La nostra storia. Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto
- Rocco Palamara
Capitasse, per sorte, di dovervi destreggiare in una RIVOLTA DI PAESE vi tornerebbe utile conoscere come andò in due occasioni diversissime tra di loro, ad Africo e a Caulonia, tra gennaio e marzo del 1945. Potessi poi darvi anche un consiglio, pigliate dagli africoti e non dai caulonesi. Capirete da voi il perché.
Africo all’epoca era un piccolo paese isolato nella montagna, abitato da pastori e contadini poverissimi ma liberi, per lo più analfabeti; senza una classe artigiana ne un ceto borghese; non c’erano scuole, se non quella elementare e con un prete e un paio di impiegati i soli “istruiti” nativi del paese.
Caulonia, un grosso paese di pianura con una ricca agricoltura, aperto ai commerci, con ogni sorta di professionisti e laureati e una borghesia terriera con esponenti nobiliari reduci da secoli di angherie sui braccianti e sui coloni.
Uomo simbolo della rivolta, fu per Africo Santoro Maviglia detto don Santoro (pastore istruito da autodidatta negli anni passati in galera per un omicidio); e per Caulonia, Pasquale Cavallaro (professore erudito, e conoscitore di ben sette lingue straniere, perseguitato dal fascismo, capo partigiano e neo sindaco del paese). Entrambi comunisti e entrambi vicini alla ‘ndrangheta di quel periodo (perlomeno simpatizzante Cavallaro, sicuramente affiliato Don Santoro).
Curiosamente entrambi i paesi avevano (e hanno) per santo patrono un monaco protogreco, ma con opposti aspetti peculiari rimarcati nei simboli, nelle iconografiche e nel culto popolare. San Leo per gli africoti e Sant’Ilarione Abate per i caulonesi.
Entrambe le rivolte scoppiarono per le provocazioni dei carabinieri.
AFRICO – Assalto alla caserma
Gli africoti non erano nuovi alle rivolte e alle battaglie anche vittoriose. Intorno al 1100 fu San Leo in persona a guidarli alla riscossa contro gli arabi all’assedio di Bova – e nel 1807 che non ci furono santi cacciarono lo stesso gli invasori francesi.
Suscettibili per definizione, in quel tristo inverno 1944/45 diedero però prova di moderazione chiudendo la partita col regime senza vendicarsi della squadretta del “fascio” di gente del posto, per le tante botte subite; e neanche del podestà, Antonio Favasuli, considerando che la cattiva era stata sua moglie frattanto deceduta.
Oberati da problemi più impellenti sopportavano ancora la spocchia e i piccoli abusi dei carabinieri della locale caserma complici dei fascisti nel trascorso ventennio e sussistenti in loro continuità. I soggetti, sei in tutto, erano poi tra gli elementi peggiori della “benemerita” che mandava lassù per punizione i più immeritevoli e indisciplinati.
Si era allora sotto occupazione americana e mentre al Nord la guerra contro tedeschi e i fascisti era alla fine, al sud durava la fame e i viveri erano razionati. Per il paesetto di Africo (circa 1300 abitanti) l’addetto alla distribuzione era il capo dei comunisti Santoro Maviglia, detto “don Santoro” non perché fosse un prete o un capondrina ma per il prestigio di cui godeva nel paese.
Finito di scontare una lunga carcerazione per un efferato omicidio a colpi di scure (gli avevano tagliato le gambe alle sue vacche e lui fece pressappoco lo stesso all’autore) era tornato più posato, politicizzato e discretamente istruito; ma soprattutto onesto perché sebbene ex galeotto, in tempi di fame nera era proprio lui la persona più adatta per quel servizio, che svolgeva con imparzialità.
I soli a non apprezzarlo erano i carabinieri che pretendendo una razione extra in aggiunta a quanto spettante loro. Il Brigadiere faceva pressioni per avere più farina e don Santoro glissava giustificandosi come poteva. La mattina del 20 gennaio 1945, giorno della festa di San Sebastiano, Santoro si trovò a passare sotto al balcone dove era affacciato il brigadiere ed ecco il quadretto dell’ultimo battibecco tra di loro:
Br. «Maviglia, vedete di mandarmi altra farina che qui c’e fame!»
S. «Come faccio? Quella che darei di più a voi dovrei poi toglierla agli altri!..»
Br. «Vedete voi il modo, ma dovete mandarmela!»
S. «Non vi mando niente perché non posso rubare agli altri per dare di più a voi!»
A quel punto al brigadiere non gli rimase che masticare amaro e meditare ritorsioni. Si da il caso che proprio quella mattina arrivò da Roccaforte un attivista comunista per aiutare i compagni africoti a costituire in loco la sezione del partito e la Camera del Lavoro, e poiché era sotto servizio militare dovette prima passare per la caserma a farsi vidimare la licenza dal brigadiere. E questi – appreso il motivo della venuta e che il suo referente era il Maviglia Santoro – colse l’occasione per strapazzarlo un poco rinchiudendolo persino in cella per qualche ora. Poi finalmente lo lasciò andare, ma non prima di levargli gli scarponi nuovi dai piedi sostituendoli con i suoi più malandati.
Ma gli avvenimenti di quel giorno erano straordinariamente numerosi per il piccolo paese sperduto. Il giorno prima era arrivata da Brancaleone la farina col ritardo di due mesi (c’era chi se la imboscava) e don Santoro aveva il suo bel da fare nella distribuzione che svolgeva in una piazza davanti al deposito dando a ogni uno nella misura prescritta sul buono del segretario comunale. Un buono, una famiglia, ma per come in paese il lavoro era nettamente diviso “per maschi” o “per femmine” a stare li erano solo le donne.
Ne ebbe per tutta la mattinata fino alla pausa del pranzo, ma quando stava per riprendere con la distribuzione ecco arrivare il compagno militare a informarlo di quello che gli avevano combinato i carabinieri. La cosa non poteva lasciarlo indifferente dato che quello era suo ospite. Lasciato perciò ogni cosa, corse in caserma per chiedere conto al brigadiere che trovò là già mezzo ‘mbriaco. Seduto alla scrivania, infastidito per il disturbo, prese a apostrofarlo con parole di stizza e alla prima risposta si alzò di scatto e gli mollò uno schiaffo. Ormai scatenato si lanciò verso il moschetto ma a quel punto Santoro, vista la mala parata, imboccava la porta (che per fortuna era aperta) e scappava, a sua volta rincorso fino all’uscita dal brigadiere che nell’intimargli di fermarsi sparò pure, ma in aria.
Tornato di filata nel posto della distribuzione trovò una gran folla di donne che lo attendeva per la farina, ma solo per dire loro che potevano tornarsene a casa perché lui doveva fuggire via. Riferendo tutto dell’accaduto le donne andarono su tutte le furie contro il brigadiere e dissero che arrivati a quel punto doveva lui vedersela con loro.
«Ora andiamo e ce lo mangiamo!»
Fu tutto un coro secondo un modo di dire un po’ truce ma calzante in quel contesto di farina e di fame.
In tarda età, intervistato, don Santoro figurerà quelle donne come “tante pantere”. E così possiamo immaginarcele anche noi quando tumultuanti nelle strette rughe presero la direzione della caserma che era in periferia perché di nuova costruzione. Nessuno allora, neanche i loro mariti/padroni, avrebbero potuto fermarle, casomai. Attraversando il paese si aggiunsero man mano le altre donne, i ragazzini per strada e tanti degli uomini in giro per il giorno festivo. Smossi da trambusto, anche quelli occupati a giocare a “patrone e sotto” lasciarono le cantine e raggiunsero il corteo (alcuni già avvinazzati) così che alla fine un intero popolo apparse sulla scarpata sovrastante la caserma con sotto i carabinieri.
Era nel modo in cui un aspromontano verace di allora vorrebbe incontrare la “legge”; non per “parlargli” al modo intellettualmente scorretto di Antonello in “Gente d’Aspromonte”, ma per portargli un poco del conto a “quei cornuti di sbirri” (localmente parlando) per i tanti abusi subiti. Nel caso specifico degli africoti per i pestaggi in caserma, i divieti sul suono, i verbali per il pascolo nelle selve assurdamente vincolate e il sequestro delle capre e delle lenzuola serbate per dote alle figlie, che avevano messo alla fame l’intera popolazione. Di cui per la verità non furono di tutto responsabili i carabinieri ma anche il pretore di Bova, i militi forestali, le guardie comunali di Sant’Agata e di Samo, e altri impiegati dal cuore di pietra.
Cominciarono con le ingiurie gridate, le minacce e le offese, e a tirare i primi sassi sul tetto nuovo del caseggiato. Le prime tegole andarono a straci senza reazione da parte degli assediati impossibilitati per la posizione a uscire senza danni o scappare. Continuarono allora con pietre sempre più grosse fino ai macigni che rotolavano dalla scarpata, e non era tutto: alcuni corsero ai nascondigli e tornarono con bombe a mano e fucili per dargli giù anche con quelli fino a che il tetto cedette e quasi la abbatterono la caserma dei carabinieri.
Rischiando l’irreparabile, don Santoro con altri gridavano di fermarsi, ma la folla ormai scatenata continuava a tirare di tutto fino a che non arrivò una ragazza a gridare di smetterla perché la sotto c’era anche suo fratello.
Si fermarono allora per non rischiare di ferire un paesano e a maggior ragione per quello: il prestigioso parroco don Giovanni Stilo. Lui nella caserma c’era capitato per caso ma anche una fortuna perché era stato per merito suo se i carabinieri non avevano sparato sulla folla. Avevano già imbracciarono i fucili per fare fuoco quando don Stilo li dissuase dicendogli di pazientare un poco che presto la fuori si sarebbero stancati. E alla caduta del tetto li convinse ancora a mantenersi calmi e rifugiarsi piuttosto nel sottoscala che avrebbe resistito.
Imposta la tregua il prete poté venire fuori ma non altri perché subito il bombardamento riprese ostinato. Da sopra un terrapieno dei giovani sparavano senza sosta e don Stilo stesso si mise allora a gridare di smetterla. Si giunse alla fine a stabilire la calma e una sorte di tregua ma con la caserma sempre circondata e una folla che reclamava soddisfazione.
Intorno ai due “don” e a altri saggi in grado di mediare tra rabbia e ragione cominciò a profilarsi la strategia per una via d’uscita tenuto conto “dell’onore del paese”, un sentimento e un concetto tipico locale.
Mantenendo l’assedio e quindi la conduzione del gioco, gli improvvisati mediatori poterono fare i magnanimi con gli assediati offrendogli la possibilità di andarsene sani e salvi purché disarmati. Ed essi, ormai sottoscopa, stettero a ogni condizione, anche a essere perquisiti prima di uscire. Più che la resa fu la loro capitolazione!
Con la padronanza psicologica frutto della dura “scuola” paesana, quattro giovanotti scelti entrarono nella caserma per quell’operazione a parti invertite e che eseguirono nei modi drammaticamente specchiati sul brutto esempio dei carabinieri: a uso di far spogliare gli arrestati. Allo stesso modo dovettero spogliarsi loro. E fu davvero umiliante dover consegnare le armi da ignudi nelle mani di 4 soli ragazzotti: loro che erano 6 militari. L’offesa maggiore l’ebbero però nel momento di uscire, spinti fuori senza complimenti, con le mani alzate e (ancora)… in mutande.
Il lato comico della scena (l’altro era tragico) servì a stemperare la rabbia degli africoti che di seguito trattarono però bene i prigionieri: non li maltrattarono e gli ridiedero i vestiti. Infine li affidarono ai quattro giovanotti di prima (perché non si compromettessero altri) affinché li scortassero in sicurezza lontano da Africo, fino ai Campi di Bova.
(Continua…)