La leggenda. Nei boschi dei Fajetti
- Francesco Marrapodi
Per quanto incredibile possa sembrare, Omero lasciò all’umanità la più preziosa delle ricchezze. Un’eredità senza della quale il corso della storia sarebbe stato lineare e noioso come un cammino senza meandri. Privo di entusiasmi, insomma, di emozioni; senza particolari a cui dedicare la giusta dose di attenzione.
É pertanto un dovere civico riconoscere che Omero fu uno dei più grandi propugnatori del fantastico mondo delle fiabe: «Dimoran per le cime, o in antri cavi; su la moglie ciascun regna e sui figli; né l’uno all’altro tanto o quanto guarda». Ci parlò infine di Scilla e Cariddi, di Nausica, di Circe ecc. Era davvero sottile il filo che separava la realtà dalla fantasia.
Lo era allora. Lo è tutt’oggi. Specie quando si tratta di storie che fanno capo a leggende tramandate di generazione in generazione. E qui da noi, a partire dai tempi dei greci, di leggende ce ne stanno tante da riempire il Mediterraneo tutto. Escludendo le più famose, ormai superate, le restanti, cioè quelle di minore importanza, si sono perse – ahimè! – dietro i nostalgici tramonti della storia. Fortuna che noi abbiamo ripescato (se non altro per confermarne l’esistenza) alcune di esse, anzi, una in particolare: u fajettu o mazzamareddu; il leggendario folletto aspromontano che durante le notti di pioggia s’introduceva furtivamente nelle stalle, dove si dilettava a intrecciare le chiome ai muli e ai cavalli.
Ma non s’industriava solo in questo. Ai tempi di cui mi accingo a narrare, mentre gli uomini si perdevano nel loro fabbisogno quotidiano, nelle nostre foreste vivevano diverse comunità di folletti. Questo recita il racconto di cui stiamo parlando. E siccome i folletti, oltre ad essere delle creature schive, erano degli individui notturni, risultò pressoché impossibile per gli uomini stabilire un contatto con loro. Cosicché i componenti dei due mondi vissero le loro sorti separati da una sorta di barriera permanente. Una barriera che delimitava non solo il giorno dalla notte ma il mondo della realtà da quello della fantasia.
Salvo in alcuni casi dove a rompere suddetto incantesimo ci pensarono i pastori e i carbonari che passavano le notti sopra i monti. Molti dei quali, seppure ne parlarono in una o due occasioni, ebbero la fortuna di imbattersi con queste creature e, in alcuni casi, di trascorrere con essi le notti d’inverno.
Così pastori e carbonari rimanevano con i fajetti davanti alla luce di un focolare rurale ad arrostire castagne, bere vino e raccontarsi gli uni mondi e abitudini degli altri; con l’impegno, naturalmente da parte di entrambi, di non rivelare ciò di cui erano venuti a conoscenza.
I fajetti o mazzamareddi, erano degli esserini di color olivastro, piuttosto goffi, che, seppure paragonabili ad un umano di piccole dimensioni, possedevano le fattezze di un gatto, di uno scoiattolo forse, c’è chi dice addirittura di un grosso gufo. Non si sa con certezza. Quello che invece sembra certo è che questi curiosi esserini amavano le burle. Atti di ogni genere venivano, infatti, portati a termine a danno degli animali delle stalle: bere il latte dalle mammelle delle pecore, ad esempio, intrecciare le code a muli e cavalli, fare scalpitare le vacche, e in diversi casi succhiare il sangue agli stessi.
Tra tutte le cose che si son potute raccontare circa queste affascinanti creature notturne, la storia che incuriosisce di più e che ci accosta al mondo delle fiabe (tra incantesimi e sortilegi, salvezze e compensi) è quella del folletto salvato da morte certa da un povero pastore. Fu come segno di gratitudine a tanta magnanimità che il folletto rivelò in seguito al pastore un importante segreto. Gli svelò, infatti, il punto esatto (nel tratto un tempo conosciuto come la Via dell’argento, precisamente tra Samo e Ferruzzano) dove giaceva sotterrato un forziere colmo di monete d’oro.
La leggenda vuole che in una fredda notte di febbraio – l’Aspromonte sonnecchiava adagiato sopra una fitta coltre di neve – uno dei folletti di ritorno da una fattoria, dove aveva perpetrato le sue burle a danno di alcuni animali domestici, fu assalito da un branco di lupi. Ridotto in fin di vita riuscì a salvarsi arrampicandosi sopra un albero. Ma sarebbe morto comunque, forse assiderato o per le ferite riportate, se non fosse stato che un pastore, avvertendo la presenza dei lupi, temendo che stessero per assalire il gregge, li cacciò via a fucilate. Fu dopo quel trambusto che il folletto si lasciò cadere dall’albero, e che il pastore si accorse di lui.
Il povero mandriano, benché non avesse idea di cosa si trattasse, portò il folletto dentro il suo capanno per sottoporlo alle relative cure. Ci mise una decina di giorni (a forza di mangiare toma, latte e formaggio) il folletto per riprendersi; ed altrettanti per arrivare ad essere nelle condizioni di lasciare lo spiazzo. Ma prima di farlo volle riparare il disturbo causato al pastore. E lo fece in maniera brillante, e cioè rivelandogli il luogo dove era seppellito un forziere contenente una cospicua somma in monete d’oro.
Forziere che, in seguito, fu realmente recuperato dal pastore, e che nell’arco di poco tempo fece di lui uno degli individui più ricchi dell’entroterra aspromontano. Benché abbiamo la quasi certezza che si tratti di una fiaba, ci piace lasciare uno spiraglio aperto all’altra realtà, quella che fino ad oggi ci ha visto accostati a un mondo che sin dai tempi d’Omero, e forse anche prima, ha costellato di fascino e magia le nostre misere esistenze.