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L’analisi. L’Aspromonte nel cuore di Roma

  •   Maria Francesca Frascá
L’analisi. L’Aspromonte nel cuore di Roma

“Quando si spegne una civiltà? Quando scompare una comunità? Quando muore una lingua?” Con questi interrogativi, Themistoklis Demiris, ambasciatore greco in Italia, apre il convegno “Gli Italiani dell’Altrove”, ospitato dal Museo nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma lo scorso 20 Novembre. È la sesta delle dodici giornate dedicate alle altrettante minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano. Io, calabrese della costa ionica, partecipo a quella sul grecanico d’Aspromonte.

In un’epoca in cui trasferirsi è molto più stimolante che restare, e aprirsi a nuove culture è molto più affascinante che indagare le proprie origini, sembra che tutti vadano a passo svelto verso la nascita di un’unica, grande nazione globalizzata e ben collegata, che dia l’impressione d’essere la madre universale di un popolo universale. E tuttavia, prima di finire in un futuro in cui la religione globale sia un bislacco pantheon di spiriti e dèi e la lingua globale sia un’improbabile babele vagamente anglosassone, è bene ricordare, anche solo per onestà intellettuale, da dove siamo partiti; che lingua parlavamo, che dèi pregavamo, prima di intraprendere questo viaggio.

È quello che ha cercato di scoprire il Mat, patrocinato dal Mibact, ponendo all’attenzione nazionale il problema delle minoranze linguistiche italiane.

La conferenza è stata aperta da un lucido intervento della direttrice del museo, la Dottoressa Maura Picciau, che ha presentato il progetto non solo come una celebrazione delle vecchie glorie italiche, ma soprattutto come un recupero e un’intensificazione del sentimento di accoglienza e fratellanza che caratterizza la nostra patria da sempre. Lo sguardo al futuro, dunque, senza mai perdere di vista il passato!

Prosegue l’introduzione Angelo Boscarino, Responsabile dell’Area progetti culturali dell’UNESCO, che ha posto l’accento sulla necessità di tutelare il patrimonio immateriale della costa ionica calabrese e pugliese. In due parole, il dottor Boscarino ha detto che nel sud magnogreco mancano i fondi, le strutture, finanche un apparato gestionale adeguato, ma quante cose abbiamo da mostrare e insegnare!

Sulla questione di cosa possa fare l’Italia per le minoranze e che cosa possono restituire le minoranze all’Italia che, così carinamente, dà mostra di custodirle, il dottor Boscarino lascia finalmente la parola al signore che gli sta a fianco e che ha serbato fino a questo momento un rispettoso e composto silenzio. Il signore si porta vicino al microfono e domanda: “Quando si spegne una civiltà? Quando scompare una comunità? Quando muore una lingua?”. La sua calma atavica, la sua voce che accarezza il silenzio assoluto della sala, attirano la mia attenzione di ricercatrice un po’ disillusa e vagamente arrabbiata: quando muore una lingua? Mah, sono diversi anni che me lo chiedo, spendendo il mio tempo sulle canzoni e le fiabe popolari scritte in grecanico, analizzando ogni traccia fonetica del greco su un dialetto che ha sentito attorno a sé molte, troppe lingue diverse per rimanere immutato. Intanto, da dietro la cattedra dei relatori, il signore prosegue la sua pacata esposizione: dodici comunità in Calabria sono legate alla lingua e alla cultura ellenica – dice – ma solo gli anziani sono capaci di parlare ancora greco. I resti della grecità nella nostra regione sono erose a tal punto da diventare irriconoscibili, quasi inesistenti. Eppure, i greci hanno abitato questi luoghi a lungo, attraccando negli stessi porti dello stesso mare in periodi così diversi della storia. Allora perché, la cultura greca in Calabria è andata incontro alla dimenticanza? Già, perché? Mi chiedo io di rimando, rivivendo tutta l’irritazione che mi ha accompagnata nei mesi in cui, china sulle poesie di Bruno Casile e Salvino Nucera, realizzavo che il grecanico avrebbe potuto essere ben più conosciuto se solo non fosse stato vittima dell’ignoranza e dell’incuria. Ma ancora una volta la voce di velluto del signore mi tira fuori dal mio livore: spiega che il grecanico, arroccato su una montagna, isolato da tutto il resto, ha fatto fronte al rovinìo di secoli di storia e, al di là dell’indifferenza del tempo e dell’incuranza dell’uomo, vive. La cultura greca ha scritto poesie, cantato canzoni, composto musica e inventato storie; ha cucinato pietanze, ha coltivato fiori, ha filato seta, ha costruito case, ha camminato fino a noi. Noi, che ci siamo accorti per chissà che miracolo della sua agonia, l’abbiamo curata, l’abbiamo salvaguardata e, a costo di sciuparla con le nostre attenzioni, di intaccarla con la nostra “globalità”, l’abbiamo portata per mano verso la rinascita. Forse controcorrente, e certamente contro ogni previsione, il grecanico non è morto, non ancora. A questo punto il signore, che altri non è che l’ambasciatore greco Themistoklis Demiris, trova giusto ringraziarci. Perché mai ci ringrazia, mi chiedo, se è stata la sua patria a donare a noi l’essenza della sua cultura? Non saremmo noi a dover sentirci in debito con lui? Ci ringrazia con tutto il cuore perché abbiamo accolto, custodito e preservato i ricordi della sua Grecia, fino al punto da diventare noi stessi parte del suo passato.

Uno scroscio di applausi chiude l’intervento dell’ambasciatore e apre quello del Professore Eugenio Imbriani, dell’Università del Salento, che indaga i tempi e i motivi della scomparsa del dialetto, i mezzi e le cause della sua rinascita. Sottolinea poi il grande amore che i griki di Puglia hanno maturato nei confronti delle loro radici culturali e si augura che le grandi vestigia delle lingua, per poche che siano, non vengano chiuse in una teca di vetro e lì esposte come un cimelio, ma siano invece usate, che camminino e si spargano sulle bocche della gente e rivivano nel presente per onorare il passato.

Quasi come una conferma della sua speranza, seguono gli interventi di Salvino Nucera e di Silvano Palamà, rappresentanti rispettivamente della comunità greca di Calabria e della comunità greca di Puglia. Memori della lingua ellenica fin dalla più tenera infanzia, i due relatori hanno ricordato le tappe importanti della storia greca trapiantata in Italia, riproponendo al pubblico le tracce del loro passaggio, dalle testimonianze scritte al patrimonio culturale immateriale. Segue la presentazione, fatta da Pasquale Faenza, dell’eno-gastronomia delle due comunità; alle sue parole fa da contraltare un rustico buffet squisitamente contadino, offerto dalla cooperativa sociale “Satyroi” di Bova Marina. In questo modo, un pubblico incuriosito ha l’occasione di assaporare la deliziosa semplicità delle pietanze calabresi.

Alle 19.30 si torna in sala conferenze; accanto alla cattedra dei relatori è stato sistemato un leggio, sopra vi campeggia una maschera teatrale; Francesca Prestia, la cantastorie, si sistema una sciarpa a righe sul vestito nero e toglie dalla custodia il flauto traverso. Con un sorriso largo e una voce piena, saluta il pubblico e lo invita a cantare con lei. Già, perché lei canterà; canterà canzoni grecaniche, poesie musicate, sullo sfondo della nostra Calabria proiettata sulla parete in una maratona di paesaggi marini, campestri, montani, belli, sempre più belli. Certo, non siamo sotto il cielo di Bova, non si sente lo scroscio del mare di Siderno, non camminiamo per le strade di Gerace, ma Francesca ci presta la sua voce, Salvino Nucera ci regala le sue parole, e così la Calabria rinasce a Roma, come un cardo di montagna sull’asfalto cittadino. Francesca racconta storie di orgoglio e nostalgia e di fiducia e di sofferenze, e chiude cantando un inno all’amore, composto in Aspromonte da un contadino semianalfabeta che l’amore doveva conoscerlo bene, poiché lo descrive con la semplicità e la chiarezza con cui si parla delle cose note: si tratta di Elamu condà, di Mastr’Angelo Maesano, che chissà se immaginava che la sua canzone semplice, un giorno, avrebbe incantato la Città Eterna.


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