L'analisi. Gli anni del boom economico
- Cosimo Sframeli
La mafia americana, non fu un segreto, incamerava ogni anno più di 40 miliardi di dollari. Negli anni sessanta la ‘ndrangheta iniziava ad avviare, nella più generale disattenzione, la sua trasformazione legata all’occasione dei lavori per la costruzione dell’Autostrada Salerno - Reggio Calabria, la grande infrastruttura viaria che avrebbe permesso un collegamento più agevole col resto d’Italia, soprattutto per il versante tirrenico della regione. A tal proposito, si espresse chiaramente il pentito cosentino Franco Pino. L’afflusso di grandi somme di denaro pubblico nelle casse di tante ‘ndrine calabresi avvenne, senza colpo ferire, grazie al “singolare comportamento delle imprese del nord le quali, prima ancora di iniziare i lavori, avvicinarono i capibastone e trattarono direttamente con loro le mazzette da pagare in cambio di protezione; la guardiania sui cantieri attraverso l’assunzione di ‘ndranghetisti con il ruolo di guardiani, il subappalto dei lavori di sbancamento e il trasporto del materiale inerte”. Nel 1977, così scriveva lo studioso Nello Zagnoli: “Gli imprenditori del nord che abbiamo incontrati in fondo si trovano bene, fanno notare le esigenze moderate dell’Onorata Società, che la tangente si integra facilmente nelle spese generali, che non ci sono furti di attrezzi né scioperi, e che dopotutto nel nord bisogna sempre versare fondi nascosti ai partiti politici che controllano la zona dove si opera”. Continuava Franco Pino: “L’interesse della ditta madre ovviamente era di non avere grane sul territorio; l’uscita di tot soldi era già calcolata. All’inizio non sapevo tutti questi meccanismi. Poi ho cominciato a capire il sistema e, quando ho capito che c’era da guadagnare davvero, mi sono fatto amico un ingegnere che aveva uno studio a Roma e i fatti me li andavo a ragionare a Roma. Prima che il lavoro arrivasse a Cosenza, io sapevo già da Roma a chi era destinato, sapevo l’importo, quanto prendeva il politico, quell’altro quanto aveva avuto, sapevo che a nome di tizio figurava una ditta e lui non aveva neanche un camion. Quando ho imparato tutte queste cose non c’era più bisogno di litigare. L’estorsione più grossa che ho fatto è stata di 350 milioni di lire al mese: era per canalizzare dei tubi di metano nella zona della sibaritide, Tirreno e Jonio”. Dissero alla ‘ndrangheta: “Vi diamo quello che volete, ma non dobbiamo avere neanche un grammo di disturbo, questi devono essere dei lavori che devono iniziare e finire in incognito, nessuno se ne deve accorgere”. Addirittura, imprese tentarono di introdurre nei contratti d’appalto una sorta di «rischio Calabria», una percentuale sul costo delle opere pubbliche, richiesta allo Stato, per tacitare le cosche mafiose. Al processo contro i sessanta boss, celebratosi nel 1976 (De Stefano + 59), il Giudice Agostino Cordova annotava nella sentenza Istruttoria: «Quel che è sorprendente è il riconoscimento ufficiale del costo della mafia, trattandosi di circostanze, oltre che notorie, apprese presso la Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato». Fu una specie di manna dal cielo per la ‘ndrangheta che, nel periodo del nuovo grande esodo di massa di molti emigranti calabresi verso il Nord, iniziava ad avere a che fare con cifre veramente rilevanti, in confronto agli spiccioli che potevano essere estorti a modeste imprese locali della Piana, di Reggio e di poche altre località costiere, o delle cifre irrisorie che si potevano ottenere nei paesini dell’interno, con un’economia ancora legata alla pastorizia, a una agricoltura per niente meccanizzata. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro, nella sua testimonianza, chiariva che: “negli anni ’60 l’Onorata Società era comandata e rappresentata, in tutta la provincia di Reggio Calabria, da personaggi che, tutto sommato, garantivano una certa pax mafiosa tra i vari gruppi e famiglie territoriali. Erano incapaci, invece, di intervenire nelle faide familiari perché queste, erano ritenute fatti prevalentemente personali tra le famiglie”. La situazione cominciò a cambiare quando, alla fine degli anni sessanta, Nino Mammoliti, usciva dal carcere e rientrava a Castellace di Oppido Mamertina con referenze di primo piano, avendo trascorso molti anni in prigione con alcuni “uomini d’onore” siciliani e precisamente palermitani, stringendo, con alcuni di essi, il vincolo spirituale del comparato. Fu l’ingresso della famiglia Mammoliti nel vertice mafioso della provincia reggina, ponendola a destra dei Piromalli. I Mammoliti, in precedenza, erano noti per aver condotto una lunga e sanguinosa faida ed i loro nomi circoscritti e conosciuti solo ed esclusivamente a livello paesano. Sulla Costa Jonica il più conosciuto esponente dell’organizzazione era Antonio Macrì di Siderno. La sua figura, il cui nome ricorreva già dai tempi del fascismo e del Maresciallo Giuseppe Delfino, fu tratteggiata da vari ‘ndranghetisti e dalla popolazione che ne parlava con nostalgia e rimpianto. Aveva i tratti mitici del grande patriarca, dalle mille conoscenze e amicizie, dispensava premi e punizioni, amministrando potere in modo equo e non solo all’interno della sua ‘ndrina. Nel 1950 una sentenza del Tribunale di Locri faceva notare che «mentre altrove le controversie agrarie si discutono davanti al Tribunale e sono decise con sentenza, a Siderno e Locri si ricorreva alla occulta presenza del Macrì per imporre la volontà dei padroni ai contadini e ai mezzadri». Lo stesso Giacomo Lauro non fu da meno quando diceva che “era il capo dei capi, e non sono certo io ad avanzare o denigrare i suoi meriti. Sta di fatto che era, senza ombra di dubbio, contrario ai sequestri di persona. Per questo era sempre in disaccordo con i mafiosi della Piana di Gioia Tauro, di Platì, di San Luca”. Era il vero, l’unico rappresentante, con tutti i titoli in regola, che poteva stare dentro Cosa Nostra, con le “chiavi” per entrare negli Stati Uniti (New Jersey), Canadà (da Toronto a Montreal fino ad Ottawa) e Australia (la zona di Melbourne, Adelaide, Griffith). In Canada ed Australia c’era il “Siderno Group”, una dipendenza della “cosca madre” di Siderno e capeggiata dallo stesso Antonio Macrì. Dunque, le maggiori referenze e spinte ad un accentramento, che limitasse le lotte intestine, provenivano da Cosa Nostra, dalla mafia siciliana. Buscetta, parlandone con superiorità, affermava che i principali capibastone della ‘ndrangheta divennero “uomini d’onore” di Cosa Nostra. I mafiosi siciliani e i mafiosi americani avevano interesse a creare in Calabria dei punti di riferimento sicuri e permanenti. Si arrivò a proporre ai mafiosi calabresi di affiliarsi ritualmente a Cosa Nostra, con lo scopo di creare un doppio vincolo, più forte di quello derivante dal patto tra mafiosi provenienti da diverse regioni. Si trattava della doppia affiliazione, essendo i calabresi già affiliati ritualmente alla 'ndrangheta che, contrariamente alla convinzione di Buscetta, era formata da veri uomini d'onore. La doppia affiliazione fu una pratica che si andò estendendo tra i mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi. Masino Buscetta fu il pentito che nel 1984 rivelò al giudice Giovanni Falcone le informazioni a riguardo la struttura e l’organigramma di Cosa Nostra sulla base delle quali, nel 1986, fu possibile allestire un processo (c.d. maxiprocesso) contro centinaia di boss e gregari delle cosche, soprattutto grazie al riconoscimento del reato di “associazione a delinquere di stampo mafioso”, introdotto nel 1982 ed utilizzato in primis a Locri, Provincia di Reggio Calabria. Fu necessario alla ‘ndrangheta proiettarsi in un salto di qualità organizzativo e di mentalità, non certamente in senso etico. Pretendendo di continuare a detenere il comando su affari le cui proporzioni non potevano più consentire la gestione e l’agire di una ‘ndrangheta di tipo feudale, I vecchi boss vennero eliminati. Le nuove leve scalpitavano nei centri dove c’era maggiore dinamicità economica (Reggio e la Piana di Gioia Tauro), intessendo nuovi rapporti con altri poteri, più o meno occulti, dello Stato. In quel periodo, al vertice dell’organizzazione mafiosa calabrese si trovavano i fratelli Giuseppe e Giorolamo, detto Mommo, Piromalli, Antonio Macrì e Domenico Tripodo, affiliati anche alla mafia siciliana. Don Mommo, rispetto agli altri boss, aveva una mentalità meno legata alle tradizioni ‘ndranghetiste, convinto che l’organizzazione non poteva restare in eterno in conflitto con le Istituzioni statali, con cui bisognava allacciare rapporti per facilitare i nuovi affari. Fu attraverso la massoneria coperta, sull’esempio della mafia siciliana (Bontate, Inzerillo, Riina e altri lo erano), che nacque una struttura, gerarchicamente superiore, nella ‘ndrangheta: la Santa. Non fu subito chiaro il salto di qualità che la creazione della Santa, da parte dei Piromalli e dei De Stefano – ambiziosa famiglia del quartiere di Archi di Reggio Calabria, ricca e influente - aveva compiuto, nel suo complesso, in seno alla ‘ndrangheta. Era ignoto che la crescita avveniva tramite la presa di contatto con esponenti della massoneria, nella quale figuravano personalità di alto rango della società italiana e dello stesso apparato statale. Mario Guarino sosteneva che alla fine degli anni sessanta: “Macrì e Tripodo seguivano una strada legata alla tradizione. Ciò escludeva che lo ‘ndranghetista potesse intrattenere rapporti con uomini in divisa e con i magistrati, avendo questi prestato giuramento allo Stato. Anzi, colui che in famiglia aveva un parente nelle forze dell’ordine si vedeva respingere la domanda di affiliazione”. Piromalli si fregiò con la nuova qualifica di santista - diceva il pentito siciliano Gaetano Costa – ponendosi apertamente contro Macrì e Tripodo, che non volevano riconoscere le regole secondo le quali era esplicitamente possibile tradire pur di tutelare un santista. In realtà la Santa permetteva, soprattutto a chi entrava a farne parte, di essere accolto automaticamente nella massoneria, nella quale Peppino Piromalli era già associato da tempo – confermava Gaetano Costa - “… il conoscere componenti di tale organizzazione mi avrebbe potuto aiutare in tutte le esigenze, non ultima quella di un’aggiustatina ai processi”. I nuovi e altolocati legami renderanno possibili nuovi contatti, nuovi affari, maggiori spazi di manovra e una impunità di certo maggiore a quella che fino ad allora aveva potuto garantire la sola omertà, con la minaccia di morte per chi sgarrava, concetto cardine di tutte le associazioni malavitose di ogni latitudine. Affermava Mario Guarino che “non sarebbe possibile comprendere appieno quel che dagli anni Sessanta in poi è avvenuto in Calabria se non si tiene conto del fattore principale dell’espansione criminale della ‘ndrangheta: l’interscambio di interessi con altri poteri occulti e istituzionali. Perché la ‘ndrangheta potesse prosperare sempre di più, i boss avevano imboccato la via già intrapresa dalla mafia siciliana: stipulare un patto di ferro, comprensivo di affari e voti di scambio, con massoneria e politica.” Questo “sistema organico di collegamento”, secondo Enzo Fantò, si affermava nel secondo dopoguerra. Il rapporto con la politica fu con forme e intensità diverse, una costante del processo di crescita del fenomeno mafioso nel XX secolo, che si preparava alla svolta degli anni ’70 - ’80, quando mutarono e si invertirono le parti tra mafia e politica, emergendo un nuovo e consapevole protagonismo politico della mafia. Proprio sul finire degli anni ’60 sembrava essere tutto in discussione all’interno della ‘ndrangheta: le gerarchie, la tradizione, i rapporti tra affiliati ed esterni, con forze dell’ordine, politici e massoneria. Era, comunque, lo specchio fedele dell’Italia di quegli anni.