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La lira calabrese raccontata da Ettore Castagna

  •   Ettore Castagna
La lira calabrese raccontata da Ettore Castagna

Non voglio dirvi nulla di scientifico ma parlare solo della mia esperienza personale nell’ambito della riproposta lira “calabrese”. Ho pensato di proporvi un confronto con l’oggi di un mio scritto di quasi vent’anni addietro, La lira, il cliché dell’etnografo, la nostalgia e il rock’n’roll (Quaderni Calabresi, Vibo Valentia, n. 88, luglio/settembre 1997) nel quale affrontavo il problema della riproposta fuori dallo storico ambiente contadino e pastorale della lira, l’antico cordofono ad arco di origine bizantina della Calabria meridionale.

Così scrivevo allora: «La prima questione riguarda la vecchia polemica sulla legittimità di riproporre musica tradizionale fuori dal suo contesto originario in situazioni didattiche, concertistiche, etc. oppure sulla legittimità (un problema, direi, più light) dell’utilizzo degli strumenti popolari “fuori contesto” per fini artistici, di studio e così via. La seconda questione è quella dello studio e dell’apprendimento degli strumenti popolari da un punto di vista non etnografico e non accademico. Entrambi i temi rientrano all’interno di un problema più ampio che è assolutamente planetario. Ovunque le culture musicali tradizionali vivono delle trasformazioni. Ovunque c’è qualcuno che apprende, rifiuta, dimentica, studia». Sono passati vent’anni ma gli interrogativi posti rimangono per me validi. Anzi direi che le trasformazioni intervenute negli ultimi dieci anni in merito alla moda dell’etnico, della musica “con radici” che ha investito da ultima la Calabria dopo aver toccato, con grande successo di pubblico e di consumo culturale, la Puglia, la Campania e il resto del nostro Sud hanno rinnovato la validità di alcuni quesiti. Ovviamente vent’anni fa quello che c’è oggi non c’era. Al contrario c’era la solitudine di quei pochi che questi problemi si ponevano, cercando di individuare un percorso valido che producesse senso e che un qualche senso comunque avesse.

Ho avuto modo di trattare più volte il tema/problema della moda della “tarantella” e della musica pop-leggera oggi sentita come “tradizionale” dalle folle dei festival alla ricerca di frammenti di identità fra le pieghe della contemporaneità. Lungi da me ogni giudizio di valore su successo/insuccesso, gusti dominanti/marginali, tarantella pop contro suoni acidi e antichi del mondo contadino. In questa sede per ragioni di spazio e di contesto vorrei limitare il ragionamento al mio percorso individuale e a quanti lo hanno a vario titolo condiviso. Parliamo di scelte e gusti miei, non scelte e gusti degli altri. Partiamo da una domanda. Ha avuto senso in questi ultimi venti anni studiare stile, modalità, timbri, fraseggi della lira contadina? Ha avuto senso continuare un modo di suonare. In sostanza e usando una metaforica domanda: ho fatto bene a cantare rap nel dialetto di mia nonna? E inoltre: faccio ancora bene a ricordarmelo, a parlarlo il dialetto di mia nonna? Così scrivevo vent’anni fa: «Voglio partire da una elementare verità esperienziale. Secondo me la frequentazione assidua di un maestro della tradizione permette di apprendere le strutture della cultura musicale orale e di farle proprie in qualche modo. Credo proprio invece che la cultura musicale tradizionale si possa apprendere anche partendo inizialmente da un punto di vista “altro”, esterno ad essa. Io non sono di cultura contadina, provengo da una cultura urbana e borghese. Se l’alterità dovesse coimplicare forzosamente un complesso di colpa che bisogna espiare porterebbe, come tutti i complessi, con sé un blocco contrario alla comunicazione fra il soggetto e l’oggetto. In un senso o in un altro. Nel caso così fosse io ne sarei (stato) assolutamente bloccato». Di certo allora gli ultimi maestri della tradizione erano ancora vivi e l’incontro/impatto con la testimonianza del musicista di tradizione orale aveva un valore umano che registrazioni, foto e filmati non potranno restituire. Il tempo passa e non porta solo la scomparsa fisica della vecchie generazioni. Il tempo trasforma, rigenera e annulla, resetta le memorie e conferisce loro una nuova operatività.

Mi sento fortunato nell’aver conosciuto un mondo musicale ma non ho mai avuto né l’intenzione né la voglia di sostituirmi ad esso. Ho scritto tante volte che la nostalgia non mi interessa e che preferisco la testimonianza. Così credo di aver fatto. Suonare la lira (e poi insegnarla) è stato per me un tentativo di raccogliere il testimone e tentare un percorso nel quale quello specifico modo di sillabare il suono, di accentare i respiri, salvasse la propria diversità per riarticolarla in un quadro contemporaneo. Osservavo già allora: «Trovo importante che la lira non sia nell’oblio. Ho una foto del 1980 che ritrae l’equipe al museo di Palmi. Facevamo un rilievo tecnico della lira depositata colà. Era la prima volta che vedevamo una lira. Ricordo che tutti a turno cercavamo di cavare qualche suono dall’unica corda rimasta sullo strumento. Era impossibile. Non avevamo mai visto un suonatore, non sapevamo che fare. Di quell’oggetto chiuso in una teca non sapevamo nulla. Oggi il repertorio tradizionale della lira è documentato e registrato, studiato, appreso e rieseguito da molti giovani. Questo forse non è la “purezza primigenia” ma non è poco. […] Le culture tradizionali “si muovono”. É volgarmente schematica l’equazione: cultura occidentale uguale movimento, culture “altre” uguale immobilità. Quando l’etnografo scopre che il repertorio delle cose da lui scoperte si è in qualche modo corrotto nel contatto con la modernità viene regolarmente colto dalla nostalgia. Ed è una nostalgia probabilmente ipocrita verso l’eden etnografico ipostatico irrimediabilmente scomparso. Fra le pieghe del “sentimento” si intravede una vecchia sindrome occidentale e borghese verso le culture cancellate sotto i colpi dell’imperialismo (fuori dall’Europa) o del “progresso” (in Europa). É la cattiva coscienza di un Occidente ingordo e distruttore che si esalta nella edificazione di musei fatti esponendo gli scalpi degli altri e naturalmente mai i propri». Io non sto con i filologi e con gli etnomusicologi divisi fra l’ossessione per la filologia stessa e l’amore incestuoso verso il pop e il mercato. Non sto nemmeno con la tarantella pop e immerso nel mainstream dei festival. A me non dispiace che le piazze si riempiano di fans, dalla tarantella pop alla lira. Mi piace però sentirmi diverso da loro e mi piace la diversità di quello che suono che considero un valore culturale generativo e fecondo. Così erano i suonatori un tempo. Ognuno a modo suo.

Voglio continuare ad essere scomodo e non schierato come non lo era Giuseppe Fragomeni: «Il costruttore e suonatore tradizionale di lire Giuseppe Fragomeni, scomparso alla fine del 1997, è “scomodo” per certi etnografi perchè “insegna” la lira a me che sono calabrese ma non sono contadino ed ai miei amici di Bergamo e di Assisi, costruisce lire e le vende anche fuori dal proprio contesto “agropastorale”, va a suonare non solo alle occasioni tradizionali ma anche in televisione ed ai festival. Giuseppe Fragomeni “rischia” le ire degli etnografi perchè inizia ad essere simile “a chi pone la domanda”, a chi cioè si è “istituito” come osservatore. […] Se di una cultura non riconosciamo nulla di vivo ed in grado di trasformarsi allora non si tratta più di una cultura (musicale) ma di un complesso di oggetti senza logica e relazioni. Praticamente la lira reclusa in una teca che trovammo presso l’incolpevole museo etnografico di Palmi nel 1980». Spero di avere tempo e modo in futuro di fare il punto in un modo più articolato ed approfondito su un’esperienza di didattica della lira con la quale mi sono accompagnato per un ventennio in stage, festival, seminari in giro per l’Italia. Ovviamente anche questa non è stata una traccia statica e lineare. Non ho fatto un’invenzione esaustiva per replicarla in modo uguale a se stessa. La didattica è una cosa viva che muore quando smette di cercare la comunicazione. Un po’ come hanno sostenuto alcuni importanti jazzisti per il jazz medesimo, la musica per lira non può essere insegnata per iscritto. Forse scrivere aiuta a studiare. Insegnare quello specifico modo, quella mentalità della musica deve ripercorrere le vie dell’insegnamento orale, dell’ascoltare e ripetere, che ha fatto per secoli la storia espressiva di contadini e pastori. Certo oggi siamo facilitati tecnologicamente e la debolezza della memoria può essere integrata dagli appunti digitali di una sequenza catturata con lo smartphone. Rimane però il fatto che la differenza fra chi ha imparato in un certo modo e da certi “maestri” si sente. In ogni musicista, in ogni colpo d’arco, in ogni modalità di fraseggio si può ascoltare la storia musicale di quella persona, capirne i gusti. Per cui io dico che si può.

Si può suonare come i nostri vecchi, si può seguirne la traccia anche suonando la lira in un gruppo neo-punk. Il nodo è suonare rimanendo una persona e non l’ennesimo clone di questa o quella moda. Sono costretto a partire da una affermazione immodesta: «Io ho imparato la lira. L’ho fatto frequentando i suonatori tradizionali […]. Eppure io non ho mai detto di essere un suonatore tradizionale». D’altra parte, come si usa nella logica tradizionale fra mastru e discipulu, sono stati i suonatori tradizionali stessi ad avermi incoraggiato. Potrei citare il grande Domenico Tropea: «Sonàti megghiu du Barilli» (riferendosi al citato mitico suonatore di Agnana), oppure ancora Pasquale Jervasi: «Certu ca mi pigghiastivu i sonati!» (Certo che me le avete prese le suonate!). Di Fragomeni, di cui conservo un ricordo particolare data la profonda reciproca stima e rispetto personale posso citare questo frammento dai taccuini della memoria: “[…] Fragomeni era già pressoché immobilizzato dalla malattia. Una sera a casa sua mi chiese di suonare mentre il barbiere gli tagliava i capelli. Era un fiero artigiano e si piccava di fare meglio le cose di chiunque altro. Per questo si tagliava i capelli da sé e per la prima volta, da quando si era sposato, il barbiere entrava in casa sua. Era una mesta occasione per Pepp’i Campu abituato ad arrampicarsi con l’ascia sugli ulivi. Per un contadino la mobilità è tutto, è il centro della grazia di Dio. La salute no, in fondo si vive e si muore quando è destino. In fondo la campagna si affronta anche da malati. Basta potersi muovere. Invitare il barbiere era un fatto brutto, era avere perduto un pezzo importante del poter vivere. Il barbiere si stupì del perché un cittadino si interessasse a quella roba vecchia e paesana ed a quel punto Rosa, la figlia di Peppe, ruppe il silenzio: «Eh no! Una volta questo era uno strumento dimenticato… adesso per merito di questi amici non è più così». A Peppe Fragomeni, malato e curvo, brillarono gli occhi mentre commentava con tono di sfida ironica all’indirizzo del barbiere «E vidistivu comu si ‘mparau bbonu?! … e sutta de illu tanti!… pensati ca esti nu professuri di Catanzaru!».


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