La nostra storia. Africo 1807 - La cacciata dei francesi
- Rocco Palamara
La vicenda di Marantonia e l’eccidio francese del dicembre 1806 presso l’abitato di San Luca recentemente rievocati da Antonio Strangio in “In Aspromonte”, ci riportano a un periodo cruciale della storia della Calabria sin troppo poco rivisitato e analizzato per capire le divisioni profonde che sussistono ancora tra le classi sociali nella regione. Allora i calabresi diedero il meglio e il peggio di sé combattendo strenuamente contro gli invasori francesi o – nell’altro verso – affiancandoli contro i propri concittadini in nome di una ideologia (quella dei giacobini) e per interesse come l’accaparramento delle terre feudali.
Di fronte al modernismo peloso della classe colta e benestante della cosiddetta Repubblica Partenopea costituita dopo la fuga del Re e l’entrata a Napoli dei francesi, i contadini calabresi scelsero il male minore accorrendo numerosi sotto le insegne del Cardinale Ruffo che andò ad abbatterla; e si opposero poi alla seconda calata dei francesi con una guerriglia accanita che impressionò l’Europa e fece da modello alla più famosa guerriglia spagnola; guadagnandosi però la damnatio memoriae e la denigrazione sistematica per essere stati dalla parte sbagliata della storia. Il patrimonio morale e politico di un popolo che ha saputo, unendosi, incutere rispetto al prezzo di immani sacrifici è andato sprecato.
I borghesi e gli imborghesiti di destra e di sinistra, monopolisti della politica e dei mezzi di comunicazione fino al tempo di Internet, si sono ben guardati di rimestare nelle vecchie vergogne andando a rimembrare le storie di assoluto valore di quella epopea di popolo di cui ne è parte anche la vicenda che sto per raccontare ripartendo proprio da quel terribile dicembre 1806 a San Luca. Perché due mesi dopo toccò ad Africo essere attaccata dai soldati.
A quel punto della loro avanzata, le truppe di invasione francesi sostenute dalla solita borghesia locale avevano rioccupato Napoli e quasi tutta la parte continentale del regno; mentre i Borboni attestati in Sicilia, dove si era rifugiato il Re con tutta la corte tenevano ancora la punta estrema della Calabria, ivi compreso Africo e Casalinovo con alle spalle la piazzaforte di Bova.
E fu in questa situazione precaria che avvenne il fatto che gli anziani tramandavano con la dicitura: “Quando cacciammo i francesi”. Raccontandolo senza enfasi o cipiglio guerriero ma come un banale fattarello accaduto nel lontano “tempo dei briganti” o, appunto “ … dei francesi”. Solo a titolo di cronaca veniva citato un particolare tipicamente militare: per un tamburo sottratto ai nemici (preda di guerra) e conservato ancora – si diceva – in una casa di Africo Nuovo.
Fu invece un evento straordinario e una pagina gloriosa per gli aspromontani tutti degnamente rappresentati allora dai paesi di Africo, Casalinovo e Bova ai cui anziani rimase l’onere e l’onore di tramandare il ricordo dei fatti eccezionalmente e sostanzialmente riportati anche nel libro storico, “IN TERRA DI BOVA” del 1927, dall’illustre bovese Antonio Catanea, con le testuali parole:
“…nel 1807 il territorio di Bova venne a trovarsi quasi al limite di occupazione e devastato dai Francesi e dai Borbonici: In tale anno il comando francese aveva deciso di sottomettere l’abitato di Africo, posto più avanzato dell’occupazione borbonica e che per difficoltà di difesa era stato abbandonato a se stesso. Un giorno del febbraio 1807 due compagnie di volteggiatori francesi (circa 150 soldati – Nda) si presentarono improvvisamente alle porte del paese: gli abitanti sorpresi cercarono dapprima di impedire l’entrata, ma sopraffatti dal numero si allontanarono rifugiandosi sui monti vicini e richiedendo rinforzi a Bova, dai loro rifugi però osservarono che i nemici non contenti di aver conquistato il paese mettevano tutto a fuoco; ritornarono allora furibondi combattendo eroicamente contro un nemico più volte numeroso e costringendolo ad abbandonare la preda e parte delle armi e degli stessi bagagli .
Giungeva frattanto il colonnello Vincenzo Veneti con una massa di diverse centinaia di volontari: questi unitisi agli Africoti ed ai Casalnuovesi rastrellarono tutta la zona circostante, uccidendo i ritardatari e costringendo i pochi superstiti a veloce ritirata verso San Luca.”
Nel suo stringato resoconto Catanea non si sofferma nei particolari (il suo libro spazia su molto altro) tramandati però dai paesani, come l’episodio di una donna che si attardava nella fuga, sorda – sembrava – ai richiami dei compagni (ma perché invece raggiunta alle spalle dalle pallottole dei soldati); e con riferimenti ai luoghi che ci consentono di ricostruire i movimenti delle persone e le fasi della battaglia.
Dopo l’impatto iniziale e la fuga, gli africoti andarono a rifugiarsi su monte Carazzi, tre chilometri a Nord- Est del paese dove per prima cosa misero al sicuro le famiglie, e nei cui paraggi, prima dei rinforzi da Bova parecchio lontana, accorsero i vicini casalinoviti ai quali molto probabilmente neanche fu chiesto l’aiuto data l’antica rivalità tra i due paesi. Il loro apporto fu però determinante, come tramanda un dittu con riferimento ai “francisi” e – verosimilmente – anche la decisione di anticipare l’attacco si concretizzò col loro arrivo.
Nell’incalzare degli eventi, i soldati, costretti a lasciare il paese e ancora inseguiti, cercarono di riguadagnare il sentiero a Nord, da dove erano arrivati, dovendo però percorrere un primo tratto verso Ovest nella direzione di Bova andando fatalmente all’incontro dei bovesi in arrivo. Furono così presi in mezzo e nuovamente battuti tra le querce del Carruso il grande bosco a due chilometri dal paese.
Ma com’è potuto accadere che nella battaglia dentro Africo dei miseri montanari male armati e senza preparazione militare avessero avuto la meglio su soldati di élite ben addestrati, meglio armati e – secondo Catanea – persino più numerosi? Non si ricordano i particolari della battaglia ma, conoscendo i luoghi, la mentalità, l’agilità fisica acquisita per lo stile di vita e l’arma tipica dei paesani che era la ben maneggevole ascia leggera col manico lungo dall’ampio raggio d’azione (attrezzo di lavoro che nell’impervietà del territorio funzionava anche da bastone), possiamo immaginare a un attacco calato dall’alto: rapido, semi-celato dal fumo degli incendi e uno scontro corpo a corpo dentro il centro abitato come mai i francesi avrebbero potuto aspettarsi da dei civili “battuti”.
Nelle tortuose viuzze e dai bassi tetti adatti a repentini spostamenti e agli agguati, gli improvvisati gruppi di combattimento – solidali all’estremo perché composti da fratelli, cugini, padri e zii votati al massacro o ad essere tutti massacrati – prevalsero sui drappelli di ufficiali e soldati costretti a un combattimento inusitato in cui poco servirono loro i fucili e le sciabole contro l’audacia africota.
Il trauma per il comando francese fu notevole come si evince dal proseguo del racconto di Catanea:
“ …Giuseppe Monteleone da Fabbrizia detto “Runca” (roncola – n.d.a.) temuto capo-massa borbonico dopo avere tentato invano un assalto contro Sinopoli allora in potere dei Francesi erasi ridotto ad accamparsi fra Africo e Casalnuovo ove la truppa francese agli ordini del La Rue che l’inseguiva, memore dell’episodio di pochi mesi prima, non ardiva attaccarlo….”
Per come conosco i luoghi, l’incomodo ospite con i suoi ben 400 “briganti” dovette alloggiarsi nel grande bosco del Castanito strategicamente posizionato nella biforcazione tra due fiumare. In quanto all’altro detto del Carruso, per la quantità degli uccisi gli rimase la nomea di “bosco degli spiriti” e fin oltre 150 anni dopo i bambini avevano paura ad andarci; come già allora i presuntuosi francesi.