La battaglia dello Zillastro. Il Cristo ferito in Aspromonte (VIDEO)
- Cosimo Sframeli
Il Cristo dei sequestrati ebbe il cuore trafitto da un colpo di lupara. Una mano pietosa cercò di mascherare quella ferita. Incappucciato ed in catene, salì lassù, per i monti dell’Aspromonte dove, lungo i dirupi, fu intagliata una statale da brivido che, quando non frana a valle, collega Platì al passo dello Zillastro, spartiacque tra lo Jonio e il Tirreno. In ginocchio, mamma coraggio pregò per il suo Cesare. Davanti al grande crocifisso, che volta le spalle a Montalto e al Santuario della Madonna di Polsi, Angela Casella si inginocchiò quando, in incognito, aveva cercato traccia del suo ragazzo nelle chiese e tra la gente dei tanti paesini dell’Aspromonte. Indossava un pantalone nero e una maglietta rossa, i lunghi capelli raccolti dietro la nuca. Appariva di una fragilità estrema ma dimostrava di avere grande forza interiore. Ogni sua azione aveva un significato: le catene, la tenda, il sacco a pelo. Era così una prigione dell’Anonima sequestri? Le notti erano dure. C’era freddo, umidità. Nell’albergo Demaco di Locri, suo quartier generale, aveva ripercorso passo per passo, da quel 18 gennaio del 1988, i momenti drammatici del rapimento, la difficile trattativa, le foto che davano la “prova dell’esistenza in vita” dell’ostaggio, il pagamento del miliardo di lire di riscatto, le botte subite dal marito, la nuova richiesta dei banditi, le minacce di uccidere l’ostaggio, la nuova trattativa. Scelse di pregare sotto il Cristo di Zervò. Era la zona dove venivano pagati i riscatti di tanti e tanti sequestri. Sotto il crocefisso di Zervò, Angela Casella ebbe espressioni di solidarietà. Una coppia di fidanzatini di Oppido Mamertina l’avevano abbracciata forte forte. Nello stesso giorno, incontrando i Carabinieri accampati nei pressi del Sanatorio, si fermò davanti a una baracca adibita a spaccio per mangiare un pezzo di pane, con olio e origano, per bere un bicchiere d’acqua (un pasto da sequestrato). Aveva freddo e il Brigadiere Marino le diede la sua giacca a vento.
E proprio a ridosso di quei luoghi che il Crocefisso diventò il simbolo nefasto di una montagna ingiustamente pensata nefasta. Quello che si erge da un cumulo di pietre, quello con il Cristo ferito sul fianco destro da un colpo d’arma da fuoco, quello dove si pagarono riscatti, quello che veniva immortalato nei servizi televisivi durante gli anni bui dei sequestri di persona. Poco più su, dispersa dentro una fitta pineta, la croce in ferro a ricordo di Nicola Tallarida, falciato dalla mitragliatrice di un aereo alleato mentre liberava i buoi dal carretto perché si mettessero in salvo. Vicino la strada, altre due croci in ferro a memoria dei Parà del Nembo caduti in combattimento l’8 settembre. Nonostante la bellezza dei luoghi, lo Zillastro era ricordato come un luogo triste che incuteva timore. Vi campeggia ancora la nebbia. Per troppo tempo vi campeggiò morte e violenza. Lì, si consumarono tante lacrime.
A Reggio Calabria e provincia, l’ultima battaglia aerea fu combattuta il 4 settembre 1943 e costò la vita a 3 giovani piloti italiani; l’ultima battaglia terrestre ebbe luogo l’8 settembre successivo, in Aspromonte sui Piani dello Zilastro. Fu una vicenda tragica, rimasta a lungo dimenticata, che costò la vita a giovani paracadutisti del Nembo, a guerra ormai conclusa, che seppero morire per l’Onore d’Italia.
Nell’intento di evitare che i tedeschi si ritirassero rapidamente dalla punta dello stivale gli Alleati pretesero che l’Armistizio non venisse reso noto immediatamente ma dopo qualche giorno in concomitanza con lo sbarco a Salerno. Cosicché, a Reggio Calabria si fronteggiarono due eserciti formalmente nemici, quello degli Alleati e quello italiano, che non lo erano più giuridicamente.
In tale contesto, il 185° Reggimento della Divisione “Nembo”, in ritirata dalla Sicilia, esausto per la fatica delle lunghe marce e martoriato per le perdite subite a causa dell’aviazione Alleata e di incidenti d’ogni genere, era giunto in Calabria a sostegno delle sparute e scombinate divisioni poste a difesa che avrebbero dovuto sostenere il primo urto con il nemico. Si arresero là dove erano stati schierati, Catona e Melito Porto Salvo, senza sparare un colpo. Truppe male armate, poco o nulla addestrate, con scarsi supporti logistici, tormentati da continue incursioni aeree, senza alcuna motivazione anche in conseguenza della guerra ormai unanimemente considerata perduta e con la resa che tutti reputavano imminente. Le Divisioni costiere erano costituite da soldati locali, calabresi o siciliani, tutti ansiosi di tornare alle proprie case.
Il 185° Reggimento Nembo era costituito da tre battaglioni (III , VIII e XI) , rinforzato dal Gruppo Artiglieria 47/32 del 184°, composto in gran parte da giovani del 1° Reggimento Folgore che non aveva fatto in tempo ad essere trasferito in Tunisia. I tedeschi ricevettero l’ordine di ritirata per evitare di essere intrappolati dagli sbarchi alleati che preventivano a Nord. Per cui, i paracadutisti restarono soli a difendere il suolo italiano da un nemico che non era più tale. Gli Alleati non sapevano esattamente quale resistenza avrebbero incontrato sulle spiagge calabresi, tant’era che alcuni commandos, sbarcati in Calabria qualche giorno prima, non fecero più ritorno essendo stati annientati dai Parà della Nembo.
Lo sbarco sul continente avvenne quando, man mano, il fuoco delle artiglierie venne scemando e gli anglo canadesi presero terra pacificamente. Non ci fu resistenza alcuna. Tuttavia i soldati avanzavano guardinghi secondo quanto avevano appreso in addestramento: superata di corsa la breve distesa sabbiosa (le spiagge non erano minate) si inoltravano nell’abitato e ad ogni incrocio lanciavano bombe a mano e sparavano prolungate raffiche di mitra, anche se di nemici non c’era nemmeno l’ombra. Questo causò alcune vittime di sprovveduti civili che si trovavano per caso lungo il loro passaggio o che andavano ad accogliere amichevolmente gli invasori.
Si rinviò, pertanto, continuamente un possibile contrattacco arretrando idealmente la linea di resistenza sempre più all’interno. In conseguenza, si stabilì che la difesa doveva imperniarsi sul nodo stradale di Gambarie d’Aspromonte che dominava le strade verso lo Jonio in direzione Melito Porto Salvo e verso il Tirreno in direzione Villa, Bagnara e Piana di Gioia Tauro. I Paracadutisti della Nembo, unici sui quali si poteva fare affidamento, furono presenti in quelle zone. Intanto, le altre truppe si arrendevano al nemico senza combattere oppure disertavano, avviandosi verso le rispettive case.
Nel corso dell’avanzata in territorio reggino gli Alleati fecero prigionieri centinaia di soldati italiani i quali, “scendendo incolonnati dalle vicine colline, si arresero senza combattere”. Ed ancora, Farley Mowat, ufficiale del Reggimento Hastings & Pince Edward, così raccontava: “I mezzi da sbarco approdarono sulle spiagge italiane e non vi furono ostacoli da sormontare a parte il caldo, la sete e gli zaini sovraccarichi…. Simile ad un sottile bruco color kaky, la compagnia si arrampicò, mentre parallelamente ad essa, sulla strada bianca, discendeva un altro bruco, frammentato, color verde bluastro. Le unità dell’esercito italiano, lasciate dai tedeschi a difendere le alture, andavano per loro conto a cercare pace. Venivano circondate da un’atmosfera festosa, marciando disordinatamente per plotoni, gli oggetti personali entro piccoli fagotti appesi alle armi e colmavano l’aria calma ed immota con i loro canti e le loro risate. Per il Reggimento fu un’esperienza sconcertante e gli uomini si sentirono propensi ad un iroso risentimento a causa di quegli altri soldati che prendevano la guerra così sottogamba”. Arrivati a Reggio, trovarono altri soldati che, deposte le armi, si misero volontariamente al servizio degli invasori per aiutarli a scaricare il materiale bellico dai mezzi da sbarco.
Resasi impossibile ogni sorta di resistenza, il III e XI Battaglione Paracadutisti del 185° Nembo si ritirarono verso nord. L’ VIII, trattenuto (tra il 4 ed il 7 di settembre) da violenti scontri intorno agli abitati di San Lorenzo e Bagaladi, si trovava in marcia di retroguardia e cercava di raggiungere Platì, dove vi era il Comando di Reggimento. La notte sull’8 settembre giunse sui Piani dello Zilastro e si accampò presso un faggeto a quota 1050. Gli Italiani, esausti per la lunga marcia, la fame e gli scontri sostenuti, si abbandonarono ad un sonno ristoratore e non si avvidero che sarebbero stati circondati da ogni lato dall’esercito Anglo-Canadese il quale, per giorni e notti, li aveva inseguiti, senza dare tregua.
Il Reggimento West New Scozia si posizionò nel faggeto dell’Altopiano Mastrogianni, mentre l’Edmontons, per chiudere l’accerchiamento, si sistemò sui crinali dello Zillastro, lato Oppido Mamertina. Il Nembo non avrebbe avuto scampo, era circondato.
In quattrocento contro cinquemila. La lotta fu impari e proseguì fino all’esaurimento delle munizioni. Scambio di bombe a mano, andarono al corpo al corpo con i calci dei fucili. I Parà vennero sopraffatti. Fu un massacro, una inutile tragedia.
Cinque furono i caduti italiani recuperati (l’esatto numero delle vittime non è ancora conosciuto): Capitano Ludovico Piccoli de Grandi (Medaglia d’Argento al Valor Militare); Sergente Maggiore Luigi Pappacoda (Medaglia di Bronzo al Valor Militare); Caporale Serafino Martellucci (Medaglia d’Argento al Valor Militare); Parà Vittorio Albanese (Medaglia di Bronzo al Valor Militare); Parà Bruno Parri (Medaglia di Bronzo al Valor Militare); Parà Aldo Pellizzari (Medaglia d’Argento al Valor Militare). I Feriti furono circa una dozzina. Vennero catturati 57 paracadutisti. Erano in quattrocento.
Fu questa, quindi, l’ultima battaglia combattuta tra il Regio Esercito Italiano e le truppe Alleate l’8 settembre 1943, cinque giorni dopo la firma dell’armistizio.
I morti furono seppelliti nello stesso luogo della battaglia. Negli anni seguenti le salme (quelle conosciute) furono riesumate, trasferite al cimitero di Oppido Mamertina e inoltrate infine ai luoghi di origine. Anche i Canadesi recuperarono le loro vittime. Il 185° Reggimento Nembo, quello che rimase, continuò a combattere, con gli Alleati o nei ranghi della R.S.I., secondo le scelte che ogni paracadutista, di fronte alla propria coscienza, fece in quel drammatico autunno del ’43.
Durante la “Campagna d’Italia”, toccherà ai Paracadutisti Italiani dello “Squadrone F” compiere l’ultimo lancio dietro le linee tedesche. Qualche tempo dopo la battaglia dello Zillastro, un impresario boschivo, Salvatore Accardo, chiese al parroco di Platì di benedire quei luoghi prima di procedere al taglio degli alberi. Nel 1951 il sindaco di Oppido Mamertina, Ragioniere Giuseppe Muscari, fece apporre una croce (accanto, nel 1995, sarà eretta una stele) in ricordo dei luoghi ove avvenne l’ignorato conflitto. Successivamente, nel 1971, un altro sindaco di Oppido, l’Avvocato Giuseppe Mittica, fece innalzare un grande Crocefisso a ricordo dell’evento e dei morti inutili di un otto settembre già di pace. Nel 1988, l’ignaro Generale Franco Monticone, Comandante della Folgore, impegnato con i suoi Paracadutisti in esercitazioni sulle montagne dell’Aspromonte, venne informato della cruenta battaglia sconosciuta o dimenticata dal Professore Antonio Delfino (Giornalista).
Nel commemorare quell’otto di settembre, i Paracadutisti della Sezioni A.N.P.d.I. di Reggio Calabria organizzano una marcia “rievocativa” che ripercorre simbolicamente l’impervio cammino compiuto dall’Ottavo Battaglione Paracadutisti del 185° Reggimento della Divisione Nembo. Ad essi, vengono resi gli onori. Nel 1995 venne eretto un monumento di pietra che in maniera concisa ammonisce:
“QUI SULLO ZILLASTRO, EPIGONE DI UNA GUERRA DISASTROSA, L’8 SETTEMBRE 1943, SUSCITANDO L’AMMIRAZIONE ED IL RISPETTO DELLE PREPONDERANTI FORZE ANGLO – CANADESI, I QUATTROCENTO PARACADUTISTI DELL’ VIII BTG DEL 185° RGT DELLA DIV. ‘NEMBO’, COMBATTENDO PER L’ONORE DELLA PATRIA, SI COPRIRONO DI GLORIA”.