L'analisi. Da dove nasce il pregiudizio sui calabresi
- Pino Gangemi
La costruzione e l’evoluzione dell’immagine stereotipata del Calabrese.
In due aperture dell’anno giudiziario calabrese, si è arrivati a sostenere che il 27% dei Calabresi sono organicamente collegati alla ‘ndrangheta. Questo dato viene contestato da chi, come Mimmo Gangemi, sostiene che il dato è stato moltiplicato per dieci (insieme al reddito prodotto dalla ‘ndrangheta che è stato stimato moltiplicandolo per 12 e più) e chi, come Gioacchino Criaco, che lo dichiara incredibile e se ne serve per motivare una lotta alla ‘ndrangheta che non sia fatta dai soli completamente buoni, ma anche dai mezzo buoni e mezzo non buoni che migliorano il mondo con il loro agire. Anche Mimmo Gangemi cita il dato per porsi una domanda che, a mio avviso, va usata con cautela: cui prodest? Chi trae vantaggio in termini di avanzamento di carriera a rappresentare un dato così esagerato? La cautela consiste nel saper distinguere ciò che Alexis de Tocqueville ha definito come “interesse personale correttamente inteso” e ciò che tradizionalmente si considera “interesse personale egoistico”. In altri termini, il “cui prodest?” usato senza cautela colpisce sia l’interesse personale egoistico (cosa che è un bene), sia l’interesse personale correttamente inteso (cosa che è un male perché disincentiva alla lotta contro il male e presuppone che lottino contro il male solo i puri e i santi). Il che fa capire che il “cui prodest?” di Mimmo Gangemi e la lotta anche dei non completamente buoni contro il male di Gioacchino Criaco sono due strategie contrapposte e incompatibili.
Parlerò, forse, in altra occasione di queste due strategie, mentre mi concentrerò su una terza, alternativa ad entrambe. La strategia che, dopo aver rilevato che il dato, sia nel caso sia errato (frutto di un errore di calcolo o rilevato male), sia nel caso sia incredibile (a livello di una piaga biblica, come sottolinea Criaco), va valutato in riferimento al come e perché sia possibile che sia creduto.
Il grande sociologo Vilfredo Pareto ha autorevolmente sostenuto a proposito di ogni errore di logica o di dati: quando si riscontra una situazione del genere, di un dato errato e incredibile o di una conclusione logica incredibile che vengono creduti e autorevolmente accreditati, non si tratta più solo di un problema di logica o di una questione di conoscenza o di scienza, perché è evidente che nasce da un problema di natura sociale. Questo problema, nel caso della Calabria, è quello che vorrei chiamare pregiudizio-Calabria. Un pregiudizio che, per arrivare a rendere credibili errori così macroscopici nei dati, ha avuto bisogno di secoli per affermarsi, passo per passo. È la lenta e graduale formazione di questo pregiudizio e del come abbia finito per affermarsi presso gli stessi Calabresi la terza strategia argomentativa che vado adesso a proporre. Una strategia che bypassa, per il momento, il problema di come (cioè con quale tipo di alleati) contrastare questo risultato e il problema del chi ci guadagna a fare in questo modo (ne parlerò, certamente, in altra occasione e, forse, in latra sede).
E siccome questa terza (rispetto alle due di Mimmo Gangemi e di Gioacchino Criaco) strategia argomentativa fa riferimento a una progressione graduale di secoli, debbo, ovviamente, cominciare da lontano.
PREGIUDIZIO-CALABRIA
PRIMA PARTE: DAL XVI al XVIII SECOLO
Il maggiore contributo che la Calabria ha dato alla letteratura italiana è certamente il personaggio di Galiziella (che si evolve e diventa, con qualche differenza, Bradamante) e il tema dell’amore (e del rispetto) tra nemici. Un tema che rimane presente nella letteratura italiana fin quando Galiziella o Bradamante rimane protagonista di opere letterarie (cioè per quasi tre secoli, dalla fine del XIV secolo al 1620, per le versioni scritte, e per quasi sette secoli per le versioni orali). Purtroppo, di questo personaggio se ne parla poco nei libri di testo perché le più antiche versioni orali, probabilmente in greco-calabrese, sono state trasferite in manoscritto, per la prima volta, in lingua normanna senza il personaggio di Galiziella e solo successivamente, in lingua italiana, con il personaggio di Galiziella (I cantari d’Aspramonte, di autore sconosciuto e il romanzo Aspramonte, di Andrea da Barberino).
Di Galiziella si comincia a parlare nei manuali di letteratura quando prende il nome di Bradamante, nel 1494, con Matteo Maria Boiardo che lascia incompiuta un’opera dal titolo Orlando Innamorato. Quest’opera viene pubblicata a stampa nel 1495. Nel 1516, Ludovico Ariosto pubblica la prima edizione dell’Orlando Furioso che comincia da dove si è fermata l’opera di Boiardo. Poi, nel 1532, Torquato Tasso inserisce Bradamante nell’Orlando Furioso.
Queste opere hanno molto successo e incuriosiscono molti lettori che vogliono sapere di più sui paladini di Carlo Magno, su Bradamante, etc.
Appena qualche anno prima della pubblicazione dell’Orlando innamorato, un anonimo pubblica un’edizione a stampa di una Canzone d’Aspramonte. L’incunabolo, stampato da Jacopo di Carlo e Piero Bonaccorsi, manca di ogni indicazione relativa all’anno. Marco Boni data questa pubblicazione al 1487-90.
Questo poemetto, con modifiche più o meno ampie, ma mai per mano di un poeta o narratore paragonabile ad Andrea da Barberino o all’autore dei Cantari d’Aspramonte, verrà ristampato numerose volte, fino al 1620, per sfruttare la curiosità sui personaggi che suscita la popolarità delle opere di Boiardo, Ariosto e di Tasso. Con il 1620, l’oblio comincia lentamente a scendere sopra la Chanson d’Aspremont. E da quel momento, il rispetto reciproco tra nemici o avversari diventa secondario nella letteratura italiana. I Calabresi saranno i primi a risentirne.
Più o meno nel 1516, anno in cui Ariosto fa raggiungere a Bradamante il massimo dell’espressione artistica, Albrecht Durer pubblica una incisione (nel 1514), in cui sono presenti due figure che, opportunamente interpretate e utilizzate, sono destinate a seguitare (o perseguitare) in Calabresi nei secoli a venire.
La prima di queste è il pipistrello che si vede, in alto a sinistra.
Sono i Napoletani che, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, cominciano ad attribuire ai Calabresi lo stereotipo del pipistrello (e relativa nomea di melanconici, presente come scritta nelle sue ali aperte).
Dopo che l’abbinamento calabrese/pipistrello si è affermato, appena in teatro viene presentato un Calabrese, vestito con un corto tabarro nero, è sufficiente che apra il tabarro e lo tenga, con le braccia ben distese, aperto ai lati, e il pubblico scoppia a ridere.
Perché? In parte per quella mancanza di rispetto che si viene a perdere, in parte perché la canzone malinconica che caratterizzava fino a metà del XVI secolo l’intero Meridione, si evolve, nella prima metà del secolo, a Napoli, nella canzone allegra e scanzonata della Villanella. Questa ottiene un grande successo in Europa e apre la lunghissima stagione della canzone napoletana che, per quattro secoli, ottiene, ciclicamente, larga eco internazionale. I nuovi ritmi allegri e gioiosi della Villanella influenzano lo sviluppo successivo della canzone meridionale, tranne che per la musica calabrese. Questa non si lascia influenzare dalla gioiosa musica napoletana e rimane tradizionalmente melanconica.
Hanno motivo i Calabresi di essere melanconici nel XVI secolo? Certo che si! Dopo l’invasione di Carlo VIII di Francia nel 1494, la Calabria passa in secondo piano nella strategia di difesa del Regno e questo porta a concentrare al Nord di Napoli (a Gaeta e dintorni) le risorse per la difesa. I Calabresi sentono subito che sono destinati ad essere, come già era stato con i Bizantini nell’VIII-IX secolo, abbandonati a se stessi nei confronti delle offensive turche. E così sarà.
Diventati meno essenziali per la difesa di Napoli, i santuari e le parrocchie più ricche (le cui proprietà venivano precedentemente affittate ai combattenti contro gli infedeli) vengono affidati a nobili napoletani, romani o spagnoli o comunque sempre alle stesse famiglie che usano le relative proprietà per arricchirsi o ingrossare i propri patrimoni (vedi il ruolo della famiglia Zerbi che gestisce per oltre un secolo la carica nella ricca Parrocchia di S. Cristina d’Aspromonte). Inoltre, anche la decisione di cacciare gli Ebrei e quella di massacrare Valdesi e altri protestanti (oltre a vari cattolici che vengono uccisi, dopo false accuse di eresia, per poterli derubare delle loro proprietà), deprime (come scrive Girolamo Marafioti nel 1601) l’economia della Calabria.
L’accusa di melanconia riaffiora carsicamente nella storia della Calabria, ormai da circa cinque secoli. Per esempio, riaffiora nel 1792, nel Giornale di viaggio in Calabria, di Giuseppe Maria Galanti, che segnala luoghi insalubri, pieni di acque stagnanti e fetide, mentre racconta i Calabresi come melanconici, biliosi, etc.
Riaffiora ancora in Cesare Lombroso, nel 1862, il quale descrive i Calabresi come melanconici e biliosi, prima di aggiungere che sono anche briganti, criminali nati e cannibali. Una eco di questo pregiudizio-Calabria la si riscontra ancora oggi quando, per due anni, in due aperture dell’anno giudiziario, si arriva a sostenere che il 27% dei Calabresi sono o9rganioca,mente collegati alla ‘ndrangheta. Questo incredibile dato, che è frutto di un evidente errore, non sarebbe stato creduto con riferimento a un altrove diverso dalla Calabria. Come ha autorevolmente sostenuto Vilfredo Pareto, quando un errore di logica o di dati viene accreditato autorevolmente e a lungo, non è più una questione di conoscenza o di scienza, perché è evidente che nasce da un problema di natura sociale. Questo problema, nel caso della Calabria, è quello che abbiamo chiamato pregiudizio-Calabria che per affermarsi ha avuto bisogno di secoli.
Come si è detto, tutto comincia dopo il 1494, dopo l’invasione di Carlo VIII, quando si capisce che il pericolo più imminente e grave proviene dal Nord invece che dal mare, dall’acqua santa (il Papato) e non dall’acqua salata e la Calabria smette di essere fondamentale nella difesa del Regno. Con il 1503, e la trasformazione del regno in viceregno della Spagna, si sente una nuova atmosfera e si sviluppa, di conseguenza, una nuova cultura, radicalmente diversa rispetto alla precedente.
Fino a quel momento, era la Calabria che egemonizzava, con il proprio folklore e la propria arte, la visione dei rapporti sociali e il ruolo della donna nella società. Come aveva mostrato Virgilio, nell’Eneide, la vergine Camilla che combatte per la difesa della propria patria implica il bisogno di avere dei combattenti in più, soprattutto quando in estrema difficoltà. Le donne vengono considerate risorse che si buttano nella mischia solo per ultime e solo per necessità perché rivelano una estrema debolezza dei popoli che ricorrono ad esse. Il prezzo di questa funzione loro affidata è la concessione di una maggiore parità di genere. Questa parità era, nella cultura calabrese, perfettamente rappresentata da Galiziella che afferma il principio di sposarsi solo con un uomo più forte di lei, capace di poterla castigare.
La nuova cultura napoletana, subalterna alla Spagna e alla protezione che poteva fornire la maggiore flotta del mondo del tempo, sente il bisogno di rinunciare all’immagine della donna come capace di competere alla pari con gli uomini, nei campi stessi in cui essi primeggiano o dovrebbero primeggiare. La villanella esprime questa nuova immagine della donna, oggetto di amore e di venerazione, e in alcune canzoni sembra quasi una negazione letterale e puntuale della figura di Galiziella.
Una canzone molto nota, scritta nel Cinquecento e cantata ancora nel XX secolo. Certamente una delle più importanti tra le canzoni scritte sulle musiche della villanella, è la canzone “Si li ffemmine…”. Tradotta dal napoletano, questa recita così: “Se le donne portassero la spada, triste quell’uomo che le vuole bene, perché questa lo tormenterebbe non solo con la bellezza, ma anche con la spada…”. Con la villanella cambia completamente l’immagine della donna che diventa “sandali, trecce e sottane”, cioè donna che seduce quando nubile, donna di casa quando sposata e, infine, madre.
Non può non essere significativo questo riferimento alla donna senza spada il fatto che venga inserito, in una canzone di grande successo, in un momento in cui la letteratura del tempo (sia quella letteraria colta delle corti italiane ed europee, sia quella popolare), sta presentando come protagonista una donna guerriera. Entrambi i modelli, la donna guerriera e la villanella allegra e seduttrice, esprimono due modelli culturali alternativi, in competizione tra loro.
La visione calabrese della donna guerriera, dalla fine del Quattrocento, viene rilanciata da tre grandi della letteratura italiana, con il recupero e la reinterpretazione del personaggio di Galiziella: nel 1494, Matteo Maria Boiardo lascia incompiuta un’opera dal titolo Orlando Innamorato, che introduce il personaggio di Bradamante e che viene pubblicata a stampa nel 1495; nel 1516, Ludovico Ariosto pubblica la prima edizione dell’Orlando Furioso che comincia da dove si è fermata l’opera di Boiardo e dà un ruolo importante al personaggio di Bradamante; nel 1575, viene pubblicata la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso con Bradamante come protagonista.
Appena qualche anno prima della pubblicazione dell’Orlando innamorato, un anonimo ha pubblicato, in Italiano, una edizione a stampa di una nuova versione della Chanson d’Aspremont. L’incunabolo, stampato da Jacopo di Carlo e Piero Bonaccorsi, manca di ogni indicazione relativa all’anno di pubblicazione. Marco Boni data la stampa del volume al periodo 1487-90. Altre versioni, sempre in Italiano, della Canzone vengono pubblicate numerose volte (Boni ne elenca 14, ma ce ne è almeno una quindicesima), fino al 1620, per sfruttare la curiosità sui personaggi che suscita la popolarità delle opere di Boiardo, Ariosto e di Tasso.
Tre sono i punti di differenza che si manifestano tra la cultura napoletana e quella calabrese nel Cinquecento e nei secoli successivi, perché i Calabresi non si adeguano al nuovo modello reso egemone dai Napoletani:
1) Una visione guerriera della donna contro una visione esclusivamente domestica della stessa;
2) Un atteggiamento serioso e malinconico contro uno scherzoso e ridente;
3)Uno sviluppo della tarantella, dal XVII secolo, tendente a ricordare che il Calabrese è un guerriero (la danza mima un duello) mentre il napoletano esprime la propria gioia con un esagerato attivismo.
Era impossibile, data la diversa natura dei due popoli meridionali, che la Calabria si adeguasse a questo nuovo modello. E siccome non si vogliono adeguare, essi cominciano ad essere stigmatizzati dai napoletani, desiderosi di liberarsi dal modello culturale egemonico calabrese e vogliosi di affermare il proprio contrapposto al primo.