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La leggenda. “U Zinnapoticu” e il bracconiere della fiumara Santa Venere

  •   Francesco Marrapodi
La leggenda. “U Zinnapoticu” e il bracconiere della fiumara Santa Venere

U Zinnapoticu trascorreva le sue giornate nei pressi della fiumara Santa Venere; e quando non emergeva dall’acqua per passare da uno stagno all’altro, se ne stava in tutta tranquillità sguazzando nei fondali.

Fu un tale di nome Sgrò, contadino di Caraffa del Bianco, il primo a insistere sulla sua esistenza. E altri ancora (tutti contadini, pastori, coloni, boscaioli) gli andarono dietro con l’eccitazione di un bimbo ai primi passi. É possibile che nemmeno loro sapessero di cosa stessero parlando, ciò però non li dispensava dall’insistere sul fatto che lo Zinnapoticu era un mostro di discrete dimensioni, per metà pesce e per metà uccello. Infatti, giuravano che mentre gironzolavano (chi nei paraggi della fiumara Santa Venere, chi attingeva l’acqua o girava la mastra per irrigare l’orto, oppure, come nel caso dello Sgrò, era a pesca di anguille), le acque si sollevarono spaventosamente all’improvviso e ne venne fuori uno strano esemplare alato. Esso possedeva delle piccole pinne di delfino sul dorso, le zampe d’oca, la coda di pesce, il becco a spada e il corpo ricoperto di minuscole piume dai colori dell’arcobaleno. In breve, aveva tutte le sembianze dei pterodattili, della famiglia dei pterosauri. Della fiumara di Santa Venere ci parlò Saverio Strati nel suo romanzo vincitore del premio Campiello Il selvaggio di Santa Venere, ma mai fece riferimento (che fossero leggende o meno) a storie come questa. Eppure, come ho già detto, lo Sgrò insieme a una sfilza di altre persone giurarono di aver assistito in una o più occasioni alle sommersioni o immersioni di questo strano esemplare. Ma quanto c’è di vero in questo? E quanto di leggenda? Che le vite dei nostri avi fossero costellate di strani racconti, dove curiosi esseri animali calcavano la scena delle lunghe e faticose giornate, non è una novità. Basta pensare che discendiamo dai greci e che come tali abbiamo ereditato la mitologia. Ma proviamo, seppure per un solo attimo, a immergerci in questa realtà. Chi ci assicura insomma che questo strano animale per metà pesce e metà uccello non sia realmente esistito? E se si trattasse davvero di una specie catalogabile al periodo giurassico che per qualche strano prodigio fosse riuscita a scampare all’estinzione magari ancorandosi proprio in quell’angusta estremità di mondo? D’altronde la prova che nel periodo giurassico esistevano i dinosauri, anche qui da noi, non è affatto una novità. Certo, sarebbe un perfetto controsenso pretendere di rimettere in piedi una specie estintasi milioni di anni fa. Eppure, si direbbe che le cose stiano proprio in questo modo; anche se potrebbe comunque trattarsi di creature non necessariamente risalenti dell’era giurassica. Come stavo dicendo, stando alle dichiarazioni fornite in passato dal signor Sgrò, che per motivi di riservatezza abbiamo ritenuto necessario svelare solo il suo cognome, c’erano buone possibilità che tutto ciò fosse vero. Lui stesso sosteneva di aver assistito per più e più volte alle esibizioni di quest’essere che tanto interesse aveva destato nell’ambiente di allora. Stiamo parlando di quasi cent’anni fa. Raccontava che in una di queste gli era accaduto un episodio curioso, quello che diede, appunto, voce alla leggenda, se di leggenda si trattò! Diciamo pure che Sgrò era quello che oggi, a titolo di legge, si può benissimo definire un bracconiere. Infatti, come del resto la maggior parte dei contadini di allora, oltre a vivere dei prodotti della terra, Sgrò viveva di selvaggina. Nel triangolo di Mendulà, Fronzè e Santa Venere vi aveva, appunto, impiantate le sue trappole. Trappole da cui ricavava quotidianamente il suo modesto bottino. Ciò includeva: tordi, pettirossi, merli, beccacce, quaglie. Ma comprendeva pure una vasta gamma di altri animaletti quali ghiri, ricci, topi. Non c’è di che stupirsi, perché con la fame che c’era allora persino i topi finivano in pentola, ovviamente si trattava di topi di campagna che si nutrivano di ghiande, bacche, ulive, frutta, mandorle. Ebbene, il signor Sgrò era un valido cacciatore di frodo, anche se la sua vera specialità era la pesca delle anguille nei fondali della fiumara. E fu proprio in una di queste uscite di pesca che gli accadde ciò che in un primo momento lo sconvolse, e in un secondo momento lo portò a diffondere quella verità che diede vita alla storia che stiamo narrando. Ebbene, mentre con forchettone e canna era intento ad agguantare un’anguilla, dall’acqua emerse, quasi con la forza e l’esuberanza di un demonio infernale, la strana creatura. Ciò successe così inaspettatamente che il pover’uomo ne rimase confuso. Qui poté costatare, certo non senza meraviglia, che la creatura possedeva le dimensioni di un tacchino gigante; le ali, la cui apertura era di almeno quattro metri, erano a ombrello come quelli dei pipistrelli, mentre sul dorso delle stesse, tra le pinne dorsali come quelli dei pesci, spiccava un piumaggio dai colori dell’arcobaleno; le zampe a oca, cioè prive di artigli, si allungavano fino a raggiungere la coda che era simile a quella delle sarde, sosteneva Sgrò. Il fatto che non avesse artigli non faceva però di esso un animale innocuo, tutt’altro se si considera che il suo becco possedeva una stretta impressionante. E fu proprio con l’aiuto del becco che il mostro tentò di strappargli il bottino di pesca: l’anguilla che nel frattempo gli si era attorcigliata al braccio del povero Sgrò. Successe una lotta di diversi minuti. Certo Sgrò avrebbe ceduto ben volentieri il suo bottino al mostro se non fosse stato che l’anguilla gli era rimasta attorcigliata al braccio; perché sta di fatto che lui, al contrario dello Zinnapoticu, stava lottando per liberarsi della preda. Fortunatamente il mostro dopo vari tentativi andati a vuoto rinunciò e con un’energica battuta di ali scomparve tra gli oleandri e le fitte fronde. Fu così che il povero Sgrò poté tornare al paese e iniziare a dar alito alla sua disavventura. Disavventura che nei giorni successivi fu vissuta – come spesso succede in casi come questo – in prima persona da tanti e tanti altri contadini, pastori, boscaioli, coloni, latifondisti, vaccari e così via. Storia che, ben presto, transitando da un focolare all’altro, da comare a comare, da compare a compare, da paese a paese, divenne la leggenda che oggi conosciamo.


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