Il racconto. Una serpe da Mastro Mico
- Francesco Marrapodi
Lo dissi in uno dei miei primi articoli. Lo dissi allora e lo ripeto oggi. Dichiarai cioè la mia perplessità sul luogo di provenienza (o meglio di origine) del nostro benamato Pitagora. Tutti sanno che il celeberrimo filosofo nacque nell’isola di Samo. Ma non tutti sanno che all’epoca esisteva anche un’altra Samo, precisamente sulle nostre coste. Samo di Magna Grecia. Vi starete sicuramente chiedendo cosa abbia a che fare tutto ciò con quanto andremo ad affrontare. Semplice: è mia intenzione cercare nei resti della nostra cultura tracce riconducibili al filosofo. Perché? Perché davvero (in nessuna occasione) dovremmo abbassare la guardia, né sfuggire alla possibilità di dimostrare ciò che potrebbe spettarci per diritto acquisito. Poiché il soggetto in questione, Pitagora, potrebbe essere nato in questa e non nell’altra Samo.
É altresì necessario che si sappia che l’attuale Samo, piccolo borgo aspromontano, già da diverso tempo ne rivendica la paternità. E noi non possiamo che essere d’accordo. Immagino, tuttavia, che sia difficile dimostrare con fatti quanto facilmente espresso a parole. Eppure, paradosso dei paradossi, per arrivare a tale proposito basterebbe che ci spostassimo in avanti di poco più di duemila anni dalla nascita del filosofo, vale a dire ai giorni nostri, o quasi. Per inteso, questo va ben lungi dalla conferma che Pitagora nacque a Samo di Magna Grecia, andrebbe però ad aggiungere un importante tassello nel nostro casellario di ricerche. Ma vediamo come e soprattutto perché.
Racconta mastro Mico, custode del cimitero che già da diverso tempo, tutte le mattine, incontrava una serpe nei pressi di una tomba, al sole. Appariva tranquilla la povera bestiola, come se nulla potesse turbarla. Docile era, sempre collocata al suo solito posto; immobile, intenta a scrutarlo con occhi languidi, quasi si fosse stabilita, (o meglio, ci fosse già stata in precedenza) una certa intimità tra i due. Alla fine, mastro Mico non poté che cedere alla convinzione che si trattasse dell’anima benedetta di una persona già morta ma che lo stesso aveva conosciuto in vita, probabilmente un suo parente. E dal momento che la suddetta anima non appariva ostile ai suoi occhi, pensò di ignorarla. Anzi, pensò addirittura di dedicarle le attenzioni che si rivolgono alle persone. Così che ben presto diventò una specie di compagnia per lui. Una compagnia con la quale soleva scambiare di tanto in tanto poche chiacchere, pure se essa non gli rispondeva. Del resto – come lui stesso racconta – non era cosa nuova che questa o quell’altra anima di persone già morte, si fossero appropriate del corpo di un qualsiasi animale, di un cane ad esempio, di un gatto, magari di un topo, o, come nel suo caso, di una serpe. Ora succede che, una bella mattina, arrivato a lavoro di buonumore, nel vedere la serpe al suo solito posto, un po’ per gioco, un po’ per sfida, le rivolse queste parole: «O essere del purgatorio se davvero, come io credo, sei un’anima, alzati in piedi». E questa, manco avesse capito ogni singola parola di quanto le aveva comandato, si eresse sulla coda e, emettendo uno strano suono, procedé verso di lui.
Racconta mastro Mico che, morto dallo spavento, lasciò gli attrezzi da lavoro e si diede a una fuga disperata. Ci vollero un bel po’ di minuti e un bel paio di bicchierini di cognac per farlo riprendere dallo shock. Se ne tornò a casa e per un paio di giorni rimase a letto con la febbre. Questo è quanto a tutt’oggi lui stesso racconta. Povero mastro Mico: probabilmente non sapeva che una certa verità c’era in tutto questo. Una verità culturale. Una realtà che noi, per forza di logica, rapporteremo a Pitagora. La stessa realtà che, parecchi secoli prima, il filosofo samese impartiva tra le popolazioni della Magna Grecia. La metempsicosi. Ossia quella famosa dottrina che celebrava la trasmigrazione dell’anima da un corpo e l’altro. Lo stesso Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VIII, 4-5) insisteva sul fatto che Pitagora avesse vissuto diverse vite, di cui egli medesimo diceva di ricordare.
Pitagora sosteneva, infatti, che la sua anima avesse effettuato il suo percorso formativo, passando in continuazione da una pianta all’altra e infine in corpi di animali, e da essi agli esseri umani. Questo sarebbe dovuto durare fino a che si compiva il ciclo di purificazione: mille anni circa. Ma non fu solo Diogene a sostenere ciò. Altri raccontarono che il filosofo si fosse reincarnato nel corpo di un tale Periandro, poi in quello di un uomo chiamato Etalide e, infine, in quello di Alco, una bellissima donna che di mestiere faceva la vita. Senofane dice che Pitagora un giorno trattenne per un braccio un uomo che stava per bastonare un cane. «Ti prego,» gli disse «non picchiare il tuo cane giacché in esso si trova l’anima di un mio amico, di cui ne ho appena riconosciuto la voce». Questo, in un certo senso, confermerebbe che le nostre convinzioni in tale campo inzuppano le radici in suddetta cultura. Perché si tratta di una pratica in corso fino a pochi anni fa nel basso ionico reggino. Il che, naturalmente, ci consente di aggiungere un altro piccolo tassello alla nostra ricerca. Sarei pertanto propenso a considerarlo un dato certo, dal momento che la zona di influenza di Pitagora si estendeva da Sibari a Metaponto, dove sembrerebbe non vi sia rimasta traccia della metempsicosi.
É pertanto possibile che si tratti di una cultura che all’epoca lo stesso Pitagora aveva preso in prestito dal suo luogo di origine, cioè da Samo di Magna Grecia? Una cultura sbarcata con i primi coloni insieme al loro bagaglio di speranze?
É possibile, sì! Una cultura che si è perpetrata fino ai giorni nostri solo in summenzionato territorio, cioè il luogo di massima diffusione della stessa. Non per nulla, fino a pochi anni fa, nelle fredde notti d’inverno, quando si era raccolti accanto al focolare, i nostri antenati narravano delle anime di questo o di quell’altro parente, costrette a espiare il loro ciclo di reincarnazione transitando da un corpo all’altro.