La Calabria in Commedia: la maschera di Giangurgolo
- Marco Tripodi
Dall’inizio del secolo scorso si è cominciato ad indagare sulla storia della maschera calabrese, trovandosi di fronte ad uno stato di oblio e di completa dimenticanza del folclore e della cultura popolare della maschera, che per secoli ha rappresentato la Calabria sui palchi della Commedia dell’arte: è una condizione questa che accomuna quasi tutto il Meridione, lasciando a Napoli la grande eccezione di Pulcinella.
Tra le maschere dimenticate è così riemersa quella di Capitan Giangurgolo: un vanaglorioso capitano dal cappello a cono e la divisa a fasce giallorosse, che mentre svuota intere botti di vino ed insegue la gonna di qualunque ragazza, agita incessantemente la grossa spada ed il lunghissimo naso. Questa fisionomia, unita ad un lingua che mescola comicamente il dialetto calabrese con lo spagnolo, rivela sin dalla sua comparsa l’identità della maschera: la brillante singolarità di Capitan Giangurgolo, com’è emerso da studi di materia risalenti sin al 1901, è quella di datare la sua nascita in un momento preciso, rivolgendosi ad una preciso contesto storico.
A seguito del Trattato di Utrecht del 1713, che pose fine alla guerra di Successione spagnola, la Sicilia passò dal potere spagnolo alla casa di Savoia; gli ultimi esponenti della nobiltà spagnola insediatasi in Sicilia furono allora costretti ad emigrare in Calabria, ma privi delle ricchezze e della posizione che li distingueva. I calabresi seppero dunque creare una maschera che prendesse in giro una nobiltà decaduta ma ancora arrogante e tronfia, che avanzava sul popolo calabrese con supposti diritti di nascita: l’abito a strisce che richiama la bandiera aragonese si unisce al cappello a feltro calabrese (che sarebbe poi divenuto distintivo per i briganti), ed il Capitano smargiasso diventa la perfetta caricatura per un potente che cerca di sottomettere il popolo e di vivere d’arroganza. Questo costituirebbe un caso unico nella Commedia dell’arte, e farebbe di Giangurgolo un autentico esempio di denuncia sociale, una maschera partigiana disegnata dalla satira popolare.
Adopero il condizionale perché, ahimè, tutto ciò non è vero: quella riguardante la nascita di Giangurgolo è una vera “questione”, che ha generato un lungo il dibattito accademico. Giangurgolo – maschera rappresentata nelle vesti di capitano ma anche (e soprattutto) quelle di zanni, nonché di vecchio padre, di oste, di soldato – nacque in realtà molto prima del Trattato di Utrecht: viene citato quasi un secolo prima, in un atto notarile del 1618, in cui un attore specializzato nel ruolo di Capitan Giangurgolo accosta il proprio nome, Natale Consalvo, a quello della maschera che interpreta. Non solo: la maschera calabrese non fu neanche inventata dai calabresi, né nacque in Calabria. Bisogna ricordare infatti, che la Calabria del tempo era una provincia rurale del Regno di Napoli, distante dalla capitale che al contrario viveva un vivacissimo fermento, economico e culturale. È a Napoli, la grande metropoli del Sud, che le compagnie si dirigono da tutta la penisola per esibirsi; è qui che vengono stampati i libri, è qui che la nobiltà spagnola convive con quella napoletana già da diverse generazioni, ed è in tale contesto che si sviluppa la maschera.
Giangurgolo nasce per il diletto del pubblico napoletano, poiché non esisteva affatto una scena teatrale calabrese: in questo modo il calabrese e lo spagnolo vengono ugualmente ritratti in una maschera che fonde in una i due caratteri, riunendo i peggiori luoghi comuni e pregiudizi in un’unica figura. Infatti, quanto emerge dallo studio della maschera, è soprattutto il disprezzo nutrito in passato per il nostro popolo, deriso sulle scene e ritratto ora come ottusamente legato al mondo contadino, ora come squattrinato costretto a nutrirsi dei siccamenti inviategli dalla famiglia, ora come bevitore e scialacquatore incallito pronto a bastonare e derubare le donne intorno a lui. Non è certo una novità: contrariamente a quanto si è soliti pensare, le maschere regionali sono nate in realtà non per mano di quelle città che oggi se ne inorgogliscono, ma piuttosto dalle regioni limitrofe, in qualche modo legate ai propri vicini, per ridere di quei popoli incarnati in un carattere che riassumesse ed esaltasse i loro difetti (è ciò che i veneti hanno fatto creando Arlecchino, sbeffeggiando i bergamaschi).
Sbeffeggiare i calabresi poi, era cosa ancor più semplice: indagando nel passato della nostra terra, non sarà difficile imbattersi in una lunghissima serie di luoghi comuni di carattere razzista di cui questa era oggetto. Si tratta di pregiudizi consolidati, descritti anche in autorevoli trattati di drammaturgia o testi storici, riguardanti l’incapacità da parte del popolo calabrese di parlare una lingua più comprensibile del proprio dialetto, l’impossibilità di essere governati secondo leggi civili, l’appartenenza ad una razza più animale che umana; non solo: è diffusa in pieno Seicento anche la credenza che i calabresi siano responsabili della morte di Cristo. Infatti, alleatisi con Annibale e sconfitti da Roma, i Bruzi sarebbero stati condannati a prestar servizio come schiavi o come guardie presso le estreme provincie dell’impero. Nient’altro che calabresi dunque sarebbero stati quei soldati che crocifissero Cristo in Galilea.
Queste ragioni sono forse alla base del luogo comune sulla nascita di Giangurgolo a seguito del Trattato, dal momento che questo continua ad essere ribadito nonostante sia già stato smentito da diversi decenni.
Vi è motivo dunque di ricordare la maschera di Giangurgolo come simbolo della Calabria? Sì, ce n’è motivo, ma solo per ricordare come la nostra terra fosse il bersaglio di un razzismo radicato e diffuso, tanto da emergere sulle scene teatrali della Commedia dell’Arte. Non solo: è da questo presupposto che diversi autori teatrali calabresi hanno in seguito sviluppato degli epigoni che potessero scrollarsi di dosso l’immagine pregiudizievole di Giangurgolo per creare invece nuovi caratteri coniati per riscattare il calabrese agli occhi del pubblico: mi riferisco ad autori come Orazio Pugliese ed Anonimo Martino, che crearono commedie in cui il calabrese finalmente si rifaceva con orgoglio di tutti gli insulti subiti in anni di rappresentazioni.
La Calabria è stata una provincia del Regno, distante dal fermento cittadino che alimentò il traffico di compagnie teatrali, spunto ideale per disegnare un carattere da dileggiare, ma ha saputo nel tempo sollevarsi da una simile condizione per sviluppare nuove maschere (i Pantacchio e Pagliazzo delle commedie su citate) che seppero rigirare sui propri vecchi sbeffeggiatori gli strumenti della satira, divenendo finalmente protagonista sulla scena. Quegli elementi che venivano additati come difetti irrisolvibili del popolo calabrese, come la sua lingua aspra e rozza, l’inguaribile testardaggine e la smania per la compagnia femminile, sono divenuti punti di forza per meccanismi comici che sopravvivono ancor oggi (si pensi alle trovate del moderno Micu u’ pulici), riscattando così un immaginario che tendeva ad emarginare la nostra regione.
Senza volerlo, la maschera di Giangurgolo ha contribuito a sviluppare un’identità collettiva, che fa punti d’orgoglio di ciò che veniva irriso come difetto. Lo prova il fatto che ancor oggi ripetiamo lo stesso adagio scandito sul palco da Giangurgolo, da Pantacchio e da Pagliazzo: «Eu sugnu calabrisi, e mi ‘ndi vantu!».