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La nostra storia. Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto (quinta e ultima parte)

  •   Rocco Palamara
La nostra storia. Africo e Caulonia 1945, rivolte a confronto (quinta e ultima  parte)

Il bilancio

Per tutto quello che accadde nei loro paesi in quell’inverno del 1945 gli africoti ne uscirono contenti di sé perché vittoriosi e con qualcosa in più da raccontare ai propri figli e nipoti; la comunità restò più unita che mai e i maggiori protagonisti della vicenda, don Santoro e don Stilo, rafforzati nel prestigio e destinati a rimanere punti di riferimento nei decenni a venire nella vita sociale e politica nel paese.

I caulonesi invece uscirono umiliati e sconfitti col paese ancora più diviso e spaccato e la risoluzione sulla terra sospesa all’infinito. Molti dei contadini trovarono più tardi il loro riscatto nella fuga verso l’Australia e in Germania e quelli che rimasero abbandonarono la lotta. Lo stesso Cavallaro, una volta uscito di galera, venne drammaticamente ridimensionato nel suo prestigio e né lui né i suoi figli furono mai più punto di riferimento a Caulonia della cui “repubblica” rimase un brutto ricordo, casomai da dimenticare (e dimenticato).

Emblematici delle vicende i santi protettori: San Leo per gli africoti, e Sant’Ilarione Abate per i caulonesi. Entrambi monaci proto-greci ma con opposti messaggi morali già per come figurati: il pratico e severo San Leo con lo sguardo diretto e l’ascia in mano; e lo stralunato Sant’Ilarione, ignudo, contorto e lo sguardo implorante nel vuoto. Come specchiati e rovesciati nelle storie ritroviamo anche l’attacco alla caserma; la gestione del paese; il prete; i piantagrane; i grandi proprietari terrieri; la questione delle armi e quella delle truppe di occupazione. Tutto andato in positivo per gli africoti e in negativo per i caulonesi.

Gli africoti

Gli africoti partirono avvantaggiati per il fatto di essere sostanzialmente una comunità senza classi e di avere “aggiustato” già da secoli talune questioni fondamentali come quelle della terra, dei baroni e dei preti. Per fare un esempio, nel loro mondo a parte (condiviso con i soli casalinoviti) un Don Amato avrebbe potuto campare cent’anni essendo là  consentito, anzi auspicato, che i preti si accasassero con una donna (sola) e allevassero con lei i figli come una famiglia normale. Se viziosi il rischio era di finire cacciati a pietrate (e successe tante volte da parte della popolazione) in quanto sul loro malaffare ne andava “l’onore del paese”.

Per gli africoti la rivolta fu la risoluzione dell’anima di un popolo sul punto del “rispetto”, tanto più profonda e autentica perché partita dalla sua parte femminile. L’azione delle donne, inaspettata e improvvisa, trovò gli uomini predisposti e preparati ad agire senza bisogno di essere incitati, convinti o guidati da capi. Da par loro ci andarono con mano pesante ma al momento giusto seppero anche dare ascolto alle persone più moderate e smisero di  bombardare i carabinieri a tempo giusto (prima di accopparli ma dopo avergli fatto prendere una gran fifa).

A quel punto degli eventi, là dove una normale folla di esagitati si sarebbe dispersa fugacemente, gli africoti insisterono nell’assedio fino alla resa, il disarmo e la cacciata dei carabinieri dal paese. Furono naturalmente coordinati e risoluti, e anche buoni strateghi per non aver mai lasciato possibilità di iniziativa agli assediati.

Chiusa quella fase (raggiungendo lo scopo) passarono rapidamente all’uso della diplomazia con quella esilarante lettera al Prefetto e la decisione in assemblea di preservare e non saccheggiare la caserma dei carabinieri.

Difronte allo strapotere del governo, insomma, gli africoti fecero di tutto per non sfidarlo preoccupandosi piuttosto, sin da subito, di come cavarsela dai rigori della legge rivendicando il rivendicabile senza distinzione di responsabilità. Sapevano quanto erano la vendicative le autorità: per l’altra più grande rivolta di 140 anni prima, contro i francesi, questi ultimi dopo che catturarono e fucilarono a Monteleone (Vibo Valentia) Antonio Zema, uno dei capimassa, si presero la briga di portare la sua testa tagliata sino ad Africo quale ammonimento alla popolazione.   

Col paese in loro mani si preoccuparono di mantenere l’ordine e la sicurezza tra la gente, senza vendicarsi dei fascisti per le malefatte del ventennio appena terminate, e prestando piuttosto ogni attenzione verso il nemico esterno stando in guardia sul ritorno in forze dei carabinieri. Quando infatti arrivarono non trovarono nessuno degli arrestabili e neanche  chi collaborasse alla ricerca dei fuggiaschi avendo essi evitato conflitti e vendette nel paese.

Ma dove gli africoti dimostrarono soprattutto coerenza e considerazione di se come comunità fu nella faccenda dei ladri della caserma (i “piantagrane”) che – in quanto  e comunque dei loro -  salvaguardarono dalla legge per risolvere il tutto da africoti ad africoti. Recuperarono comunque le armi da restituire ai carabinieri in modo che non servissero da scusa per una più dura repressione.  Ma la stessa restituzione fu un capolavoro di strategia paesana: con le due vecchie  (non imputabili) che andarono a portargliele direttamente in caserma in modo che poi i carabinieri non potessero dire di aversele recuperate da se.

Fecero ogni cosa senza la guida di veri capi, decidendo in condivisione in base alle proprie regole, esperienze e risorse morali, senza per altro cadere nella superbia di disdegnare aiuti e consigli da persone lontane dal loro ambiente come il Barone Franco di San’Agata, dopo averle valutate. Con l’imbonimento degli ufficiali inglesi completarono l’opera senza neanche un arrestato, né uno schiaffo, né aver concesso nulla al nemico. Per loro maggiore soddisfazione i carabinieri cacciati furono sostituiti da una squadra più rispettosa. E  che a distanza di due anni dai fatti gli sbirri, ehm… i carabinieri tornarono per vendicarsi si può dire che fu come per la grandine: un fenomeno ineluttabile che sarebbe comunque arrivato.

I caulonesi

Ben più triste fu invece la sorte dei caulonesi che alla fine della partita, oltre che alla più tanta galera, dovettero contare tra i loro ben 4 morti ammazzati, alcuni storpiati a vita e tutti quanti gli altri arrestati, bastonati a sangue e umiliati. Troppo la pagarono la soddisfazione di aver fatto paura, per una volta, ai loro secolari oppressori!

Eppure anche loro, come gli africoti, diedero gran prova di sé all’inizio. I cento o più che per primi accorsero alle armi per un atto di orgoglio e di solidarietà furono addirittura eroici. E le altre migliaia che si fecero avanti mettendosi in gioco come appartenenti a una classe fecero la loro parte perdendo poi per fatti che non dipesero da loro.

Tutto filò liscio fino a quando e nella misura in cui essi agirono basandosi sui loro sentimenti e sulla loro cultura rispondendo in quel modo alle provocazioni e all’offesa. Ma da quando (dal primo giorno in verità) si misero a scimmiottare una rivoluzione tipo Leninista che non era alla loro portata né a livello militare né ideologico, presero ad accumulare errori su errori mettendosi sempre più in mano ai dirigenti del partito comunista che giocava su altri tavoli e con altre priorità.

Al contrario che per gli africoti, mancò là un popolo unito in grado di decidere (anche per la complessità della situazione) in ogni fase con le proprie forze  e mezzi culturali. I contadini di diverse contrade si ritrovarono in classe combattente intorno a un capo carismatico, Pasquale Cavallaro, dipendente a sua volta da una ideologia, un partito e superiori in grado. E che alla fin fine si trovò drammaticamente  solo nelle responsabilità e con i figli suoi esposti in primo piano. Nel suo bagaglio, oltre alle buone intenzioni, c’erano patti che non sapeva scaduti con i vertici del suo partito sui quali si appoggiò tuttavia fino all’ultimo perché costretto ormai e per ingenuità.

Visti complessivamente, un Primo grande errore dei “caulonisti” fu quello di avere spinto, anche ingenuamente, la sfida allo Stato oltre le loro più ottimistiche possibilità. Un Secondo errore fu quello che, col paese saldamente in loro mani, esasperarono, invece che assopire, i conflitti nel paese andando a insistere sull’aspetto punitivo dei “nemici” e  trovandosi così a combattere su due fronti.

Con tutto ciò essi avrebbero ancora potuto risultare vittoriosi sul piano politico e quello morale – i soli possibili nelle loro condizioni contro lo Stato -  qualora almeno avessero chiuso con una resa onorevole e “l’onore delle armi”, così da restare idealmente un punto di riferimento per il movimento contadino come in qualche modo fu la Cerignola di Giuseppe di Vittorio.

Ma per arrivare a quello avrebbero dovuto non incappare nel Terzo sbaglio capitale, che compromise l’unità stessa del movimento. Mi riferisco alla disgraziata gestione dell’omicidio di Don Amato con la vergognosa consegna dei  due disgraziati (i loro “piantagrane” ma anche loro compagni d’armi) alla sbirraglia. Fatto che configgeva con i sentimenti più profondi dei contadini e persino con le regole più elementari di un corpo combattente. Fu come cedere l’anima al diavolo, e senz’anima non c’e corpo che possa reggersi in piedi. 

Ciò è successo quasi certamente su pressione dei vertici del partito comunista, ma a motivo che, colpevolmente, avevano ceduto agli stessi ogni decisione.  Sotto le loro “cure” i già rivoltosi andarono incontro alla loro (trista) sorte con disarmante ingenuità: Sorpresi nelle loro case come polli, bastonati come servi, carcerati come ladri e persino uccisi senza neanche combattere. Fu sconfitta totale! Eppure una qualche resistenza “per l’onore” era possibile visto la conformazione arroccata del paese. Tradimenti o non tradimenti a parte.

In altri termini i “caulonisti” (e Pasquale Cavallaro) persero perché non credettero fino in fondo in se stessi affidandosi mani e piedi a presunti sapientoni e “protettori” forestieri. Gli africoti invece fecero a meno di quel tipo di servizi, per come la pensavano e per fortuna!


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