessarono, in breve ci ritrovammo nuovamente tutti quanti fuori dal camposanto per risalire ancora insieme verso il paese.
Il ritorno si fece col solito vivace chiacchiericcio femminile. Non sembrava perdurare il dolore nell’atteggiamento di quelle donne che poco prima avevano così pianto. I ‘mbiati morti erano stati onorati e restava ancora da piangere per il giorno dopo: quello proprio dei defunti. Poi sarebbe ritornato il tempo da dedicare ai vivi: alla famiglia, al lavoro dei campi e alle altre incombenze non poco numerose.
A meno che non ci fossero deceduti da accompagnare, dopo il giorno dei morti non ci sarebbero state altre visite al cimitero, dato che non era d’uso andare privatamente dai defunti. Come ogni cosa da noi era stabilita per “diritto”, anche ai morti toccavano solo le visite canoniche che coincidevano con le loro messe: quella “dell’otto” (all’ottavo giorno della morte); quella “del trenta” (al compimento del mese); l’altra detta “dei 3 mesi” e quella dell’anniversario della morte. Poi i defunti sarebbero stati lasciati in pace nella loro solitudine per riviverli nei ricordi; incontrarli nei sogni; nominarli con rispetto nei discorsi di tutti i giorni e nelle conversazioni serali; difendendone la memoria e consolando le loro anime con le preghiere, eventuali messe straordinarie e le donazioni “per l’anima dei morti”.
I rovi e le felci giganti sarebbero risorti rigogliosi nel cimitero.