La guerra delle carceri. Come nacque la 'ndrangheta
- Rocco Palamara
Nei suoi famosi codici, la ‘NDRANGHETA non compare mai con questo nome ma con quello propriamente di “camorra”: il che denota le sue chiare origini napoletane. Dalla stessa camorra napoletana la ‘ndrangheta ereditò l’ideologia, il modo conforme di riunirsi “a circolo formato”, e (quasi identici) i gradi gerarchici; che per i napoletani erano: capintesta, capo società, capintrito (capundrina), contabile, camorrista, picciuotto di sgarro e picciuotto d’onore.
Persino il cosi detto “ tribunale d’umiltà”, il mastro di giornata e il picciotto di giornata, esistevano già nella vecchia camorra.
I camorristi napoletani predominarono per secoli a Napoli e più ancora dentro le carceri. Già ai tempi degli spagnoli, con un’ordinanza del 27 settembre 1537, il Viceré cardinale di Granvelle denunciava l’esistenza di cosiddetti priori che nelle carceri napoletane estorcevano denaro con la scusa di provvedere per “l’olio per la Madonna”: ossia alimentare il lumicino sotto l’immagine della Madonna presente in ogni posto di detenzione; che il più delle volte era anche spento.
Quattrocento anni dopo, nell’ottocento, la famigerata tassa imperava ancora e anzi costituiva la spina dorsale dell’esercizio di camorra dentro le carceri, in quanto assurta a caposaldo “giuridico” del potere camorristico: pagandola si riconosceva l’autorità.
Perseguendo questo principio i malandrini transigevano camorra (nel senso di tangente) da chiunque non era egli stesso un camorrista; fosse anche il più misero fra i carcerati. A chi non possedeva nulla lo costringevano a vendersi persino i vestiti che indossava e, se non pagava, erano ogni sorte di angherie e coltellate nel silenzio complice delle guardie e del direttore del carcere che era d’uso relegare ai camorristi l’”ordine” nella prigione.
Abusi al limite dell’aberrazione umana dunque; né contava esser nobili per essere rispettati, come fu il caso del Conte di Castromediano, finito in galera con l’accusa di aver complottato contro i regime, e che in un libro autobiografico “Carceri e galere politiche” descrisse delle condizioni terribili a cui era andato incontro nelle carceri dominate dai camorristi da dove ne uscì moralmente ed economicamente prostrato.
Dalle cronache del 1800 – periodo in cui si ha più documentazione – si sa di alcuni che si opposero anche con qualche successo: come nel caso di un prete calabrese che sfidò a duello un camorrista e l’uccise; ma fin che durò il regime borbonico fu pressoché impossibile sottrarsi all’infame tassa visto come i camorristi erano in combutta con i direttori delle carceri ed i carcerieri, corrottissimi sbirri loro complici.
I taglieggiamenti continuarono anche dopo l’unificazione nel Regno d’Italia; tanto che nel 1874, nel carcere napoletano di Santa Maria Apparente i camorristi depredavano i detenuti persino del pane che poi rivendevano ai secondini. Ai calabresi che si opponevano sostenendo che per l’olio della Madonna bastava quello che a damigiane portavano i loro famigliari, i camorristi reclamavano moneta sonante. Si creò per questo una contrapposizione tanto dura da indurre il direttore del carcere a innalzare un muro divisorio alto 5 metri per tenere separate le due comunità; ma successe lo stesso che – per vendicarsi dei soprusi – trenta calabresi guidati da un certo Borgese, salendo gli uni sugli altri e superato il muro, assaltarono il padiglione dei camorristi ingaggiando una battaglia che lasciò a terra sedici persone gravemente ferite.
Venti anni dopo, nel 1893, in un libro biografico un ex galeotto calabrese, certo Antonio M. (è sconosciuto il cognome), rivela della macelleria tra disperati nella promiscuità colpevole in cui detenuti rivali delle diverse regioni erano costretti da un sistema carcerario criminale che li obbligava di fatto a sbudellarsi fra di loro. Il vecchio galeotto racconta di numerose e sanguinose battaglie avvenute nelle varie carceri tra cui una micidiale, con numerosissimi morti, dove napoletani e siciliani coalizzati si batterono contro i calabresi a loro volta affiancati dagli abruzzesi.
Alleanze labili: nel 1904, nel carcere di Pozzuoli si sfidarono a duello dodici camorristi napoletani contro dodici mafiosi siciliani. Due siciliani morirono e due napoletani rimasero gravemente feriti.
Già in quella data, con la progressiva liquidazione dei vecchi sbirri borbonici, la “pax” camorristica nelle carceri era finita e gli equilibri di forza messi in discussione soprattutto nei bagni penali delle isole della Sicilia dove più numerosi erano i reclusi siciliani e più duri furono i conflitti. Nell’isola della Favignana, dove i mafiosi giocavano in casa, i camorristi messi a mal partito dovettero affiancarsi ai calabresi che più ancora di loro erano invisi agli isolani. Fu probabilmente in quella convergenza di bisogni che i napoletani, dopo secoli di chiusura, aprirono le liste ai calabresi partecipandoli del loro straordinario nouveau malandrino.
Prima di allora i camorristi napoletani erano gelosissimi della loro organizzazione dalla quale tendevano a escludere persino gli altri campani. Ma in quel clima di tutti contro tutti anche il connubio calabresi-napoletani durò poco e si venne a separazione. Di quella rottura e di quello che succedeva allora nell’inferno delle carceri rimane l’eco nei codici della ‘ndrangheta, tra cui una rievocazione utilizzata come rito di apertura di talune speciali riunioni “ a circolo formato”:
“ Nel 1870, scoppiò una guerra tra Napoli, Palermo e Spagna. Il nostro principe Rinaldo di Montalbano raccoglieva il sangue della società e lo metteva in un calice d’oro fino finissimo e conservandolo bene diceva: Amiamoci noi cari fratelli con sventura e con coltelli come si amavano i tre nostri vecchi antenati, i primi fondatori della camorra, amandosi con ferri e catene e camicie di forza; cosi dobbiamo amarci noi fedeli compagni! ”
Nel linguaggio cripto tipico delle fraseologie ‘ndranghetiste, per “Spagna” s’intende “Calabria”, mentre il riferimento a sferre, catene e camice di forza indica chiaramente che la lotta avvenne non tra nazioni ma tra carcerati delle diverse regioni. Nella stessa, con quel “amiamoci noi (altri) cari fratelli…”, si richiama a un atto rifondativo per una Camorra di soli calabresi.
Come per i primi cristiani, a base del nuovo patto tra corregionali fu messo il sangue dei “martiri” (“morti per l’onore della società” ), metaforicamente conservato dal “Principe Rinaldo” nel “Castello di Montalbano” insieme alle “ossa del tronco del vecchio Gagliano – ucciso dalla società di sangue perché aveva tradito la società di sgarro”: a memoria della guerra delle carceri.
La scissione dai vecchi maestri napoletani fu netta e non fu lasciato loro neanche l’onore della primogenitura camorristica, visto altri articoli della copiata come il seguente:
D. - Dove risiede la camorra?
R. - In una tomba segreta e profonda nell’isola della Favignana!
Il ché equivale a una formale dichiarazione d’indipendenza poiché, in base all’articolo 3 dello statuto (cosiddetto “frieno”) della Bella Società Riformata (nome della camorra), doveva essere Napoli la sede di tutte le camorre.
Sempre a Favignana la ‘ndrangheta collocherà le sue “fonti battesimali “ e nelle celle del suo carcere le fatiche dei suoi mitici fondatori: i Tre Cavalieri di Spagnache “…per noilavorarono per 29 anni sottoterra per approntare le regole sociali”; recita la copiata.
Ogni riferimento dei codici della ‘ndrangheta porta all’isola della Favignana dove di certo tutto iniziò. Proprio là, infatti, in un’indagine di fine Ottocento sul costume dei coatti lì confinati, il sociologo Michele Mirabella rintracciò una sorte di questionario con domande e risposte da sottoporre ai nuovi arrivati per verificare se appartenessero o no alla camorra. Domande e risposte del tipo:
D.- Come è nata la camorra?
R- Per mezzo di 3 cavalieri, uno spagnuolo, uno napolitano e uno siciliano… Ovvero secondo riferimenti, stile e modalità d’uso della copiata ‘ndranghetista di cui quel questionario è quasi certamente il canovaccio primitivo.