L’appello. La cultura può dar da mangiare
- Pino Macrì
Che la Calabria in generale, e segnatamente l’Aspromonte e la provincia reggina, abbiano delle sconfinate potenzialità inespresse, non sono certo il primo a dirlo o a scoprirlo. Che non le sappia valorizzare (e monetizzare), nemmeno. Che spesso (troppo!) si faccia male da sola, è dato assodato. A parole. L’autolesionismo pare sia la sindrome più diffusa in Calabria, e, presto, godrà addirittura del marchio Dop, a mezzo del quale essa potrà finalmente distruggere i propri più grandi tesori. Impunemente. Anzi, col plauso di più, pervicacemente trincerati in un’inscalfibile corazza di pressappochismo, superficialità, incultura. Ormai mezzo secolo fa, sulla scorta delle teorie economicistiche vomitate dall’arrembante “boom economico”, si pensò che la cura per questo folle malato fosse l’industrializzazione: più selvaggia sarebbe stata, meglio (e più velocemente) la punta dello stivale sarebbe uscita dall’isolamento e dall’arretratezza cui la storia degli ultimi quattro secoli l’avevano inesorabilmente condannata (bisogna risalire al ‘500 per ritrovare una Calabria potenzialmente protagonista del proprio sviluppo, e soprattutto – per dirla con Pasolini – del proprio progresso). E allora giù con i “Centri siderurgici”, col petrolchimico e, last but not least, con l’obbrobrio dell’onnipresente eolico! Per far posto ai quali non si è fatto appello al minimo scrupolo pur di svellere un territorio già di per sé “sfasciume pendulo sul mare”.
Oggi, fortunatamente, la folle visione dell’industrializzazione selvaggia è sul viale del tramonto (trivellazioni a parte): ma a causa della congiuntura internazionale, non certo per merito o per opposizione di un’inesistente lungimiranza politica. Quella stessa inesistente lungimiranza che, dunque, in mancanza di altri succosi obiettivi, rivolge la sua sete distruttiva, il suo “cupio dissolvi”, agli ultimi due tesori rimasti, ancorché in condizioni cliniche disperate: la cultura e l’ambiente. Del secondo se ne occupano, certamente in maniera più approfondita di quanto non sappia fare io, altre sezioni di questo mensile.
Per parte mia, voglio porre l’accento, qui e sugli spazi di cui potrò eventualmente godere nei prossimi numeri, sul primo, partendo dall’assunto, per così dire “terra-terra”, che anche la cultura può dar da mangiare. In particolare, mi occuperò di quella parte di essa che, partendo dall’analisi delle radici (cioè dalla conoscenza della propria storia) possa avere come obiettivo non tanto (anzi, per nulla) l’esaltazione di un passato più o meno glorioso, ma la indispensabile ri-affermazione della propria identità perduta. Che non si persegue certo con il progetto di elevare a Reggio una statua a Mino Reitano, né con l’assurdo simulacro al calabro-saraceno Uccialì ad Isola Capo Rizzuto o con l’ipotizzato museo cosentino dedicato al barbaro e saccheggiatore Alarico: spero non se l’abbia a male nessuno, ma questi progetti sembrano più figli dell’incultura, miranti a perseguire un temporaneo quanto demagogico consenso popolare, che di una seria rivisitazione della propria storia.
Su un versante opposto, quindi, e appena appena in linea con una “normale” coscienza delle proprie radici, un primo caso emblematico: forse non tutti i lettori di in Aspromonte sanno che Bovalino è stata la patria di un quasi-santo, cioè il beato Camillo Costanzo, gesuita, martirizzato in Giappone il 15 settembre 1622. Orbene, a meno di 150 anni dalla sua beatificazione (avvenuta il 22 luglio 1867 per volere di Pio IX), il suo ricordo sopravvive a stento, e solo grazie alla tenacia di quella piccolissima comunità che ancora popola l’antico borgo di Bovalino superiore (in proposito mi sia consentita una piccola divagazione: perché continua a chiamarsi “Superiore” e non recupera l’antico toponimo di “Bovalino” senza ulteriori appellativi?). Qui, la ricorrenza religiosa del 15 settembre, la ristrutturazione di quella che è ritenuta essere la casa ove egli nacque, e due immagini iconiche (una tela di grandi dimensioni ed una statua) è tutto ciò che concorre a perpetuare la memoria di un personaggio cui il compianto storico padre Stefano De Fiores ha contribuito a ridisegnare le dimensioni non comuni in un prezioso saggio dell’anno 2000.
E nel resto del territorio? A parte una vetrata artistica nella cappella del Seminario vescovile di Locri, nulla. Al di fuori della piccolissima comunità di Bovalino superiore, nemmeno alla moderna ed altezzosa Marina se ne sa più di tanto, figurarsi da Ardore (a nord) e da Bianco (a sud) in poi! Eppure, in Giappone, nella lontanissima terra del Sol levante, distante anni luce anche dalla nostra visione del mondo, il religioso italiano gode, nella non trascurabile comunità cattolica di quel grande Paese, di una notorietà tanto consistente quanto (per noi) del tutto inattesa, stando alla dimensione e alla bellezza del parco a lui dedicato ad Hirado (un tempo, Firando), la cittadina ove si compì il martirio.
A tutt’oggi, sembra sia stata messa in atto una gara, fra gli amministratori comunali via via succedutisi alla guida del comune di Bovalino, a chi meglio faceva finta di non saperlo! Già, perché ormai diversi anni or sono misi personalmente al corrente gli amministratori dell’epoca, sia attraverso un articolo di un’intera pagina su un quotidiano regionale (Calabria Ora del 22 ottobre 2010, ma ne riparlai ancora due anni fa, dalle colonne di questo giornale), sia in contatti diretti, della estrema disponibilità manifestatami da Mr Remco Vroljik, un olandese che allora ricopriva l’incarico di addetto stampa e Pr di Hirado, ad allacciare rapporti concreti con Bovalino. Tra l’altro, Mr Vroljik stesso mi informò della dimensione della comunità cattolica della provincia di Hirado (oltre 1.000.000 di fedeli) e, soprattutto, del flusso annuale di circa 100.000 pellegrini di quella comunità verso l’Italia, con meta, ovviamente, il Vaticano. È veramente impossibile riuscire ad intercettare anche una minima parte (il solo 5% di 100.000 equivale a 5.000 persone…) di quel flusso e convogliarlo a visitare la terra natale di un loro (e nostro…) personaggio di culto religioso, ritraendone, oltre al prestigio, un non trascurabile vantaggio economico?
Certo, le strutture a supporto (alberghi, case-vacanza moderne ed attrezzate, guide turistiche, interpreti ecc.) non si inventano dalla sera alla mattina, ma, ad oggi, con altrettanta certezza, 5 anni sono trascorsi senza fare niente nulla: né contatti, né informazioni, né, tantomeno, avvio di programmi a sostegno dei flussi turistici, che non siano demandati alla piccola, insufficiente e scoordinata iniziativa privata. Con buona pace di chi, poi, (spiace dirlo, ma ivi compresi anche i cittadini) attribuisce sempre agli altri le colpe delle proprie incapacità operative. E di chi ritiene che Cultura e Storia siano solo una sorta di “passatempo innocente per bambini deficienti” mentre l’Alta Politica, che diamine, è tutta un’altra cosa!