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La nostra storia. Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto (2a parte)

  •   Rocco Palamara
Don Santoro Maviglia Don Santoro Maviglia

Rimasti padroni del campo, uomini e ragazzi (le donne tornarono alle loro mansioni) si precipitarono dentro quello che restava della caserma, e non per saccheggiarla, metterla a fuoco o devastarla del tutto, ma per un atto di compimento quasi obbligato.

Là si improvvisò una assemblea per un primo bilancio e un confronto dove ci fu spazio tanto all’euforia per la “vittoria” che ai richiami di stare con i piedi per terra in prospettiva delle conseguenze per l’accaduto. Ne uscì, in sostanza, che SI’, era stato tutto giusto e tutto bello quello che avevano fatto ma che il governo l’avrebbe presa brutta e occorreva non ficcarsi oltremodo dalla parte del torto. Si stabilirono perciò alcuni punti fondamentali approvati all’unanimità:

A – Il governo era il più forte e bisognava non sfidarlo;

B – Si era tutti nella stessa barca e – per non danneggiare gli altri – ognuno doveva comportarsi secondo una linea stabilita.

Su queste basi si decise che la caserma doveva essere salvaguardata con ogni cosa in essa contenuta. Si fece l’inventario dei beni: c’erano 6 pistole, 2 moschetti, la cassa con 3.000 lire, e altre robe tipiche dell’ufficio. Nulla di ciò doveva esser toccato!

Poi, come se avessero preso la capitale della Nazione, si recarono in massa al Palazzo del Governo; ehm, scusate, al Municipio dove alla presenza del segretario comunale ( massima autorità presente nel paese) venne battuto a macchina il verbale sull’accaduto. Una copia fu inviata al prefetto affinché fosse chiaro che gli africoti non si ribellavano alle istituzioni: ma solamente reagito agli abusi.

Si sapeva comunque che per prima cosa sarebbero arrivati in forze i carabinieri per ripigliarsi il paese e non certo con i mazzi di fiori (mazze di bastoni si). Si dispose perciò un servizio di avvistamento per preannunciare l’arrivo di qualunque forestiero.

Poi venne la lunga attesa e, per una sorte di patto tra gentiluomini, senza commettere illegalità nel paese. Unica falla – durante la notte – dalla caserma sparirono soldi, fucili e pistole. Di buona volontà ce ne fu molta ma per i miracoli era più ardua l’impresa.

All’alba del secondo giorno la vedetta sui Campi di Bova segnalò l’avvicinarsi di una truppa di qualche centinaio tra carabinieri e soldati. Si videro poi dividersi in due colonne per convergere a tenaglia sul paese come in una manovra di guerra tanto accurata quanto inutile. Al loro arrivo gli uomini erano già tutti spariti.

Si sparsero per la campagna dove sapevano come cavarsela anche se d’inverno e a quelle altitudini, pure la notte, riparando in jazzi e pagliai sparsi nel territorio. Tanti si rifugiarono su Monte Carazzi come già nel 1807 al tempo dei francesi. Andarli a stanare anche da quei posti sarebbe stato arduo per i carabinieri privi come erano di ogni informazione e capi d’accusa circostanziati.

I fuggiaschi invece ebbero modo di ricevere viveri e notizie dal paese per tutto il tempo che restarono alla macchia (chi per qualche giorno e chi un intero mese) senza trascurare di riunirsi in più gruppi per vedere come districarsi dalla situazione. In particolare si fece una grande assemblea al sicuro sulla cima di un monte dove per prima cosa si propose il problema delle armi sparite. Il restituirle era fondamentale per poter minimizzare le responsabilità di tutti, senza scadere nell’infamità dello scarica barile. In un confronto stringente, da africoti a africoti, i ladri furono smascherati e obbligati a portarle quella notte stessa in un punto stabilito davanti al cimitero. Il resto lo fecero due donne anziane incaricate che al mattino li prelevarono dentro due sacchi e li trasportarono sulla testa fino alla caserma dei carabinieri.

Due vecchie perché almeno loro non correvano rischi in una comunità unita che metteva in gioco tutte le sue risorse. 

Nella stessa riunione sulla cima del monte venne eletta una commissione col compito di andare fino a Samo per chiedere aiuto e consiglio al Barone Franco incidentalmente sindaco di Africo (come anche di Casalnuovo, San Luca, Casignana, Caraffa, Santagata e Samo) per incarico degli anglo americani. Insperatamente egli era un vero asso nella manica per gli africoti dato gli antichi buoni rapporti col suo casato e quelli suoi ottimi col Comando Alleato, che gli avevano affidato un così folto gruppo di paesi. 

I Franco di Santagata, massoni e avventurieri generosi (due di loro vennero fucilati per avere aiutato il Generale Borjes nel 1861, e uno venne processato per aver ospitato il Brigante Musolino) furono i meno peggio tra i loro pari in Calabria e ciò per buona fortuna di africoti e casalinoviti che usufruivano in regime di “enfiteusi perpetua” del loro grande feudo a monte di Samo.

Per un incidente fortunato della storia il feudo era sfuggito all’eversione della feudalità e al riassetto proprietario borghese con le nuove e peggiori condizioni imposti ai contadini (caricati del costo della “modernità”). Con gli antichi patti e diritti, invece, africoti e casalinoviti dovevano devolvere solamente il quinto del raccolto al Barone, senza essere suoi dipendenti ne coloni.

Per tutto ciò sui Franco non circolavano aneddoti malevoli come per i soliti molestissimi agrari, e anche quella visita avrebbe lasciato una buona nominata: il Barone accolse amichevolmente i delegati promettendo loro di recarsi per prima cosa a Reggio per parlare col comandante delle Forze Alleate. Intercedette poi con gli ufficiali inglesi incaricati del caso facendo in modo che al loro arrivo ad Africo trovassero un bel pranzo e una gran festa in loro onore col Lui stesso per cerimoniere.

Soddisfatti dell’accoglienza gli ufficiali stabilirono che non di rivolta contro le autorità si era trattato ma di “lotta di liberazione partigiana contro i fascisti”!

«Ormai siete liberi!» Mandò a dire qualche giorno dopo il Barone.

Insomma, anche la diplomazia e l’arte della cucina funzionarono per quella che fu, si può dire, una vittoria su tutta la linea degli africoti per quella rogna che tutto sommato non s’erano neanche cercata. Restava solo una incognita, anzi la certezza che i carabinieri sarebbero tornati per vendicarsi. Solo il “quando” non era prevedibile. Ma il tempo che il nuovo regime repubblicano si consolidasse ed eccoli ritornare per una gran retata di 70 e più persone. Per la faccenda della caserma? Noooo…: per “associazione a delinquere” come già nel 1894 all’insorgere della picciotteria (nel versante Jonico) e poi ancora nel 1901 e nel 1928 in altre congiunture epocali.

Seguì il processo con condanne a pioggia fino a 5 anni di carcere, rei o non rei dei delitti loro ascritti (furti, danneggiamenti,ecc.) ma tutti implicati in quel brutto fattaccio della caserma: afrikoti. 

*Fatti ricostruiti sulla base delle testimonianze di Costantino Romeo (scrittore contadino), Costantino Criaco (Prof.), Santoro Maviglia (don Santoro) e altri africoti partecipi dei fatti.

(Continua…)


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