L'icona di madre Mirella Muià
- Cosimo Sframeli
Eremo dell’Unità – Gerace
Crocifisso di San Damiano
illustrazione di un’icona
di Madre Mirella Muià
sabato 14 settembre 2013
Solennità dell’Esaltazione della Santa Croce
(Trascrizione da registratore vocale digitale a cura del Prof. Domenico Minuto non rivista dall’autrice)
Inizio leggendo una preghiera che è tratta dall’Ufficio della Chiesa d’Oriente, la Chiesa Bizantina, la Chiesa in cui noi abbiamo le nostre radici. Questa Chiesa celebra la solennità di oggi come una Pasqua. È considerata la seconda Pasqua, la «Pasqua dell’anno». E questo tropario dice così:
Croce custode di tutta la terra,
Croce splendore della Chiesa,
Croce fortezza dei regnanti,
Croce salvezza dei fedeli,
O Croce gloria degli angeli e dei demoni disfatta!
Esaltazione della Santa Croce è una solennità, come vi dicevo prima, che corrisponde al significato della Pasqua. E appunto, per la Chiesa d’Oriente è come fosse una seconda Pasqua. Però voi vi rendete conto subito come è strana questa Pasqua. È una Pasqua di resurrezione, quindi di luce che viene in un certo senso associata alla Croce che per noi, da sempre, in maniera impropria devo dire, è segno di morte. È soprattutto una Pasqua che inizia, che si celebra, quando l’anno volge alla notte, cioè all’oscurità. E cioè la luce diminuisce ogni giorno eppure è la festa della luce. Questo non è strano. È perché noi dovremmo cercare di entrare nel disegno della creazione. Della creazione nuova. Ma la creazione nuova è una rigenerazione della creazione. Non so se voi ricordate che il libro del racconto della creazione, la Genesi, comincia dicendo che:
3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
E poi dice:
E fu sera e fu mattina:
Allora capite l’interrogativo: Ma se c’è la luce perché c’è subito la sera? Perché c’è prima la sera e poi la mattina? Questo interrogativo è molto importante. Eppure è all’inizio della Bibbia. Ma è molto importante per la nostra fede oggi. Soprattutto per la nostra fede anche proprio qui, in questo territorio, in questa Chiesa, in questa Diocesi. La luce viene inviata dal Creatore in un creato che è ancora deserto, che ancora non ha le creature, le piante, gli animali, gli uomini. All’inizio di tutto c’è la luce. E la luce entra nell’oscurità della sera. La luce entra dentro la materia. La luce entra dentro la nostra storia. Questa, proprio fin dal primo versetto della Bibbia, è già l’immagine del mistero pasquale. Questo nome, Esaltazione della Santa Croce, mi potrete chiedere: ma che cosa vuol dire? Esaltare per noi vuol dire lodare, magnificare. Sì, anche questo. Però il significato è questo: esaltare vuol dire innalzare. Innalzare! E la festa ha un’origine storica. È importante che la conosciamo. A Gerusalemme, nel IV secolo, quindi proprio nei primi secoli dopo Gesù Cristo, a Gerusalemme, l’imperatore Costantino e sua madre Elena, hanno voluto scavare sul Golgota per cercare le tracce della crocifissione. Possibile che sia scomparsa la Croce? E hanno trovato la Croce e l’hanno innalzata. Cioè l’hanno tirata fuori dalla terra, hanno quindi scavato – guardate che bisogna scavare! – e poi s’innalza questa croce, e questa Croce innalzata è diventata un riferimento non di morte – attenti – ma di resurrezione. Su questo luogo della Croce è stata costruita la basilica che noi chiamiamo Santo Sepolcro e che per le Chiese d’Oriente si chiama la Basilica della Resurrezione. Quindi, il significato storico è questo. Poco fa don Piero diceva che è importante per alcuni di noi questa festa. E lo è anche per me perché proprio nell’atto della professione ricordo che c’era una frase che riguardava questo, il senso di una chiamata che consiste nell’innalzare la Croce che è nascosta nelle profondità della nostra storia, della nostra terra. È una Croce che, se resta nascosta, noi continuiamo a pensare che è portatrice di morte, di disgrazia, di sventura, di rassegnazione. Che le cose non cambiano mai perché è tutto sotto terra. Non è vero nulla. La Croce non è quello! E allora avere il coraggio di scavare, cioè di riconoscere qual è il segno di croce che portiamo noi, nella nostra storia, anche in questa terra, in questa diocesi, in questo territorio, personalmente, un segno di croce che è nostro, avere il coraggio di conoscerlo, di portarlo alla luce. Perché le cose vere vengono alla luce! E la croce è la cosa più vera che noi abbiamo. Portare alla luce vuol dire permettere di contemplare. Permettere di riconoscere. Permettere di riconoscersi e di dare un nome. Dare un nome alla nostra realtà storica, dare un nome alle nostre ferite, dare un nome! Dare un nome, e poi attraverso questo nome avere la fiducia che c’è una risposta. Perché questa risposta viene attraverso la Croce di Cristo. Non è una risposta che viene dopo. È una risposta che è all’origine. Come vi dicevo poco fa, questo mistero di una luce che invade l’universo ancora vuoto ed entra nella notte. Entra nell’oscurità propria della materia. È come dire – e Giovanni lo dice nel Vangelo, nel Prologo – :
5 la luce splende nelle tenebre,
E se noi riconosciamo una parte di tenebra in noi, nel nostro territorio, dove siamo, dobbiamo avere questa fiducia incrollabile che viene dalla fede – altrimenti la nostra fede non so cosa sia! – questa fiducia incrollabile che proprio perché c’è quella porzione di tenebra c’è la luce! La luce si apre un cammino dentro e le tenebre non possono sopraffarla. Le tenebre non possono trattenerla. Vedete? È il mistero pasquale. Cristo dalla morte non è stato vinto. È lui che ha vinto! Ed ecco perché mi sembra importante che noi prendiamo coscienza di questo. Proprio come Chiesa. Per questo volevo dire all’inizio, in fondo, facciamo per una volta seriamente, consapevolmente, di essere quello che siamo. E cioè una piccola porzione di chiesa di Calabria, di terra di Calabria, di storia. Anche quelli che sono di passaggio – in realtà chi passa da qui non passa mai a caso, quindi ci sono comunque delle connessioni e dei legami – rendiamoci conto di essere questo e quindi di accogliere un messaggio che viene dalla Croce. E quindi allora voi mi chiederete: ma come mai questa croce? Questa è una scelta. Perché il Crocifisso di san Damiano? Perché proprio il Crocifisso che parlò a Francesco e non un altro Crocifisso? Anche qui devo dire che il Crocifisso di San Damiano, nella mia storia, ha un’importanza notevole. E di questa importanza io mi sono resa conto soltanto quando sono venuta qua. Ormai sono undici anni. Perché mi sono resa conto chiaramente che quella parola che Francesco aveva ascoltato – «Va’ e ripara la mia casa!» – è una parola che riguarda un carisma dell’unità. È così. La casa che deve essere riparata non è soltanto la Chiesa. la Chiesa come edificio? Certo! Vediamo qui il fatto che le cose vere cominciano dalle cose piccole. Quindi Francesco ha cominciato a raccogliere pietre per riparare quella Chiesa. Poi ha capito che era la Chiesa come Sposa. Erano le ferite della Sposa. Perché queste ferite della Sposa erano le ferite della divisione. Ma non è soltanto questo. Se noi dicessimo che la Casa del Signore è solo la Chiesa, ci nasconderemmo una parte di verità che è importantissima e che è nel Vangelo. Ed è questa: la Casa del Signore è l’uomo. È l’umanità. È la condizione umana che chiede di entrare in Casa, che è fatta per essere abitata e per accogliere. Allora vi ricordo un episodio che precede immediatamente questo della rivelazione del Crocifisso a San Francesco, che è quello dell’incontro di Francesco con il lebbroso. E ve lo ricordo proprio per questo. Dicono le Fonti Francescane che Francesco aveva una repulsione naturale a vedere i lebbrosi. Ma ha lottato con grande forza contro questa ripugnanza e, quando ha incontrato il lebbroso per la strada, gli è andato incontro e lo ha abbracciato. Ecco perché il Crocifisso si è rivelato a San Francesco. Perché lui con quel gesto aveva già vinto la sua lebbra! Perché la lebbra è l’egoismo. La lebbra, in realtà è il nostro egoismo. Ma se noi riconosciamo che il lebbroso è l’uomo – è la nostra condizione quella dei lebbrosi – e che Francesco non ha fatto altro che fare il gesto che Dio fa verso di noi, che Dio nel Figlio, attraverso il Figlio, ha fatto verso ognuno di noi e continua a fare, senza distinzioni di categorie, di situazioni, di appartenenza, non c’è nessuna distinzione. La lebbra è quella malattia nostra che ci priva della bellezza per cui siamo stati creati. E allora il Signore, secondo voi, che cosa fa? Pensate: se il Creatore ha creato le creature per la bellezza, che è la somiglianza con la sua stessa bellezza, vedendo la rovina di questa bellezza, essendo Creatore può restare senza fare nulla? Può restare indifferente? Certo noi dal punto di vista umano diremmo: noi faremmo qualche cosa. Cercheremo di curare, di mettere delle fasce, di dare l’antibiotico, di fare tante cose. Sì, benissimo! Ma quello che ha fatto il Creatore nessuno può farlo se non lui! Per guarire questa lebbra si è fatto lebbroso lui! Perché chi muore entra a contatto con la lebbra dell’uomo che è la condizione mortale. L’unico modo con cui potevamo essere salvati è stato questo gesto. E vedete che questo crocifisso ce lo mostra. Se voi lo guardate bene vedete che non è appeso. Le braccia sono allargate proprio per abbracciare, per accogliere. Questo è il gesto che fa Dio verso il lebbroso. Questo è il gesto che Francesco ha anticipato prima di ricevere questa ri-creazione dal Signore. E riparare la casa è proprio abbracciare la condizione del lebbroso, senza pensare ad altro, perché quella è la condizione comune. E non è una condizione nata dalla cattiveria. È una condizione data dall’incapacità di rispondere proprio a questa grande bellezza che ci è stata data. Ma noi che siamo incapaci di ritrovare la nostra bellezza ce la ritroviamo donata. Per quanto noi ci potremmo arrabattare per cercare di meritare, di fare i bravi cristiani, di fare cose utili e necessarie, ma comunque se noi consideriamo che il fatto di essere bravi cristiani, di adempiere a tutti i precetti, ci permette di recuperare una bellezza che abbiamo perduta, ci sbagliamo completamente! Perché non ricordiamo che questa bellezza ci è donata per la seconda volta da un Dio che ha preso in sé questa lebbra. Ed è l’unico modo. Ora guardando questa Croce, voi notate che la parte più importante, quella centrale, ha anche una luce particolare. E questo ci aiuta anche a dare un nome alla Croce. I Padri della Chiesa la chiamano l’«Albero della vita». È vero, è l’«Albero della vita», che non è più nel giardino, perché il giardino non c’è più. È in mezzo a noi l’«Albero della vita», perché è la nostra storia che deve diventare giardino. Ed è l’«Albero della vita» che ce lo permette. E potrebbe esserci un altro nome. A me piace anche chiamarla la «Porta della Luce». Attraverso questa porta ci giunge tutta la luce. E la luce è Dio! Lo dice Giovanni, non una sola volta. La luce è il Dio. Noi non abbiamo altra porta per ricevere la luce – di cui abbiamo bisogno, perché siamo creati per questo! – se non questa porta che si apre. E questa porta non si apre nel cielo! Questa porta si apre in mezzo a noi. Ed è per questo che vorrei insistere e poi passo a descrivere le figure anche se poi è molto semplice – tutte le crocifissioni hanno degli elementi comuni – ma volevo insistere su questo fatto. Nella nostra religiosità, la nostra cultura di fede, la morte ha un grande peso. È come un coperchio di un sepolcro. È come se noi non volessimo accettare, non volessimo convincerci mai veramente che la morte è stata vinta dall’amore! E questo corrisponde a un’idea che abbiamo di Dio, che è sbagliatissima. È un’idea di Dio che ce lo fa vedere come un padrone, un signore, un potente, a cui possiamo chiedere solo dei favori. Se noi abbiamo questa idea di Dio ci tagliamo fuori persino dai doni che ci può elargire. Dio, come dicevo all’inizio, è colui che si è fatto lebbroso. E allora se io, in me lebbroso, in me lebbrosa, in altri lebbrosi, riconosco la sua presenza, come posso dire: “Tu sei lontano, tu non ci sei, tu non mi vedi, tu non mi ascolti?”. Non posso dirlo. È così intimamente legato alla mia storia, alla nostra storia, che non mi accorgo neanche che c’è. Non lo vedo, non lo sento. Ma sapete perché? Perché ha preso la forma della mia croce. Ed è questo che vorrei dirvi. Guardate bene: vedete che la croce è come legno – siamo abituati alle croci in cui il legno è ben visibile. Qui quasi scompare. C’è, si vede, certamente, ma solo in orizzontale, un poco. Quasi scompare perché in realtà la Croce è il corpo. Quel corpo ha preso la forma della Croce. È tutto il Figlio di Dio che è fatto croce. La mia, la nostra! E senza questo riconoscimento, senza questa adorazione – perché questa è l’adorazione – noi quando diciamo “adorazione della Santa Croce”, non vogliamo dire che adoriamo il legno della Croce. Il legno della Croce non è da adorare. È da adorare colui che attraverso quella Croce, ha preso la forma della Croce. E ogni croce, nella vita di ognuno, è presenza di lui! È lui che è presente! Ha preso quella forma. La forma di quella malattia, la forma di quella persecuzione, la forma di quel dolore. La forma della mia croce. Della nostra croce. Ora vedete, come dicevo, che le braccia spalancate non sono proprio quelle di chi è appeso, ma di chi accoglie, di chi abbraccia. Ed è proprio il significato di cui abbiamo parlato prima. E nello stesso tempo, vedete l’importanza del sangue? Il sangue, come si vede dalle mani che sgorga attraverso le braccia e dai piedi, è una presenza molto importante perché è lo stesso colore ripreso tutto intorno alla Croce. Il sangue, nel mistero della Croce di Cristo, della Pasqua di Cristo, è come l’espressione concreta, fisica, dello Spirito di Dio.
Difatti molti mistici nostri, anche, orientali, identificano il sangue e lo Spirito. Non sono la stessa cosa. Sono due espressioni con cui Dio opera riunificando le realtà separate. Vedete che in realtà questo sangue sgorgando sugli angeli, sulle pie donne, sul centurione, su Maria, su Giovanni che riceve tra l’altro proprio il getto del cuore, perché è lui che descrive la trafittura del cuore, del costato di Gesù, questo sangue riunifica tutto. Riunifica gli angeli, quindi le realtà celesti, invisibili per noi; riunifica la storia passata; riunifica la storia presente perché ognuna di quelle figure, ognuno di quei personaggi rappresentano una realtà nostra. La Madre di Dio, nelle icone, è sempre figura della Chiesa, ma è anche figura di ogni anima che crede. La Madre di Dio, dicono i Padri, è ogni anima che genera Gesù nel mondo. Come si genera Gesù nel mondo? Con la fede! Giovanni è il testimone, è colui che ha visto fino a che punto arriva l’amore di Dio e ha contemplato quel gesto. Vedete questa piccola figurina qui che diventa un poco marginale? È quella del soldato che ha la lancia, quindi questa lancia che è in direzione del costato. Noi sappiamo, dal racconto della crocifissione e della morte di Gesù in Giovanni, che Gesù è stato trafitto al costato quando era già morto. È per questo che questa immagine, veramente, rappresenta tutto il mistero della morte e della resurrezione di Gesù, perché sì, è trafitto, ma è vivo! E allora noi possiamo contemplare in questo modo, proprio perché è una cosa bellissima pensare che non è il sangue di un morto che mi vivifica, non è il sangue di un morto che dà la vita. È il sangue del Vivente! E l’icona ci permette di vederlo così, proprio attraverso questa luce del volto e dello sguardo. Lo sguardo che è veramente espressione della massima misericordia. Infatti i nostri fratelli ortodossi, definiscono il Cristo l’«amico degli uomini che ha donato al mondo la grande misericordia». E la «grande misericordia» è tutta l’opera di Dio, dall’inizio alla fine: dalla creazione alla creazione nuova. Alla ri-generazione. E come abbiamo detto poco fa, questa figura rappresenta Maria.
Maria che non si strappa i capelli, che non piange – nei Vangeli non c’è nulla di tutto questo – Maria che contempla. Perché quello che noi abbiamo qui sotto gli occhi, non è quel fatto che è accaduto a Gerusalemme quella volta. È il mistero di una presenza che è sempre attuale, che sempre è, come dicevamo prima, ha preso la forma delle mie ferite, delle mie piaghe, delle nostre piaghe, e nello stesso tempo è sempre presente nei sacramenti. È la sua vita che viene donata perché è il sangue di un vivente. Queste sono le donne, Maria di Magdala e Maria di Giacomo e questo è il centurione, colui che nel Vangelo di Luca dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!». E perché lo dice? Perché Gesù muore da innocente. Perché si vede la morte dell’ innocente. E la morte dell’innocente, sapete come si vede? Si vede da questo abbandono, da questa consegna. Da questa mitezza, si vede. Una mitezza che noi non siamo mai in grado di raggiungere – un poco, però possiamo sforzarci di farlo, proprio come vi dicevo prima – vi ritorno perché è molto importante per noi, per la nostra storia questo : io posso avere due atteggiamenti nei confronti delle ferite della mia vita: il rifiuto e la ribellione; l’accettazione; e una terza che è quella forse più comune alla nostra cultura religiosa, la rassegnazione. Guardate, il rifiuto e la ribellione non mi permettono di entrare in quella porta della luce, perché io così mi allontano. La rassegnazione non mi permette di comprendere il senso della vita nuova perché io mi chiudo in una tomba e mi tiro il coperchio sopra e non voglio uscire. L’accettazione, che non è senza dolore, non toglie il dolore, non toglie niente, ma l’accettazione è quel riconoscere che in quella croce della mia vita è presente il corpo, la persona del Figlio di Dio. Ecco: vederlo come una persona che ha preso la forma della mia piaga. Quella è la presenza del mistero pasquale nella nostra vita. Nella parte alta si vede Gesù che ascende al cielo. Ascende portando la Croce perché la Croce è il segno della sua vittoria sulla morte ma anche perché la Croce – torno a dire – non è segno di morte! È innanzitutto un segno di unità. Riunifica il cielo e la terra.
Del resto la forma della Croce lo indica: dall’alto al basso, riunisce il cielo e la terra e gli estremi confini della terra, in orizzontale. Tutto è riunificato nel mistero della Croce. E la sua salita, la sua ascesa è accompagnata e guidata da quella mano, lassù. Quella mano lassù, che rappresenta la mano del Padre, in realtà indica che tutto questo disegno nasce da lì. E gli angeli che lo accolgono e contemplano la sua ascesa e che sono, dicono i nostri fratelli in oriente nelle loro preghiere, stupefatti, meravigliati, al vedere un uomo che sale così al cielo. Sì è il Figlio di Dio, lo sanno benissimo! Ma viene anche come uomo! È questa la grande meraviglia: cosa ci fa l’uomo, cacciato dal paradiso terrestre in cielo? Accanto a quel centurione ci sono due piccole figure che rappresentano due ebrei che osservano. Osservano perché sono stupiti e non sanno bene cosa pensare. Ma voi lo sapete, tanti alla crocifissione di Gesù hanno detto: « se veramente è il Figlio di Dio perché non scende dalla croce?». E noi abbiamo già capito che se Gesù scende dalla croce siamo finiti perché vuol dire che non c’è nessuna speranza di resurrezione per noi. E quindi Gesù non scende dalla Croce! Eppure questi due osservatori sono pieni di speranza. La speranza è sempre dentro al storia del popolo d’Israele, perché il popolo d’Israele in realtà vive il mistero della Croce nella sua storia. E poi vedete che qui c’è un gallo? È un segno duplice. È il segno del rinnegamento di Pietro, come sappiamo, ma l’altro segno è l’alba. Chi è che annuncia l’alba? Il canto del gallo. L’alba è la resurrezione. Il canto del gallo indica che quello che noi contempliamo qui è un fatto di resurrezione e non di morte. E poi notate che tutto intorno la croce è circondata da tante conchiglie. Questa caratteristica del Crocifisso di San Damiano è veramente unica. Non si sa se altre crocifissioni abbiano lo stesso disegno di conchiglie. Non credo, io non ne ho trovate.
La conchiglia è quell’elemento della natura che indica l’immortalità perché è ed è rimasta uguale per miliardi di anni. Noi potremmo dire, se volessimo capire che cosa vuol dire in natura, qual è il simbolo, in natura, della vita eterna, potremmo dire che è la conchiglia. Non muore ma che neanche muta. Poi osservate che in fondo alla Croce, ai piedi di Gesù, c’è qualche cosa che può incuriosirvi. Allora, devo dirvi innanzitutto che ai piedi della croce di Gesù c’è sempre il cranio di Adamo e le tibie di Adamo, perché deve rappresentare questo, che il sangue della Croce penetra perfino nel luogo della morte in cui Adamo è, Adamo rappresenta ogni uomo, e viene vivificato dal sangue del Crocifisso. Però ogni croce, ogni crocifissione, deve essere incarnata, diciamo contestualizzata, segnata da qualcosa che riguarda il luogo in cui si trova. E qui infatti c’è il luogo in cui si trova. Qui c’è Monserrato e qui ci sono due figure. Le due figure che come forse voi sapete vengono portate in processione il 23 agosto. Questo è sant’Antonio del Castello, monaco dell’XI secolo che viveva in una grotta sotto il castello, e questa è santa Veneranda, eremita, che viveva nelle grotte pure di Gerace e di cui si sa pochissimo, ma quello che si sa è che è comunque l’unico caso di eremita donna in Calabria. Sotto Monserrato c’è un deposito di ossa, perché sotto Monserrato, così come sotto tutte le chiese antiche, ci sono delle ossa. Tante! Ci sono tante creature sepolte le cui anime sono già in cielo, ma che stanno lì a testimoniare qualche cosa: il bisogno di una redenzione, il bisogno di un riscatto. Il bisogno … quando poco fa vi dicevo che la Croce va scavata dalla nostra terra e innalzata perché noi sappiamo vederla. Che noi sappiamo vedere, riconoscere, la violenza, la morte, il sangue, l’ingiustizia che c’è nella nostra terra, nei nostri luoghi, che sappiamo guardarla in faccia, che sappiamo consegnarla al sangue del Vivente. Non c’è altra medicina!